CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 20 giugno 2019, n. 16598
Licenziamento per giusta causa – Ripetitività delle condotte irregolari poste in essere dal lavoratore – Lesione del vincolo fiduciario
Fatti di causa
La Corte di Appello di Napoli confermava la pronuncia del Tribunale della stessa sede che aveva rigettato il ricorso proposto da A. N. nei confronti di E-Distribuzione s.p.a. (già E. Distribuzione s.p.a.) volto a conseguire l’accertamento della illegittimità del licenziamento per giusta causa intimatogli in data 23-27/12/2010.
La Corte di merito argomentava, a fondamento del decisum ed in estrema sintesi, che la contestazione degli addebiti – consistenti nella sostituzione arbitraria di sei contatori, omessa segnalazione di palesi manomissioni della sigillatura esterna, installazione di due misuratori manomessi prima del montaggio e falsità delle motivazioni tecniche che avrebbero giustificato la sostituzione delle apparecchiature – era assistita dai requisiti della specificità e della tempestività; che la sanzione irrogata era proporzionata alla condotta ascritta e comprovata alla stregua della espletata attività istruttoria, da cui era emersa l’evidenza della ripetitività delle condotte irregolari poste in essere dal lavoratore, idonee a vulnerare irrimediabilmente il vincolo fiduciario sotteso al rapporto di lavoro, come del resto espressamente sancito dall’art. 25 c.c.n.I. di settore.
La cassazione di tale pronuncia è domandata dal N. sulla base di quattro motivi ai quali oppone difese la società intimata.
Entrambe le parti hanno depositato memoria illustrativa ex art. 378 c.p.c.
Ragioni della decisione
1. il primo motivo prospetta violazione e falsa applicazione dell’art. 7 della legge 20 maggio 1970 n. 300 nonché degli artt. 1175, 1375 e 2697 c.c. in relazione all’art. 360 comma primo n. 3 c.p.c.
Si critica la sentenza impugnata per avere negato che il procedimento disciplinare di cui alla disposizione statutaria, sia governato dal principio del contraddittorio anche nella fase di accertamento della mancanza.
Si deduce che tutto il procedimento seguito dall’E. per pervenire alla contestazione dei fatti addebitati al dipendente è stato caratterizzato, in violazione della fondamentale garanzia del diritto di difesa, dalla sostanziale impossibilità per il dipendente, di interloquire ed assumere cautele in ordine al presupposto della contestazione, consistente nella menomazione dei contatori. Non si potrebbe riconoscere rilevanza ad accertamenti che la parte datoriale ha unilateralmente disposto sui contatori, senza un effettivo confronto con la parte incolpata, impossibilitata a verificare quanto addebitatole. Dovendo porre a base della sanzione, condotte attinenti alla alterazione dei contatori E., la società avrebbe avuto l’onere di determinare la formazione della prova in modo da non compromettere la possibilità per il dipendente di contraddire e di difendersi, quali un accertamento stragiudiziale in contraddittorio o un a.t.p. ex art. 696 c.p.c.
Si sostiene, per contro, che i principi di correttezza e buona fede nello svolgimento dei rapporti contrattuali impongono al datore di lavoro di consentire al lavoratore una tale partecipazione soprattutto quando, come nella specie, gli accertamenti che si vanno a compiere non sono più ripetibili. In tal senso si prospetta una consumazione del potere di controllo del datore di lavoro, dopo che sia stata svolta la verifica della corretta esecuzione della prestazione sull’oggetto della stessa (i contatori), e una volta che l’oggetto sia uscito dalla sfera di controllo del lavoratore stesso.
2. Il motivo non è fondato.
La Corte distrettuale ha congruamente argomentato in ordine all’insussistenza, nel sistema contrattuale e tantomeno in quello normativo vigente, di un principio quale quello invocato dal ricorrente, secondo cui un avvenuto controllo sulla condotta del lavoratore, preclude: in futuro qualsiasi contestazione, anche qualora il datore si avveda che dal dipendente stesso siano stati compiuti gravi illeciti. Ha rimarcato per contro, che è rinvenibile, piuttosto, il principio contrario secondo cui “il lavoratore ha l’obbligo, sanzionato sotto diversi profili, di compiere la propria prestazione lavorativa secondo il criterio della diligenza e salvaguardando l’interesse del datore di lavoro la cui attività è procedimentalizzata esclusivamente nell’ambito del procedimento disciplinare“.
