CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 19 ottobre 2018, n. 26410

Tributi – Accertamento – Inattendibilità della contabilità esibita – Notifica oltre i termini di legge – Termine di decadenza

Fatti di causa

L’Agenzia delle Entrate notificava alla A. s.r.l. avviso di accertamento, per l’annualità di imposta 2000, ai fini Iva, Irpeg e Irap, sulla base di verifica all’esito della quale, essendo emersa la inattendibilità della contabilità esibita, si era proceduto ad una ricostruzione analitico-induttiva del maggior reddito, ai sensi dell’art. 39, primo comma, lett. d) del d.P.R. n. 600 del 1973.

La contribuente proponeva ricorso dinanzi alla Commissione Tributaria provinciale, eccependo la intervenuta decadenza della Amministrazione finanziaria dal potere accertativo, per essere stato l’avviso notificato oltre il termine previsto dall’art. 43 del d.P.R. n. 600/73, nonché la illegittimità del ricorso al metodo induttivo-analitico.

La Commissione Tributaria provinciale accoglieva il ricorso, ritenendo decorso il termine di decadenza per l’azione di accertamento.

La Agenzia delle Entrate proponeva appello, ritenendo applicabile alla fattispecie la proroga di due anni prevista dall’art. 10 della legge n. 289 del 2002 e, nel merito, ribadiva le difese già svolte in primo grado.

La Commissione Tributaria regionale accoglieva l’appello, motivando che l’Ufficio non era decaduto dal potere accertativo, potendo avvalersi della proroga biennale prevista dalla legge n. 289/02, e che aveva legittimamente operato sulla base di quanto disposto dall’art 39, comma 1, lett. d), del d.P.R. n. 917/86 ponendo in essere un accertamento “misto” induttivo-analitico.

La contribuente ha proposto ricorso per cassazione affidandolo a sette motivi.

La Agenzia delle Entrate resiste con controricorso.

Motivi della decisione

1. Con il primo motivo di ricorso la società contribuente lamenta la violazione dell’art. 43 del d.P.R. n. 600/73, nonché dell’art. 10 della legge n. 289/02, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ., ritenendo non applicabile la proroga biennale prevista dall’art. 10 della legge n. 289/02, essendo questa prevista per le sole ipotesi in cui la Amministrazione finanziaria debba esaminare le posizioni di coloro che hanno scelto di non avvalersi delle definizioni agevolate previste dagli artt. 7, 8 e 9 della medesima legge e non anche nei confronti di coloro ai quali sia precluso – essendo intervenuta la notifica del processo verbale di constatazione con esito positivo – l’accesso alle disposizioni agevolative.

1.1. Il motivo è infondato.

L’art. 10, comma primo, della legge n. 289 del 2002 prevede che “per i contribuenti che non si avvalgono delle disposizioni recate dagli artt. da 7 a 9 della presente legge, in deroga alle disposizioni della legge 27 luglio 2000, n. 212, art. 3, comma 3, i termini di cui al d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, art. 57 e successive modificazioni, sono prorogati di due anni”.

Questa Corte, affrontando la questione se la proroga prevista dal citato art. 10 si applichi o meno ai contribuenti, ai quali, in base agli artt. 7 e 9, sia stato notificato processo verbale di constatazione con esito positivo, ovvero avviso di accertamento ai fini delle imposte sui redditi, dell’imposta sul valore aggiunto ovvero dell’imposta regionale sulle attività produttive, nonché invito al contraddittorio di cui al d.lgs. 19 giugno 1997, n. 218, art. 5, relativamente ai quali non è stata perfezionata la definizione ai sensi degli artt. 15 e 16, ha già avuto modo di statuire che “in tema di condono fiscale, la proroga biennale dei termini di accertamento, accordata agli uffici finanziari dalla legge 27 dicembre 2002, n. 289, art. 10, opera << in assenza di deroghe contenuta nella legge>> sia nel caso in cui il contribuente non abbia inteso avvalersi delle disposizioni di favore di cui alla suddetta legge, pur avendovi astrattamente diritto, sia nel caso in cui non abbia potuto farlo, perché raggiunto da un avviso di accertamento notificatogli prima dell’entrata in vigore della legge “ (Cass. n. 3782 del 26/2/2016; n. 8142 del 22/4/2016, n. 16613 del 7/8/2015; n. 22921 del 29/10/2014).

