Fatto
1. Con sentenza n. 98/05, depositata il 27.10.05, la Commissione Tributaria Regionale della Lombardia rigettava l’appello proposto dall’Agenzia delle Entrate di Lecco avverso la decisione di primo grado, con la quale era stato accolto il ricorso proposto da C.A.G. nei confronti dell’avviso di accertamento, con il quale era stato elevato il reddito dichiarato del medesimo ai fini IRPEF ed IVA, per l’anno 1996.
2. La CTR riteneva, invero, che non fosse corretta, tenuto conto anche della documentazione contabile tenuta dal contribuente, la determinazione dei maggiori ricavi, operata dall’Ufficio sulla base dei coefficienti presuntivi di cui al DPCM del 27.3.97, attuativo dell’art. 3, co. 181 e ss. della L. n. 549/95.
3. Per la cassazione della sentenza n. 98/05 hanno proposto ricorso il Ministero dell’Economia e delle Finanze e l’Agenzia delle Entrate, formulando tre motivi.
L’intimato non ha svolto attività difensiva.
Diritto
1. In via pregiudiziale, rileva la Corte che il ricorso proposto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze deve essere dichiarato inammissibile, per difetto di legittimazione attiva dell’amministrazione ricorrente. Ed invero, va osservato che, qualora – come nel caso di specie – al giudizio di appello abbia partecipato solo l’Agenzia delle Entrate – succeduta a titolo particolare nel diritto controverso al Ministero delle Finanze nel giudizio di primo grado, ossia in epoca successiva all’1.1.01, data nella quale le Agenzie sono divenute operative in forza del d.lgs. n. 300/99 – e il contribuente abbia accettato il contraddittorio nei confronti del solo nuovo soggetto processuale, deve ritenersi verificata, ancorché per implicito, l’estromissione del Ministero delle Finanze dal giudizio.
Ne consegue che l’unico soggetto legittimato a proporre ricorso per cassazione avverso la sentenza della Commissione Tributaria Regionale è l’Agenzia delle Entrate; per cui il ricorso proposto dal Ministero deve essere dichiarato inammissibile per difetto di legittimazione attiva (cfr., tra le tante, Cass. 24245/04, 6591/08).
2. Premesso quanto precede, e passando all’esame dei motivi di ricorso proposti dall’Agenzia delle Entrate, va rilevato che, con il primo motivo di ricorso, l’Ufficio deduce la violazione dell’art. 112 c.p.c. in relazione al disposto dell’art. 360 n. 4 c.p.c.
2.1. L’amministrazione finanziaria si duole, invero, del fatto che la CTR della Lombardia abbia del tutto omesso di pronunciarsi sul motivo di appello con il quale l’Ufficio aveva dedotto il vizio di ultrapetizione, da cui riteneva essere affetta la pronuncia di prime cure. La CTP di Milano, infatti, – secondo l’amministrazione ricorrente – oltrepassando i limiti del devolutum, aveva annullato in toto l’avviso di accertamento impugnato, laddove il contribuente si era limitato a chiedere una rideterminazione del maggior reddito in misura inferiore
2.2. Il motivo è fondato e va accolto
Rileva, invero la Corte che è la stessa CTR della Lombardia a dare atto, nello svolgimento del processo dell’impugnata sentenza, del motivo di appello dell’amministrazione concernente la dedotta nullità della sentenza di primo grado per il vizio di ultrapetizione, nel quale sarebbe incorsa la CTP, emettendo una statuizione che andava oltre quanto richiesto dal contribuente. E tuttavia, in ordine a tale motivo di gravame il giudice di appello non emette statuizione alcuna, tacendone del tutto nella motivazione della sentenza.
Orbene, la mancata pronuncia da parte della CTR sul motivo di appello suindicato si traduce, a giudizio della Corte, in un vizio dell’impugnata sentenza, che ne determina la nullità, censurabile in cassazione ai sensi dell’art. 360 n. 4 c.p.c. (cfr., tra le tante, Cass.S.U. 15781/05, Cass. 6361/07, 17659/09).
Di conseguenza, l’impugnata sentenza va cassata già in relazione a tale motivo di ricorso.
