CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 19 novembre 2021, n. 35500
Tributi – IVA – Costi per interventi di manutenzione delle strutture aeroportuali – Operazioni non imponibili per difetto del requisito di territorialità – Errata applicazione dell’imposta – Diritto di detrazione da parte del committente – Esclusione
Fatti di causa
A seguito di verifica generale condotta dalla G.d.F. di Bolzano per gli anni 2004- 2009, culminata in un p.v.c. del 29.10.2009, l’Ufficio di Bolzano notificò a A. Airport s.p.a., per l’anno d’imposta 2006, un avviso di accertamento con cui si contestava l’indebita detrazione di IVA assolta in relazione a servizi prestati da diversi fornitori, tuttavia consistenti in operazioni non imponibili per difetto del requisito di territorialità, ai sensi dell’art. 9, comma 1, n. 6), del d,P.R. n. 633/1972 (trattandosi di spese per manutenzioni effettuate nell’aeroporto di Bolzano), nonché, ai fini IRES, l’indebito utilizzo del metodo di ammortamento finanziario, ex art. 104 TUIR, anziché dell’ammortamento tecnico, in relazione a costi per interventi di manutenzione delle strutture aeroportuali, la società non essendo titolare di concessione amministrativa definitiva, ma solo precaria, e difettando anche il requisito della devolvibilità gratuita dei beni alla cessazione dell’efficacia della concessione stessa. La società impugnò l’avviso con ricorso dinanzi alla CT di primo grado di Bolzano, che con sentenza n. 52/1/12 lo accolse parzialmente, annullando la ripresa ai fini IRES, nonché le sanzioni, ma confermando il rilievo ai fini IVA. Avverso detta sentenza, propose appello la società, nonché incidentalmente l’Agenzia delle Entrate; la CT di secondo grado di Bolzano, con sentenza del 13.11.2014, n. 120/4/14, accolse il principale e respinse l’incidentale, in particolare rilevando che non era stata raggiunta la prova – gravante sull’ADE – che si trattasse di operazioni di servizi e prestazioni afferenti alla manutenzione dell’aeroporto, e comunque escludendo la legittimità del relativo recupero perché in contrasto col principio di neutralità, e ancora confermando il corretto utilizzo dell’ammortamento finanziario da parte della società, rapportato ad un ventennio, usuale durata delle concessioni definitive rilasciate dall’ENAC.
L’Agenzia delle Entrate ricorre ora per cassazione, affidandosi a quattro motivi.
La società è rimasta intimata. Il P.G. ha quindi rassegnato conclusioni scritte, chiedendo il rigetto del ricorso.
Ragioni della decisione
1.1 — Con il primo motivo, si denuncia violazione dell’art. 9, comma 1, n. 6), e 19, d.P.R. n. 633/1972, in combinato disposto con l’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., giacché in relazione alla ripresa IVA, la C.T. di secondo grado ha erroneamente ritenuto gravasse su essa Agenzia l’onere di dimostrare che le prestazioni contestate fossero o meno “riflettenti direttamente” il funzionamento e la manutenzione degli impianti, gravando in realtà detto onere sul contribuente.
1.2 — Con il secondo motivo, si denuncia violazione degli artt. 19 e 9, comma 1, n. 6), d.P.R. n. 633/1972, e dell’art. 3 d.l. n. 90/1990, conv. in legge n. 165/1990, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c., in quanto il giudice d’appello, pur avendo correttamente ritenuto non imponibili le contestate operazioni ai fini IVA, ha tuttavia ritenuto spettante il diritto di detrazione dell’imposta erroneamente assolta in virtù del principio di neutralità dell’IVA, senza però considerare che detto diritto non può essere riconosciuto in relazione ad un’imposta non dovuta.
1.3 – Con il terzo motivo, l’Agenzia delle Entrate denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 102 e 104 TUIR, nonché dell’art. 704 c. nav., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c. La ricorrente evidenzia che la metodologia dell’ammortamento finanziario mira a stabilizzare le quote di ammortamento dei beni per ciascun esercizio, collegandole all’arco temporale di durata della concessione amministrativa; tuttavia, ha errato nella specie la C.T. di secondo grado a ritenere legittimo l’operato della società, giacché questa non è titolare di alcuna concessione amministrativa definitiva, ma solo di un permesso temporaneo, tanto più che il criterio della durata ventennale è arbitrario, in quanto l’art. 704 c. nav. fissa il limite massimo di durata della concessione in 40 anni.
