CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 19 marzo 2018, n. 6799
Licenziamento per giusta causa – Assenza del lavoratore per infortunio – Svolgimento nel periodo di attività lavorativa comportante un impegno psico-fisico omogeneo alle proprie abituali mansioni – Sanzione conservativa – Ipotesi revocazione – Errore di fatto quando la decisione è fondata sulla supposizione di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa-
Fatti di causa
1. La Corte di Appello di Catania, con sentenza del 19 febbraio 2011, confermò la pronuncia di primo grado che aveva respinto il ricorso proposto da S.D.C. volto a far accertare l’illegittimità del licenziamento per giusta causa a costui intimato in data 14 dicembre 2004 da A. Spa “per svolgimento, durante un periodo di assenza del lavoratore per infortunio, di attività lavorativa comportante un impegno psico-fisico omogeneo a quello richiesto dalle prestazioni di lavoro (addetto vendita nel reparto pescheria) cui era contrattualmente occupato presso A.”.
La Corte territoriale, in sintesi, ritenne che “l’attività svolta (dal D.C.) durante lo stato di malattia si prospettava, astrattamente e con giudizio ex onte, idonea a compromettere una rapida e completa guarigione dalla patologia diagnosticatagli”.
Con sentenza n. 4237 del 3 marzo 2015 questa Corte, in accoglimento del secondo motivo del ricorso per cassazione proposto da S.D.C., ha cassato la sentenza impugnata, affermando “l’insussistenza della giusta causa di licenziamento”, con rinvio alla stessa Corte catanese, in diversa composizione, affinché provveda alle domande di condanna proposte dal lavoratore. In detta pronuncia la Corte di cassazione ha considerato che “la sanzione espulsiva irrogata risulta sproporzionata al comportamento stesso”, essendo “caso mai meritevole di una sola sanzione conservativa”.
2. Per la revocazione di tale sentenza avanza ricorso A. Spa ai sensi dell’art. 395, n. 4, c.p.c..
Ha resistito il D.C. con controricorso.
3. Nell’adunanza camerale del 12 luglio 2017, in vista della quale il ricorrente ha depositato memoria, il Collegio, considerato che, a mente del terzo comma del novellato art. 391-bis c.p.c., “sul ricorso per revocazione, anche per le ipotesi regolate dall’art. 391-ter, la Corte pronuncia nell’osservanza delle disposizioni di cui all’articolo 380-bis, primo e secondo comma, se ritiene l’inammissibilità, altrimenti rinvia alla pubblica udienza della sezione semplice”, ha disposto il rinvio della causa a nuovo ruolo.
Indi la causa è stata trattata nella pubblica udienza del 15 novembre 2017, in prossimità della quale parte ricorrente ha depositato nuova memoria.
Ragioni della decisione
1. Opportuno premettere i consolidati principi espressi dalla giurisprudenza di legittimità nell’interpretazione dell’ipotesi di revocazione di cui al n. 4 dell’art. 395 c.p.c..
Invero tale ipotesi sussiste se la sentenza è l’effetto di un errore di fatto risultante dagli atti o documenti della causa; vi è questo errore quando la decisione è fondata sulla supposizione di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa, oppure quando è supposta l’inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita.
Pacificamente per questa Corte tale genere di errore presuppone il contrasto tra due diverse rappresentazioni dello stesso oggetto, emergenti una dalla sentenza e l’altra dagli atti e documenti processuali, purché, da un lato, la realtà desumibile dalla sentenza sia frutto di supposizione, e non di valutazione o di giudizio e, dall’altro, quella risultante dagli atti e documenti non sia stata contestata dalle parti (per tutte Cass. SS.UU. n. 5303 del 1997; v. poi Cass. SS.UU. n. 15979 del 2001).
Pertanto in generale l’errore non può riguardare la violazione o falsa applicazione di norme giuridiche ovvero la valutazione e l’interpretazione dei fatti storici; deve avere i caratteri dell’assoluta evidenza e della semplice rilevabilità sulla base del solo raffronto tra la sentenza impugnata e gli atti e i documenti di causa, senza necessità di argomentazioni induttive o di particolari indagini ermeneutiche; deve essere essenziale e decisivo, nel senso che tra la percezione asseritamente erronea da parte del giudice e la decisione da lui emessa deve esistere un nesso causale tale che senza l’errore la pronuncia sarebbe stata diversa (tra le ultime v. Cass. n. 14656 del 2017).
In particolare, secondo il consolidato orientamento di questa Corte (Cass. n. 22569 del 2013; n. 4605 del 2013, n. 16003 del 2011) fuoriesce dal travisamento rilevante ogni errore che attinga la interpretazione del quadro processuale che esso denunziava, in coerenza con una scelta che deve lasciar fermo il valore costituzionale della insindacabilità delle valutazioni di fatto e di diritto della Corte di legittimità.
Inoltre non è idoneo ad integrare errore revocatorio l’ipotizzato travisamento, da parte della Corte di cassazione, di dati giuridico-fattuali acquisiti attraverso la mediazione delle parti e l’interpretazione dei contenuti espositivi degli atti del giudizio, e dunque mediante attività valutativa, insuscettibile in quanto tale – quand’anche risulti errata – di revocazione (Cass. n. 14108 del 2016; Cass. n. 13181 del 2013).