La Commissione Tributaria regionale non è, dunque, incorsa nell’errore di diritto denunciato, avendo correttamente ritenuto applicabile alla fattispecie in esame la proroga dei termini di accertamento disposta dall’art. 10 della legge n. 289 del 2002, nonostante la pregressa notificazione dell’avviso di accertamento che ha precluso alla contribuente di avvalersi delle definizioni agevolate previste dalla medesima legge.

Infatti l’art. 10 citato non consente di distinguere tra i destinatari coloro che non “intendono” e coloro che non “possono” avvalersene, poiché l’espressione “non avvalersi”, secondo il significato proprio delle parole (art. 12 preleggi), descrive sia la situazione di chi non voglia, sia la situazione di chi non possa accedere al beneficio, essendo tutti parimenti soggetti alla sua applicazione per il solo fatto di non avere aderito al condono.

2. Con il secondo motivo la A. s.r.l. censura la sentenza per “insufficiente motivazione circa un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5 cod. proc. civ.”, lamentando che, nonostante le specifiche censure da essa svolte, in primo ed in secondo grado, volte a dimostrare la illegittimità del ricorso da parte della Amministrazione finanziaria al metodo analitico-induttivo di cui all’art. 39, primo comma, lett. d) del d.P.R. n. 600/73, che sono state ritrascritte nel ricorso, in ossequio al principio di autosufficienza del motivo, la Commissione Tributaria regionale si è limitata ad affermare in modo apodittico l’inattendibilità delle scritture contabili e, quindi, la legittimità del ricorso all’accertamento induttivo.

2.1. Il motivo è infondato.

Il giudice di appello, facendo proprie le risultanze dell’accertamento effettuato dall’Ufficio, ha affermato che la Amministrazione ha legittimamente operato sulla base di quanto disposto dall’art. 39, comma 1, lett. d), del d.P.R. n. 600/73, <<ponendo in essere un accertamento “misto” induttivo-analitico determinato da numerose irregolarità di natura formale e sostanziale che rendevano del tutto inattendibile la contabilità tenuta dalla parte sottoposta a verifica…>>.

Con tale motivazione la Commissione Tributaria regionale ha inteso affermare non solo che le irregolarità riscontrate in sede di verifica legittimavano il ricorso all’accertamento analitico-induttivo, ma anche che i rilievi contestati alla contribuente erano fondati, in tal modo implicitamente negando rilevanza alle censure sollevate dalla A. s.r.l., sia con il ricorso di primo grado che con l’atto di appello, tutte volte a dimostrare la mancanza dei presupposti per far luogo a tale tipo di accertamento e la attendibilità delle scritture contabili.

Non è, pertanto, ravvisabile il dedotto vizio di motivazione, in quanto le argomentazioni poste a base della decisione sono esaustive e immuni da vizi logici e consentono di ricostruire il percorso logico-giuridico che ha condotto il giudice a quella decisione.

Il vizio di motivazione non può, infatti, essere inteso a far valere la rispondenza della ricostruzione dei fatti operata dal giudice di merito al diverso convincimento soggettivo della parte, non potendosi con esso proporre un diverso e più appagante coordinamento dei molteplici dati acquisiti, atteso che tali aspetti del giudizio, interni all’ambito della discrezionalità di valutazione degli elementi di prova e dell’apprezzamento dei fatti, attengono al libero convincimento del giudice e non ai possibili vizi del percorso formativo di tale convincimento rilevanti ai sensi della disposizione di cui all’art. 360, comma primo, n. 5, cod. proc. civ.; diversamente ragionando, questo motivo di ricorso si risolverebbe in una inammissibile istanza di revisione delle valutazioni e dei convincimenti del giudice di merito e, quindi, in una richiesta di rivisitazione del materiale probatorio già esaminato dal giudice di merito al fine di ottenere una nuova pronuncia sul fatto, non consentita nel giudizio di legittimità (Cass 9233 del 20/4/2006; n. 20280 del 4/9/2013).

3. Con il terzo motivo la ricorrente denuncia “violazione dell’art. 109, secondo comma, lett. a) e dell’art. 92 del d.P.R. n. 917 del 1986, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ., con riguardo alla errata contabilizzazione delle rimanenze finali”.