1.4 — Con il quarto motivo, infine, si denuncia nullità della sentenza per violazione dell’art. 36 d.lgs. n. 546/1992, 132, comma 2, n. 4, c.p.c., 118 disp. att. c.p.c., per aver adottato il giudice d’appello una motivazione meramente apparente in relazione alla questione dell’ammortamento finanziario, in particolare avendo la C.T. evidenziato che detta questione non era significativa sotto il profilo pratico, dal momento che la società risulta in perdita per tutti gli anni.
2.1 — Per ragioni di pregiudizialità logica, occorre anzitutto procedere all’esame del secondo motivo, concernente la detrazione dell’IVA. Tuttavia, è necessario dapprima affrontare la questione circa la portata dell’ius superveniens costituito dall’art. 1, comma 935, della legge n. 205/2017, giacché – essendo stato riformulato, con detta norma, il disposto dell’art. 6, comma 6, del d.lgs. n. 471/1997, nel senso che in caso di detrazione indebitamente fruita il contribuente è tenuto alla sola sanzione pecuniaria, mantenendo il diritto di detrazione stessa – la novella potrebbe astrattamente riverberarsi sulla ripresa IVA per cui è causa.
Così non è. Infatti, è costante ed ampiamente ricevuto l’insegnamento secondo cui il diritto di detrazione non può essere esercitato in relazione ad un’imposta non dovuta, salvo che l’esercizio dell’azione restitutoria risulti impossibile o eccessivamente oneroso (v. Cass. n. 15178/2014, Cass. n. 8919/2020, nonché Corte di Giustizia, 19 settembre 2000, C-342/87, Genius Holding, e ancora Corte di Giustizia, 26 aprile 2017, C-564/15, Farkas). Tuttavia, il legislatore italiano, intervenendo (ut supra) sull’art. 6, comma 6, d.lgs. 471/1997, ha attribuito il diritto di detrazione ex art. 19 d.P.R. n. 633/1972 al cessionario o committente che abbia assolto l’imposta in misura superiore a quella effettiva, se erroneamente versata dal cedente o prestatore, assoggettando però il primo alla sanzione amministrativa in misura compresa fra € 250 ed € 10.000. La disposizione si chiude con la previsione secondo cui “la restituzione dell’imposta è esclusa qualora il versamento sia avvenuto in un contesto di frode fiscale“.
Come sostanzialmente ritenuto sia dalla dottrina, sia dalla stessa giurisprudenza di questa Corte (in particolare, Cass. n. 23817/2020, in motivazione), attraverso l’escamotage dell’applicazione della sanzione (che denota un latente giudizio di disvalore sull’operazione, che resta evidentemente irregolare), sembra essersi attribuito con previsione innovativa il diritto di detrazione al cessionario, in un’ipotesi in cui ciò non era dapprima consentito. In tal guisa, resterebbe realizzata una sorta di semplificazione tendente ad evitare il farraginoso meccanismo delle azioni di ripetizione tra i vari soggetti coinvolti nell’operazione imponibile, sulla base della nota autonomia dei rapporti incrociati tra cedente, cessionario e fisco (su cui si veda, per tutte, Cass. n. 23288/2018).
