CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 21 febbraio 2019, n. 5177
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo – Soppressione del posto di lavoro – Prova della crisi aziendale – Violazione della procedura ex lege n. 223/1991
Svolgimento del processo
Con ricorso ex lege n. 92/12, M.C. conveniva in giudizio E. s.p.a. al fine ottenere: – in via principale, la declaratoria di nullità o di inefficacia del licenziamento per giustificato motivo oggettivo intimatogli il 6.11.14 dalla S. s.p.a., e comunque il suo annullamento, con conseguente prosecuzione del rapporto lavorativo con la società convenuta; per l’effetto la condanna della società alla reintegrazione del dipendente, nonché al pagamento di un’indennità commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto, a titolo di risarcimento danni subiti a causo del recesso; – in via subordinata la declaratoria di illegittimità del licenziamento in quanto privo di giustificato motivo oggettivo; la declaratoria di risoluzione del rapporto di lavoro dalla data del licenziamento; la condanna della resistente al pagamento di un’indennità risarcitoria pari a una somma compresa tra le 12 e 24 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto; – in via ulteriormente subordinata, lo declaratoria di inefficacia del licenziamento intimato in violazione della procedura prevista dall’art. 7 L. n. 604/66, con condanna della resistente al pagamento di un’indennità risarcitoria pari a una somma compresa tra le 6 e le 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.
A sostegno delle suesposte domande il ricorrente, in punto di fatto, deduceva: – di aver lavorato alle dipendenze di S. s.p.a., dal dicembre 1985, da ultimo con qualifica di quadro, livello Q2; – di aver ricevuto, in data 16 ottobre 2014, una comunicazione relativa alla soppressione del proprio posto di lavoro a seguito dell’accorpamento del relativo ufficio con quello della società E. s.p.a., in vista dello fusione per incorporazione tra quest’ultima e S. s.p.a., poi concretizzatasi il 24 novembre 2014; a tale comunicazione seguiva, il 6 novembre 2014, la lettera di licenziamento intimatogli per giustificato motivo oggettivo.
Deduceva altresì che nella specie doveva applicarsi il comma 4 dell’art. 2112 c.c., che esclude che il trasferimento d’azienda (cui doveva equipararsi la fusione) possa costituire di per sé motivo di licenziamento, lamentando infine la mancata osservanza dell’obbligo di repechage, e/o la violazione della procedura di cui all’art. 24 L. n. 223/91.
Resisteva la E. s.p.a. deducendo la legittimità del licenziamento individuale per g.m.o. (determinato, così la sentenza impugnata a pag. 3, dal calo del fatturato e dalia necessità di incorporare S. s.p.a.), escludendo l’applicabilità della L. n. 223/91.
Con ordinanza n. 4139/15, il Tribunale accoglieva la domanda, annullando il licenziamento intimato al C., con ordine di reintegra e pagamento dell’indennità risarcitoria, ritenendo il recesso in contrasto co 1 comma 4 dell’art. 2112 c.c., dovendo ricondursi esclusivamente alla fusione societaria e comunque per violazione della procedura ex lege n. 223/91.
Successivamente il Tribunale accoglieva l’opposizione proposta dalla società, ritenendo provata la crisi aziendale che aveva determinato la soppressione del posto di lavoro in questione indipendentemente dalla fusione e dunque esclusa la violazione dell’art. 2112 c.c., ed esclusa infine, anche per difetto dei requisiti numerici, l’applicabilità della L. n. 223/91.
Avverso tale sentenza proponeva reclamo il C.; resisteva la E.
Con sentenza depositata il 21.7.16, la Corte d’appello di Roma riformava la sentenza impugnata, dichiarando l’illegittimità del licenziamento, con ordine di reintegra e risarcimento del danno pari alla r.g.f. dal licenziamento all’effettiva reintegra ex art. 18, comma 1, L. n. 300/70 novellato, oltre accessori.
Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso la società E., affidato a tre motivi, poi illustrati con memoria.