2.1. Ciò posto, la prima censura riguarda la sentenza impugnata nella parte in cui afferma che non vi sarebbero dubbi “sulla reale esistenza della malattia, provata dai referti medici e, in particolare, radiologici in atti, che non risultano oggetto di contestazione”.
Si eccepisce che la circostanza sarebbe “del tutto falsa” perché “nessun referto radiologico è mai stato prodotto dal D.C. (bastava verificare l’elenco dei documenti prodotti nel giudizio di primo grado…)” e perché “tra i documenti prodotti dalla difesa del D.C. il solo che costituisse un referto e non una certificazione era l’ecografia al polso dx dell’11.8.2004, …, riferita ad un infortunio precedente”.
La doglianza è inammissibile non solo perché non riporta in alcun modo gli specifici contenuti dei documenti richiamati, che peraltro il controricorrente contesta abbiano il significato attribuito dalla società, ma anche per difetto di decisività in quanto è stata cassata una sentenza della Corte territoriale che aveva giudicato la legittimità del licenziamento non sul presupposto dell’inesistenza della malattia bensì sull’assunto che l’attività svolta dal D.C., durante lo stato di malattia, si prospettava idonea a compromettere una rapida e completa guarigione dalla patologia diagnosticatagli; pertanto l’essenziale ragione su cui si fondava la decisione d’appello, sulla quale si è esercitato il controllo di questa Corte, ha riguardato esclusivamente l’idoneità del comportamento del lavoratore a pregiudicare la guarigione; di talché l’asserito errore che sarebbe stato compiuto da questa Corte nel riferimento a “referti medici e … radiologici”, oltre ad essere inevitabilmente mediato dall’attività valutativa di dati giuridico-fattuali acquisiti attraverso l’interpretazione dei contenuti di documenti, attività insuscettibile in quanto tale di revocazione secondo i principi innanzi espressi, non assurge comunque al rango di vizio decisivo e determinante perché non è sull’esistenza o meno della malattia che è stata cassata la pronuncia della Corte territoriale, che, anzi, ha dato per presupposta l’esistenza della patologia visto che non può pregiudicarsi la guarigione da una malattia inesistente.
2.2. Con il secondo mezzo di gravame si articolano due censure, riguardanti la valutazione della non proporzionalità della sanzione espulsiva così come effettuata dalla sentenza di cui si chiede la revocazione.
La prima censura, con cui si lamenta che la S.C. avrebbe ricostruito “in maniera errata la posizione difensiva della società”, non merita accoglimento secondo i richiamati orientamenti di legittimità per i quali non è idonea ad integrare errore revocatorio l’interpretazione dei contenuti espositivi degli atti del giudizio, che postula un’attività valutativa, non suscettibile in quanto tale – quand’anche risulti errata – di revocazione.
Parimenti non può essere accolta l’altra doglianza secondo cui la Corte di Appello avrebbe argomentato sulla violazione dei principi di correttezza e buona fede per non avere il dipendente offerto la prestazione possibile al proprio datore di lavoro, mentre la sentenza di questa Corte si sarebbe limitata a motivare sul solo aspetto della violazione del dovere di fedeltà per avere messo in pericolo la tempestività della guarigione.
Parte ricorrente, infatti, non enuclea il fatto su cui sarebbe fondata la decisione della revocanda sentenza la cui verità è incontrastabilmente esclusa, né tantomeno il fatto inesistente la cui verità sarebbe invece positivamente stabilita; piuttosto propone una diversa interpretazione del contenuto della pronuncia della Corte di Appello cassata che, per quanto già detto, non può concretare un errore revocatorio, in coerenza con una scelta che deve lasciar fermo il valore costituzionale della insindacabilità delle valutazioni di fatto e di diritto della Corte di legittimità, non potendo costituire il ricorso per revocazione in cassazione un ulteriore grado di giudizio.
2.3. Con il terzo motivo si eccepisce che “la sentenza riferisce del tutto erroneamente … come orientamento costante e consolidato della S.C., al quale dichiara di voler aderire, quello che a suo dire affermerebbe che la valutazione della correttezza della condotta finalizzata a non pregiudicare la rapidità della guarigione debba essere fatta con un giudizio ex post e non ex ante come riferito dalla Corte catanese”; si argomenta che la giurisprudenza di legittimità afferma invece il contrario.
La censura non può essere accolta in quanto la valutazione di un certo orientamento giurisprudenziale, oltre all’adesione o meno al medesimo, implica un apprezzamento che non può costituire oggetto di errore revocatorio, perché non si tratta di un fatto attinente alla ricostruzione della vicenda storica né di un fatto attinente lo svolgimento dello specifico processo; inoltre trascura di considerare che l’essenziale ratio decidendi della sentenza qui impugnata, non attinta dal mezzo di impugnazione, non risiede affatto nel negare valenza disciplinare alla condotta del D.C., quanto piuttosto nel ritenere che la stessa non fosse meritevole della massima sanzione espulsiva, con un giudizio che attiene alla proporzionalità della reazione datoriale, mercé una valutazione complessiva del comportamento, che non può certo essere rinnovato oggetto di sindacato in sede di revocazione sol perché non condiviso da chi l’ha subito.
3. Conclusivamente il ricorso va respinto.
Le spese seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo.
Occorre dare atto della sussistenza dei presupposti di cui all’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002, come modificato dall’art. 1, co. 17, I. n. 228 del 2012.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso per revocazione. Condanna la società ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità liquidate in euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15%, agli esborsi liquidati in euro 200,00 ed agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
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