Secondo la prospettazione difensiva di parte ricorrente, la decisione del giudice di appello si pone in contrasto con quanto previsto dall’art. 109, secondo comma, lett. a) del t.u.i.r., secondo cui, ai fini della determinazione del reddito di impresa, le spese per l’acquisizione dei beni mobili si considerano sostenute al momento della consegna dei beni stessi, e con la previsione di cui all’art. 92 del t.u.i.r., in base al quale le rimanenze finali di un esercizio, che costituiscono le rimanenze iniziali dell’esercizio successivo, concorrono alla formazione del reddito complessivo come costo.

3.1. Il motivo è infondato.

La disposizione di cui all’art. 109 del d.P.R. n. 917/86 stabilisce, al fine della determinazione dell’esercizio cui imputare i corrispettivi derivanti dalla cessione di beni mobili, il criterio oggettivo della “data di consegna” o “spedizione” dei medesimi beni, presupponendo che la consegna intervenga, di norma, quando si è già verificato l’effetto traslativo della proprietà del bene in forza del negozio di cessione che ne è alla base; con specifico riferimento ai contratti di compravendita di autoveicoli, sicuramente qualificabili come “cessioni”, vi è coincidenza tra il momento in cui si determina l’effetto traslativo della proprietà del bene ed il criterio di imputazione temporale del corrispettivo della compravendita dettato dalla disposizione in esame (Cass. 11604 del 11/9/2001).

Tale disposizione, peraltro, si pone in evidente connessione con la disciplina dettata dall’art. 92 dello stesso d.P.R. n. 917/86, che regola la variazione delle rimanenze, considerato che la determinazione del “momento di competenza” è finalizzato non soltanto alla contabilizzazione di costi e ricavi, ma anche all’inserimento nelle, ovvero alla eliminazione dalle, rimanenze finali dei corrispondenti beni acquistati o ceduti (Cass. n. 11604 del 11/9/2001).

La Commissione Tributaria nella motivazione ha affermato che la legittimità dell’operato dell’Ufficio risultava, tra l’altro, avvalorata dalla riscontrata irregolare contabilizzazione delle rimanenze finali, che scaturiva dal fatto che le spese di acquisizione degli autoveicoli non erano state correttamente imputate all’esercizio di competenza, ossia all’anno in cui il bene mobile era stato consegnato o spedito, come previsto dall’art. 109 del Testo Unico delle imposte dirette, sicché nella sentenza non è ravvisabile la violazione di legge denunciata.

4. Con il quarto motivo si deduce violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4 cod. proc. civ., per avere la Commissione tributaria regionale omesso di pronunciarsi in ordine alla contestata inclusione delle spese per i passaggi di proprietà tra i ricavi della vendita dei veicoli usati.

5. Con il quinto motivo si deduce che la Commissione tributaria regionale ha omesso di pronunciarsi in ordine alla contestata mancata indicazione del prezzo di acquisto negli atti di acquisto relativi ai veicoli usati acquistati in permuta.

6. Con II sesto motivo si deduce “violazione dell’art. 112 cod. proc. civ., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4 cod. proc. civ.”, per avere il giudice di appello omesso di pronunciarsi in ordine alla asserita errata emissione di note di credito ed alla supposta inesistenza delle operazioni poste in essere con la società S. s.r.l.”.

7. Con il settimo motivo si deduce parimenti omessa pronuncia del giudice di appello con riguardo alla ricostruzione dei maggiori ricavi operata dall’Ufficio.

7.1. Il quarto, il quinto, il sesto ed il settimo motivo, che per evidente connessione, possono essere esaminati congiuntamente, concernendo tutti la asserita violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato, sono infondati.

Ad integrare gli estremi del vizio di omessa pronuncia non basta la mancanza di un’espressa statuizione del giudice, ma è necessario che sia stato completamente omesso il provvedimento che si palesa indispensabile alla soluzione del caso concreto: ciò non si verifica quando la decisione adottata comporti la reiezione della pretesa fatta valere dalla parte, anche se manchi in proposito una specifica argomentazione, dovendo ravvisarsi una statuizione implicita di rigetto quando la pretesa avanzata col capo di domanda non espressamente esaminato risulti incompatibile con l’impostazione logico-giuridica della pronuncia (Cass. n. 24155 del 13/10/2017; Cass. n. 20311 del 4/10/2011).

In conclusione, il ricorso deve essere rigettato.

Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento, in favore della Agenzia delle Entrate, delle spese del giudizio di legittimità che liquida in euro 7.000,00, oltre spese prenotate a debito.