I condivisibili approdi ai quali è pervenuta la Corte distrettuale, si collocano, infatti, nel solco del costante insegnamento giurisprudenziale secondo cui ai licenziamenti disciplinari sono state estese (C. Cost. n. 204/1982) soltanto alcune delle garanzie procedimentali che sono previste dall’articolo 7 della legge 20 maggio 1970 n. 300 per le sanzioni conservative, fra le quali vanno annoverate le garanzie di contestazione dell’addebito e di audizione a difesa del lavoratore incolpato (di cui ai commi 2A e 3^) – esigendo, “come essenziale presupposto delle sanzioni disciplinari”, lo svolgersi di un procedimento “che rinviene il suo marchio distintivo nella regola del contraddittorio audiatur et altera pars” (vedi Cass. 8/8/2003 n. 12027).
Il principio del rispetto della regola del contraddittorio, governa, dunque, esclusivamente l’ambito del procedimento disciplinare, in quanto essenziale presupposto di irrogazione delle sanzioni disciplinari, dovendo invece non ritenersi illegittime le indagini preliminari del datore di lavoro che, come nella specie, siano volte ad acquisire elementi di giudizio necessari per verificare la configurabilità (o meno) di un illecito disciplinare e per identificarne il responsabile, attenendo ad un momento ancora anteriore alla fase procedimentalizzata – e meramente eventuale – per la quale unicamente è prevista alla rituale contestazione dell’addebito, con possibilità per il lavoratore di difendersi anche con l’assistenza dei rappresentanti sindacali.
Deve pertanto escludersi che nello specifico, possa configurarsi la violazione delle disposizioni statutarie prospettata dal ricorrente, con la conseguente consumazione del potere disciplinare, la statuizione impugnata palesandosi del tutto congrua e conforme a diritto per quanto sinora detto (vedi ex plurimis, Cass. 27/11/2018 n. 30679).
3. Con il secondo motivo di ricorso è denunciata la violazione e falsa applicazione dell’art. 7 della legge 20 maggio 1970 n. 300 nonché degli artt. 1175 e 1375 c.c. in relazione all’art. 360 comma primo n. 3 c.p.c.
Ribadisce il ricorrente le doglianze formulate in grado di appello, ed i/v erroneamente disattese dal giudice del gravame, con le quali aveva contèstato il difetto di specificità e di tempestività della contestazione di addebito, che ridondava in termini di illegittimità del licenziamento. Nell’atto di incolpazione si deduceva che erano state riscontrate “manomissioni della sigillatura esterna” in assenza, tuttavia, di alcuna descrizione delle modalità secondo le quali le stesse sarebbero state realizzate.
Si deduce poi, che la stessa genericità delle contestazioni “impedisce di dedurre che la contestazione sia stata tempestiva”.
4. La censura è destituita di fondamento.
La Corte territoriale nel pervenire al convincimento che la contestazione dell’addebito fosse tempestiva, ha dato conto della circostanza che i singoli episodi si inseriscono in un ampio arco temporale, essendo emerso che i fatti contestati si erano protratti dall’agosto 2009 al luglio 2010, ma ad essi erano seguiti approfonditi accertamenti tecnici nel periodo settembre- ottobre 2010. Nell’ottica descritta, tempestiva doveva ritenersi la lettera di contestazione datata 19/11/2010, anche in considerazione dell’imponente mole di verifiche disposte dalla società (in numero di 17.000 nel solo 2010 come emerso in sede istruttoria).
Così facendo, la Corte di merito ha mostrato di conoscere e condividere i principi più volte affermati da questa Corte secondo i quali l’immediatezza della contestazione, la cui “ratio” riflette l’esigenza dell’osservanza della regola della buona fede e della correttezza nell’attuazione del rapporto di lavoro, deve essere intesa in senso relativo e obbliga l’imprenditore a portare a conoscenza del lavoratore i fatti contestati non appena essi gli appaiano ragionevolmente sussistenti, non consentendo di procrastinare la contestazione medesima in modo da rendere difficile la difesa del dipendente o perpetuare l’incertezza sulla sorte del rapporto, in quanto nel licenziamento per giusta causa l’immediatezza della contestazione si configura quale elemento costitutivo del diritto di recesso del datore di lavoro.
In buona sostanza occorre tener conto del momento di effettiva conoscenza datoriale dell’inadempimento contestato al dipendente (Cass.15/07/2014 n.16138) e se non è consentito dilazionare la contestazione fino al momento in cui ritiene di avere la assoluta certezza dei fatti, tuttavia, nel momento in cui la contestazione viene elevata essa deve essere sufficientemente precisa e dettagliata, in modo da consentire al lavoratore di difendersi adeguatamente.