Resiste il C. con controricorso.
Motivi della decisione
1.-Con il primo motivo la ricorrente denuncia la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 2112 c.c., lamentando che nella specie non era mai stata in discussione la soppressione del posto di lavoro del C., che la stessa sentenza impugnata ha ritenuto, a seguito della fusione, accorpate a quelle di altro personale dipendente della E. e non distribuite tra il personale della S.. Evidenzia che in base al comma 6 dell’art. 2112 c.c. (introdotto dall’art. 32 del d.lgs n. 276/03) l’esternalizzazione di una attività aziendale (e tra questa, nella specie, quelle relative alle mansioni cui era addetto il C.) è certamente consentita con conseguente legittimità del licenziamento ex art. 2112 comma 4.
Il motivo è infondato, in quanto risulta del tutto avulso dalla motivazione del licenziamento (comunicata ex art. 7 L. n. 604/66) ove si legge che “la specifica posizione lavorativa del C. è venuta meno con l’accorpamento del relativo ufficio a quello retto dalla società consorella E.”: nessun riferimento ad esternalizzazione o appalto (ex comma 6 art. 2112 c.c.) ad E., mentre a pag. 44 del presente ricorso si legge che la soppressione delle tre unità lavorative (tra cui quella del C.) avvenne per la decisione di S. di demandarle alla E. in vista della fusione societaria e dunque in contrasto col principio di diritto enunciato dalla sentenza n. 15495/08 di questa Corte, secondo cui: “In tema di trasferimento di azienda, l’art. 2112, quarto comma, cod. civ., nel disporre che il trasferimento non può essere di per sé ragione giustificativa di licenziamento, aggiunge che l’alienante conserva il potere di recesso attribuitogli dalla normativa generale; ne consegue che il trasferimento di azienda non può impedire il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, sempre che questo abbia fondamento nella struttura aziendale, e non nella connessione con il trasferimento o nella finalità di agevolarlo.” (Nella specie, in cui era stata revocata l’autorizzazione all’esercizio dell’attività bancaria e conseguente cessazione dell’attività della banca cedente, la S.C., nell’affermare il principio su esteso, ha ritenuto legittimo il licenziamento intimato al lavoratore da parte della cedente).
In sostanza risulta corretta la decisione impugnata laddove afferma che qualora vi fosse stata una soppressione (anche mediante redistribuzione legittima delle mansioni) delle posizioni lavorative che qui interessano presso S., i licenziamenti sarebbero stati legittimi, mentre nella specie essi avvennero unicamente in vista della fusione con E., e dunque in contrasto con l’art. 2112 c.c.
A ciò aggiungasi che la sentenza impugnata ha accertato che la posizione lavorativa del C. e degli altri dipendenti licenziati in tale occasioni permasero pur essendosene già deciso il prossimo accorpamento con quelle svolte da altro personale dipendente della società E.; deve infine notarsi che l’odierna ricorrente non ha prodotto alcun contratto di appalto od altro da cui possa risultare una effettiva esternalizzazione dell’attività ai sensi del nuovo comma 6 dell’art. 2112 c.c. (introdotto dall’art. 32 dlgs n. 276/03).
2.- Con il secondo motivo la E. denuncia la violazione degli artt. 30 della L. n. 183/10 (come integrato dall’art.1, co.43, L. n. 2/12), 2501 e segg. c.c. e 112 c.p.c. (art. 360, comma 1, n.3 c.p.c.), oltre ad omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (art. 360, comma 1, n.5 c.p.c.).
Lamenta che la sentenza impugnata ha ritenuto, in contrasto con le emergenze di causa, esservi stato un licenziamento in contrasto con l’art. 2112 c.c., e non già derivante dalla soppressione del posto di lavoro da parte di S. che emergeva dalle risultanze di causa e che trovava le sue ragioni nel nuovo assetto aziendale di quest’ultima e quindi determinato dalla crisi del settore e quindi dalla necessità di sinergie con la capogruppo E., soffermandosi piuttosto sulla esistenza o meno della crisi aziendale ed alla esigenza di riduzione dei costi.