3. Con il secondo e terzo motivo di ricorso, che vanno trattati congiuntamente, attesa la loro evidente connessione, l’Agenzia delle Entrate deduce la carenza totale di motivazione della decisione su fatti decisivi della controversia, nonché la violazione e falsa applicazione dell’art. 3, co. 181 e ss. della L. n. 549/95.
3.1. La CTR avrebbe, invero, – ad avviso dell’amministrazione ricorrente – sostanzialmente negato la valenza presuntiva dei parametri previsti dalla norma suindicata, condizionando la potestà accertativa dell’Ufficio all’esigenza – non prevista da alcuna disposizione di legge – che questo provvedesse a richiedere al contribuente ulteriori “elementi certi” a sostegno dei dati a suo tempo esposti in dichiarazione, e sottoponendo il potere di accertamento in questione al limite costituito dai “risultati contabili” desumibili dalla documentazione tenuta dall’azienda del C.
3.2. Le censure suesposte attengono – com’è evidente – a questioni che ben possono ripresentarsi nel giudizio di rinvio, non essendo il loro esame impedito o reso superfluo dall’accoglimento del primo motivo di ricorso, fondato sull’omesso esame del vizio di ultrapetizione da parte del giudice di appello, per cui non possono essere ritenute assorbite dall’accoglimento di detto motivo (v. Cass. 4568/80, 13259/06).
3.3. Ciò premesso, osserva la Corte che anche tali ulteriori doglianze si palesano fondate e devono, pertanto, essere accolte.
3.3.1. Va osservato, infatti, – in via di principio – che la procedura di accertamento tributario standardizzato, mediante l’applicazione dei parametri o degli studi di settore, costituisce un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è ex lege determinata dal mero scostamento del reddito dichiarato rispetto agli “standards” in sé considerati. Ed invero, questi ultimi – sia con riferimento all’imposizione diretta, sia con riferimento all’IVA – legittimano, quando i valori ivi esposti superano il dichiarato dal contribuente, il ricorso all’accertamento analitico-presuntivo, ai sensi dell’art. 39, co. 1, lett. d) del d.P.R. n. 600/73 e dell’art. 54 del d.P.R. n. 633/72, ponendosi in tal caso, detti “standards”, come uno strumento di ricostruzione per elaborazione statistica della normale redditività, che si affianca agli altri strumenti previsti dalle norme suindicate.
Ne discende che i suddetti parametri standardizzati devono, giocoforza, essere personalizzati con riferimento ai dati relativi all’attività in concreto svolta dal contribuente, sulla scorta degli elementi forniti da quest’ultimo in esito al contraddittorio, che va attivato obbligatoriamente con il medesimo, pena la nullità dell’accertamento analitico-presuntivo effettuato dall’amministrazione finanziaria. La motivazione dell’atto impositivo non può, pertanto, esaurirsi nel rilievo dello scostamento tra reddito dichiarato e parametri di riferimento, ma deve essere integrata con la dimostrazione dell’applicabilità in concreto dello “standard” prescelto, nonché con l’indicazione delle ragioni per le quali sono state disattese, dall’Ufficio, le contestazioni sollevate dal contribuente.
Su quest’ultimo, peraltro, incombe l’onere di muovere rilievi specifici ai coefficienti parametrici applicati, nonché di provare – sia in sede amministrativa, che dinanzi al giudice tributario di merito – la sussistenza delle condizioni, anche con riferimento alla specifica realtà dell’attività economica esercitata, che giustifichino l’esclusione dell’impresa dall’area dei soggetti cui è applicabile lo “standard” prescelto dall’amministrazione finanziaria (cfr., in tal senso, Cass.S.U. 26635/09, Cass. 4148/09, Cass. 12558/10). In definitiva, dunque, il giudice tributario di merito, investito della controversia sulla legittimità dell’atto di accertamento fondato sui suddetti parametri, è tenuto a valutare, in primis, gli elementi presuntivi forniti dall’amministrazione, dando atto in motivazione dei risultati del proprio giudizio, e solo una volta ritenuto che si sia formata una valida prova presuntiva, ai sensi degli artt. 2727 e ss. C.c., dovrà dare ingresso alla valutazione della prova contraria offerta dal contribuente, gravato da tale onere specifico (Cass. 9784/10).