Pertanto il requisito della tempestività va bilanciato con quello della specificità che deve del pari essere rispettato (cfr. sul carattere relativo della nozione di tempestività cfr. Cass. 20/6/2014 n. 14103, Cass.12/1/2016 n. 281 cui adde Cass. 1/3/2017 n. 5273, in motivazione Cass. 28/3/2018 n. 7735). E nella specie, detto bilanciamento risulta correttamente verificato, nella sua effettiva sussistenza, dal giudice del gravame, il quale ha avuto mod0 di argomentare altresì in ordine alla specificità della contestazione degli addebiti, rimarcando la sussistenza di un grado sufficiente di dettaglio nella descrizione della condotta ascritta al lavoratore, idoneo a consentire al N. di articolare difese, con accertamento che si sottrae al sindacato in questa sede di legittimità (vedi per tutte Cass.20/6/2006 n. 14115) perché condotto con argomentazioni congrue e conformi a diritto, per quanto sinora detto.
5. Con il terzo motivo di ricorso è denunciata la violazione e falsa applicazione dell’art. 7 L. 300/70 nonché degli artt. 1175 e 1375 c.c. in relazione all’art. 360 comma primo n. 3 c.p.c. nonché omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio ex art. 360 comma primo n. 5 c.p.c.
Ci si duole che la Corte di merito abbia rigettato la formulata eccezione di novità della contestazione degli addebiti formulata in sede giudiziale rispetto a quelle originaria, peraltro del tutto generica, negando che in giudizio fossero state introdotte mere circostanze specificative degli iniziali addebiti.
6. La censura non è condivisibile.
Al di là di ogni questione inerente alla promiscuità della tecnica redazionale del motivo più volte stigmatizzata da questa Corte per la inammissibile denuncia di vizi contraddistinti da irredimibile contraddittorietà (vedi ex plurimis, Cass. 23/10/2018 n.26874, Cass. 6/5/2016 n. 9228) va osservato che i rilievi formulati sono volti, nella sostanza, a sindacare un accertamento di fatto condotto dal giudice del merito, che ha portato lo stesso a ritenere fosse stato dimostrato, alla stregua dei dati acquisiti in giudizio, il rispetto del principio di immutabilità della contestazione.
Ai descritti approdi – fondati sul documentato raffronto fra la lettera di contestazione e le circostanze ulteriori dedotte nel corso della fase a cognizione sommaria in base ai quali è stato ritenuto che il nucleo dei fatti contestati al lavoratore in termini di plurime sostituzioni e montaggi di contatori manomessi, fosse stato semplicemente specificato nelle modalità di attuazione riferite alla bruciatura della calotta, amperometrica dissaldata all’altezza della scheda elettrica con indicazione di consumo diverso da quello della scheda elettrica … – il ricorrente ne contrappone altro difforme, non censurando puntualmente la ricostruzione elaborata in sentenza, ma proponendo una diversa valorizzazione degli elementi probatori raccolti senza neanche specificamente riportare per esteso il testo dei documenti il cui contenuto sarebbe stato erroneamente valutato.
La quaestio facti rilevante in causa è stata trattata in conformità ai criteri valutativi di riferimento, pur pervenendo il giudice del gravame a conclusioni opposte a quelle indicate da parte ricorrente, osservandosi al riguardo che, in tema di ricorso per cassazione, l’allegazione di un’erronea ricognizione della fattispecie concreta a mezzo delle risultanze di causa è esterna all’esatta interpretazione della norma di legge e inerisce alla tipica valutazione del giudice di merito, la cui censura è possibile, in sede di legittimità, solo sotto l’aspetto del vizio di omesso esame di un fatto decisivo oggetto di discussione tra le parti.
Non può, dunque, sottacersi come il ricorso solleciti, anche nella forma apparente della denuncia di error in iudicando, un riesame dei fatti, inammissibile nella presente sede, posto che, secondo i consolidati principi espressi da questa Corte, con il ricorso per cassazione la parte non può rimettere in discussione, proponendo una propria diversa interpretazione, la valutazione delle risultanze processuali e la ricostruzione della fattispecie operate dai giudici del merito poiché la revisione degli accertamenti di fatto compiuti da questi ultimi è preclusa in sede di legittimità (ex plurimis, vedi Cass. 7/12/2017 n. 29404) allorquando si siano tradotti, come nella specie, in una pronuncia sorretta da motivazione rispondente al minimo costituzionale (cfr. Cass. S.U. 7/4/2014 n. 8053).