Pochi mesi dopo l’entrata in vigore della norma, questa Corte ha affrontato il tema della sua immediata applicabilità ai giudizi pendenti (ciò in forza di un possibile ricorso al principio del favor rei, sancito dall’art. 3 del d.lgs. n. 471/1997, in tema di sanzioni), tuttavia negandola (Cass., 3 ottobre 2018, n. 24001, così massimata: “L’art. 6, comma 6, del d.lgs. n. 471 del 1997, nella formulazione introdotta dall’art. 1, comma 935, della l. n. 205 del 2017, nella parte in cui prevede che, nell’ipotesi di applicazione dell’imposta in misura superiore a quella effettiva, erroneamente assolta dal cedente o prestatore, resta fermo il diritto del cessionario o committente alla detrazione, ai sensi degli artt. 19 e ss. del d.P.R. n. 633 del 1972, non ha efficacia retroattiva né può ad essa riconoscersi valore di norma interpretativa, essendo priva di ogni riferimento al precedente regime ed all’esigenza di una chiarificazione del meccanismo di detrazione dell’IVA contemplato dallo stesso”), non venendo in rilievo, nella specie, il profilo sanzionatorio e non avendo la disposizione, nel resto, natura di legge di interpretazione autentica. Il legislatore è dunque ritornato sulla questione, con l’art. 6, comma 3-ter, del d.l. 34/2019, conv. con modificazioni in legge n. 58/2019, attribuendo alla disposizione stessa natura retroattiva.
Tuttavia, con due ulteriori pronunce pressoché coeve (la già citata Cass. n. 23817/2020, nonché Cass. n. 24289/2020), questa stessa Corte ha preso atto della natura retroattiva della disposizione, precisando però che, in conformità al suo tenore letterale, essa trova applicazione nei soli casi in cui sia stata erroneamente applicata un’aliquota maggiore rispetto a quella prescritta, non anche in tutte le ipotesi di IVA non dovuta (ad es., per un’operazione non imponibile, come nel caso all’esame della stessa Cass. n. 24289/2020). Resta fermo che, ove il cessionario non possa richiedere il rimborso secondo la normativa in questione, può ovviamente avvalersi dell’azione di ripetizione d’indebito verso il cedente ovvero, se soggetto IVA, richiedere il rimborso al fisco, ove l’errata applicazione dell’imposta di rivalsa indebitamente assolta si rifletta sulla liquidazione finale, determinando un’eccedenza rimborsabile (in tal senso, la citata Cass. n. 24289/2020).
Sulla questione della detraibilità, per vero, si registra una pronuncia più recente e di tenore più restrittivo (Cass. n. 10439/2021), secondo cui un’interpretazione eurounitariamente orientata dell’art. 6, comma 6, cit., ne impone una lettura secondo cui la detrazione dell’imposta assolta spetta per la sola parte corrispondente all’imposta effettivamente dovuta, la disposizione solo avendo finalità tendenti a mitigare il trattamento sanzionatorio. L’asserto, che non sembrerebbe incidere direttamente sulla questione che qui occupa (concernente invece la diversa ipotesi in cui un’operazione non imponibile sia stata trattata come imponibile), finisce in realtà per rafforzare il già descritto insegnamento di Cass. n. 23817/2020 e Cass. n. 24289/2020 circa l’inapplicabilità della novella a casi come quello qui in esame, escludendosi nella sostanza tout court la sussistenza di un carattere d’innovazione dello stesso art. 6, comma 6, cit., circa il mero rapporto impositivo, sicché ritiene la Corte di dover dare continuità alla propria giurisprudenza sul punto.
2.2 — Ciò posto, il motivo in esame è fondato.
Premesso che la vicenda si è svolta nell’egida dell’art. 7, ult. comma, d,P.R, n. 633/1972, nel testo previgente alla novella del d.lgs. n. 18/2010, per quanto già detto poc’anzi è evidente che il principio di neutralità non può affatto giustificare in ogni caso la sussistenza del diritto di detrazione, che spetta soltanto in relazione ad un’imposta effettivamente dovuta, salvi i casi di eccessiva onerosità o difficoltà del recupero, nella specie neanche dedotti. La contraria statuizione della C.T. di secondo grado è quindi erronea.
3.1 — Anche il primo motivo è fondato.
A fronte della molteplicità delle operazioni contestate, il giudice d’appello ha affermato che non era stata raggiunta la prova che si trattasse di operazioni non imponibili in quanto ricomprese nella definizione di cui all’art. 9, comma 1, n. 6, d.P.R. n. 633/1972, come anche risultante dalla legge di interpretazione autentica, e ha osservato che l’Ufficio non aveva addotto “prove o argomentazioni” al riguardo, evidentemente ritenendolo di ciò onerato.