3.3.2. Premesso quanto precede in via di principio, ritiene la Corte che, nel caso concreto, la CTR della Lombardia non abbia fatto corretta applicazione delle norme concernenti l’utilizzazione degli “standards” elaborati a supporto dell’accertamento analitico-presuntivo, ex artt. 39 del d.P.R. n. 600/73, 54 del d.P.R. n. 633/72 e 3, co. 181 della L. n. 549/95.
Ed invero, il giudice di appello ha, del tutto illegittimamente, escluso il valore presuntivo dei parametri applicati dall’Ufficio – peraltro, dopo avere il medesimo correttamente tenuto conto delle ragioni giustificative addotte dal contribuente- attribuendo all’amministrazione di non avere richiesto al C. ulteriori “elementi certi” idonei a confermare i dati esposti in dichiarazione. Ebbene, è di tutta evidenza, ad avviso della Corte, l’erronea applicazione della normativa suindicata operata dalla CTR, posto che – una volta applicati i parametri presuntivi, personalizzati in relazione alla specifica situazione del contribuente, ed avere soppesato e disatteso le contestazioni proposte da quest’ultimo in sede amministrativa – il potere impositivo dell’Ufficio non può ritenersi condizionato da alcun altro incombente. Per converso – come dianzi rilevato – incombe sul contribuente, il quale intenda ulteriormente contestare l’accertamento, promuovere il riesame dell’atto in sede giurisdizionale, sulla base di specifiche allegazioni e fornendo un’ulteriore controprova alle presunzioni desunte dai parametri applicati dall’amministrazione. Nel giudizio tributario di merito il contribuente non è, per vero, vincolato alle eccezioni sollevate nella fase del procedimento amministrativo, e dispone della più ampia facoltà di prova, perfino qualora non abbia risposto all’invito al contraddittorio in sede amministrativa (Cass.S.U. 26635/09).
Ne consegue che, nel caso di specie, la CTR non avrebbe dovuto fare carico all’Ufficio di ulteriori incombenti non previsti dalla legge, ma si sarebbe dovuta limitare a prendere atto della mancata allegazione di ulteriori elementi di prova da parte del contribuente.
3.3.3. Del tutto inconferente, poi, è l’individuazione, da parte del giudice di appello, di un limite al potere accertativo dell’Ufficio, costituito dalla regolare tenuta delle scritture contabili da parte del C.. Va rilevato, infatti, che la procedura di accertamento tributario standardizzato mediante l’applicazione dei parametri o degli studi di settore non si colloca all’interno della procedura di accertamento di cui all’art. 39 del d.P.R. n. 600/73, ma la affianca, essendo indipendente dall’analisi dei risultati delle scritture contabili, la cui regolarità non impedisce l’applicazione degli “standard”, né costituisce una valida prova contraria (Cass.S.U. 26635/09).
4. Per tutte le ragioni esposte, pertanto, l’impugnata sentenza va cassata, con rinvio ad altra sezione della CTR della Lombardia, che dovrà attenersi al seguente principio di diritto: “il potere di accertamento dell’Ufficio, ai sensi degli artt. 39 d.P.R. n. 600/73, 54 d.P.R. n. 633/72 e 3 della L. n. 549/95, una volta che l’amministrazione finanziaria abbia applicato i parametri presuntivi, personalizzati in relazione alla specifica situazione del contribuente, ed abbia soppesato e disatteso le contestazioni proposte da quest’ultimo in sede amministrativa, non può ritenersi condizionato da alcun altro incombente. Il suddetto potere accertativo non è impedito dalla regolarità della contabilità tenuta dal contribuente, che non può costituire neppure una valida prova contraria a fronte degli elementi presuntivi desumibili dai parametri suindicati”.
5. Il giudice di rinvio provvedere, altresì alla liquidazione delle spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso proposto dal Ministero dell’Economia e delle Finanze; accoglie il ricorso proposto dall’Agenzia delle Entrate, cassa la sentenza impugnata con rinvio ad altra sezione della Commissione Tributaria Regionale della Lombardia, che provvedere alla liquidazione anche delle spese del giudizio di cassazione.
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