L’ipotesi considerata rientra certamente nel paradigma da ultimo delineato onde la statuizione impugnata si sottrae alla censura mossa.
7. Con il quarto motivo il ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 2104, 2105, 2106 c.c. nonché deirart. 25 c.c.n.I. in relazione all’art. 360 comma primo n. 3 c.p.c.
Si stigmatizza la sentenza impugnata in punto di accertamento della proporzionalità della massima sanzione disciplinare applicata, al cospetto di mancanze contestate riferite a comportamenti definiti in termini di mera negligenza.
8. Il motivo va disatteso per le ragioni di seguito esposte.
Secondo le linee ermeneutiche dettate da questa Corte, la giusta causa di licenziamento deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro e, in particolare, dell’elemento fiduciario, dovendo il giudice valutare, da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi e all’intensità del profilo intenzionale; dall’altro, la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, per stabilire se la lesione dell’elemento fiduciario, su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro, sia tale, in concreto, da giustificare la massima sanzione disciplinare.
Quale evento “che non consente la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto”, la giusta causa di licenziamento integra una clausola generale, che richiede di essere concretizzata dall’interprete tramite valorizzazione dei fattori esterni relativi alla coscienza generale e dei principi tacitamente richiamati dalla norma, quindi mediante specificazioni che hanno natura giuridica e la cui disapplicazione è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, laddove l’accertamento della ricorrenza concreta degli elementi del parametro normativo si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e incensurabile in cassazione se privo di errori logici e giuridici.
Mentre il giudizio di sussunzione è giudizio di diritto, in quanto tale sottoponibile allo scrutinio di questa Corte, quello di mera proporzionalità in concreto fra illecito disciplinare e relativa sanzione è giudizio di fatto riservato al giudice di merito, che deve operarlo tenendo conto di tutti i connotati oggettivi e soggettivi della vicenda come, ad esempio, l’entità del danno, il grado della colpa o l’intensità del dolo, l’esistenza o non di precedenti disciplinari a carico del dipendente (vedi Cass. 29/3/2017 n. 8136, Cass. 26/4/2012 n.6498, Cass. 2/3/2011 n. 5095), secondo un approccio che è stato definito dalla dottrina «multifattoriale», in base al quale la condotta disciplinarmente rilevante dev’essere collocata nel contesto complessivo in cui è avvenuta.
È quanto ha fatto la gravata pronuncia, che con motivazione immune da censure ha ritenuto che l’inadempimento fosse di gravità tale da integrare giusta causa di recesso, valorizzando, ai fini del giudizio di proporzionalità, le numerose, reiterate ed ingiustificate mancanze poste in essere dal lavoratore – come definite all’esito della espletata attività istruttoria – e consistite nelle sostituzioni o montaggi di apparecchi manomessi nell’arco di pochi mesi con conseguente omissione delle doverose comunicazioni ed infedeltà nelle dichiarazioni relative a difetti dei contatori insussistenti, elementi tutti ritenuti indicativi di una inclinazione del soggetto alla violazione dei doveri coessenziali all’adempimento dell’obbligazione lavorativa, in quanto non coerenti rispetto agli “standards”, conformi ai valori dell’ordinamento, esistenti nella realtà sociale, ed idonei a vulnerare indiscutibilmente la fiducia che il datore di lavoro deve riporre nel proprio dipendente.
Si tratta di un giudizio non solo conforme a diritto per il corretto processo di sussunzione operato, ma assolutamente congruo sotto il profilo motivazionale, per aver definito l’articolato contesto in cui si era inserita la condotta attorea con specificazione dei profili soggettivi ed oggettivi che la connotavano, così sottraendosi al sindacato che in questa sede di legittimità va esplicato entro i rigorosi limiti segnati dal novellato n. 5 del comma primo art. 360 c.p.c. (vedi Cass. S.U. 7/4/2014 n. 8077).
9. In definitiva, alla stregua delle superiori argomentazioni, il ricorso è respinto.
Le spese del presente giudizio seguono il principio della soccombenza, liquidate come da dispositivo.
Essendo stato il presente ricorso proposto successivamente al 30 gennaio 2013, sussistono le condizioni per dare atto – ai sensi dell’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, che ha aggiunto il comma 1 quater all’art. 13 del testo unico di cui al d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 – della sussistenza dell’obbligo di versamento, da parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio che liquida euro 200,00 per esborsi ed in euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115\02, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
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