In realtà, è costante l’insegnamento secondo cui “In tema d’IVA, ove l’Amministrazione finanziaria contesti al contribuente l’indebita detrazione dell’imposta pagata per l’acquisizione di beni o servizi, spetta al contribuente l’onere di provarne la legittimità e la correttezza” (Cass. n. 27615/2018). Si tratta, infatti, di dimostrare il fatto costitutivo del diritto, il cui onere non può che gravare sul soggetto che intende esercitarlo (v. anche Cass. n. 2935/2015); in relazione a ciò, è ovviamente decisiva la descrizione dell’operazione, come indicata in fattura, ai sensi dell’art. 21 del d.P.R. n. 633/1972.
Nella specie, avendo assunto l’Agenzia che le operazioni in discorso, come indicate nelle fatture stesse, non fossero imponibili, per difetto del requisito di territorialità, è del tutto evidente che l’onere di dimostrare il contrario, per non rientrare invece dette operazioni tra quelle di cui all’art. 9, comma 1, n. 6, d.P.R. n. 633/1972, ed essere assoggettate al regime di piena imponibilità, non può che gravare sul contribuente che intende esercitare il relativo diritto di detrazione, onde così fornire la prova del contestato fatto costitutivo. La statuizione della C.T. di secondo grado, sul punto, è dunque erronea.
4.1 – Il terzo motivo è infondato.
E’ chiaro che – comunque sia denominato – il permesso temporaneo di occupare le strutture aeroportuali “con il vincolo di esecuzione degli interventi di manutenzione ordinaria e straordinaria” altro non è se non una concessione provvisoria rilasciata alla società, in vista di quella definitiva. In quest’ottica, il periodo ventennale utilizzato da quest’ultima, in conformità alla durata usualmente stabilita dall’ENAC per il rilascio di siffatte concessioni (come accertato dalla C.T. di secondo grado), è pienamente coerente con la finalità della disposizione, che è quella di consentire al concessionario di agganciare l’ammortamento alla durata della concessione, anziché procedere col metodo ordinario (ex art. 102 TUIR), se per lo stesso più favorevole; la durata “fiscale” del valore dei beni, dunque, è legata a quella di efficacia della concessione, in un’ottica di agevolazione per il contribuente, rispetto all’ammortamento ordinario, così essendogli consentita una deducibilità coerente con l’impiego funzionale del bene, anche sotto il profilo temporale. Le successive evenienze, come correttamente evidenzia la società in controricorso, ben possono risolversi alla luce delle disposizioni dell’art. 104 TUIR circa la modifica della durata di efficacia della concessione.
Del resto, come in parte già evidenziato, la C.T. di secondo grado ha anche accertato che la durata usuale della concessione rilasciata dall’ENAC è pari a venti anni, che la società aveva presentato richiesta di rilascio della concessione, che questa sarebbe stata sicuramente emessa e che si trattava di beni devolvibili gratuitamente alla scadenza (ossia, in prospettiva, una volta scaduta la concessione definitiva). Si tratta di accertamenti in fatto che esulano dal confine del mezzo, come proposto, e che come si dirà tra breve non sono stati adeguatamente attinti.
5.1 — Il quarto motivo è inammissibile.
Infatti, nel ritenere infondata la ripresa IRES riguardo all’ammortamento finanziario, il giudice d’appello ha sì affermato che la questione non era significativa, in quanto la società era stata sempre in perdita, ma ha principalmente ritenuto corretto il ricorso al periodo ventennale da parte della società stessa, sulla scorta della prevedibile durata della concessione definitiva, sussistendo anche beni gratuitamente devolvibili.
E’ quindi evidente che la censurata affermazione è priva di decisività, ma costituisce soltanto argomento ad abundantiam, donde l’inammissibilità del mezzo, per non aver colto l’Agenzia la ratio decidendi.
6.1 — In definitiva, il primo e il secondo motivo sono accolti, sono infondati i restanti. La sentenza impugnata è dunque cassata in relazione, con rinvio alla C.T. di secondo grado di Bolzano, in diversa composizione, che applicherà i superiori principi di diritto e provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
accoglie il primo e il secondo motivo e rigetta nel resto. Cassa in relazione e rinvia alla C.T. di secondo grado di Bolzano, in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.
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