Il ragionamento risulta tuttavia viziato e tautologico, essendo evidente che quel che rilevava era la soppressione della posizione lavorativa del dipendente, ma ciò doveva dimostrare la società, la quale, come appena rilevato, deduce soltanto ed in sostanza (pag. 50 ricorso) che la soppressione del posto di lavoro da parte di S. trovava le sue ragioni nel nuovo assetto aziendale di quest’ultima e quindi determinato dalla crisi del settore e quindi dalla necessità di sinergie con la capogruppo E..
Le altre censure inerenti apprezzamenti di fatto del giudice di merito, oltre ad essere inammissibili in base al novellato n. 5 dell’art. 360 c.p.c., nulla dicono in ordine alla prova che la posizione lavorativa del C. sia stata soppressa (sia pure in vista ma) giuridicamente a prescindere dalla prossima fusione societaria.
E’ il caso si rimarcare quanto affermato dalla più recente giurisprudenza di questa Corte sul punto, e cioè che in caso di cessione d’azienda, l’alienante conserva il potere di recesso attribuitogli dalla normativa generale, sicché il trasferimento, sebbene non possa esserne l’unica ragione giustificativa, non può impedire il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, sempre che abbia fondamento nella struttura aziendale autonomamente considerata e non nella connessione con il trasferimento o nella finalità di agevolarlo (Cass. n. 11410/18).
3.- Con il terzo, subordinato, motivo la ricorrente denuncia la violazione dell’art. 18, co. 1, L. n.300/70. Lamenta che il licenziamento causato dal trasferimento d’azienda di per sé non può qualificarsi come ipotesi di nullità, con conseguente inapplicabilità della tutela di cui al co.1 dell’art. 18, bensì, semmai, del co. 7, terzo periodo (7°cpv lett.b) comma 42 L. n. 92/12), con conseguente tutela solo indennitaria.
Il motivo è fondato nei termini che seguono. Ed invero l’art. 2112 c.c. stabilisce soltanto che il trasferimento di azienda non costituisce di per sé motivo di licenziamento, non facendone in generale divieto, tanto meno a pena di nullità come evidenziato da questa Corte (sentt. n. 11410/18; cfr. Cass. n. 6969/13, Cass.n. 741/04). Ne consegue che il licenziamento in questione non può essere tutelato dal comma 1 dell’art.18, che prevede la reintegra piena nei casi di licenziamento discriminatorio o determinati da motivo illecito determinante ovvero, per quanto qui interessa e ritenuto dalla sentenza impugnata, negli “altri casi di nullità previsti dalla legge” non essendovi dubbio che il ridetto art. 2112 c.c. non preveda affatto la nullità del recesso, ma, in conformità della lettera della legge, da interpretarsi restrittivamente, una ipotesi di annullabilità per difetto di giustificato motivo.
Deve piuttosto ritenersi che la fattispecie in esame concreti l’ipotesi della manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per g.m.o. di cui al secondo periodo del comma 7 dell’art. 18 novellato, essendo stato accertato che al momento del recesso le ragioni poste a fondamento di questo non solo non sussistevano, essendo semplicemente correlate ad un futuro accorpamento di mansioni che sarebbe peraltro conseguito da una futura fusione societaria, ancora da venire ancorché prossima, che a sua volta non costituisce per legge (art. 2112, co.4 c.c.) un giustificato motivo di licenziamento.
La sentenza impugnata avrebbe dunque dovuto applicare la tutela di cui al comma 4 dell’art. 18 novellato (cd. reintegra attenuata), con annullamento del licenziamento, condanna alla reintegrazione del lavoratore ed al pagamento a carico della società di una indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello della reintegrazione, detratto l’eventuale aliunde perceptum o percipiendum, in ogni caso non superiore a dodici mensilità della retribuzione globale di fatto, oltre al versamento dei contributi previdenziali ed assistenziali come stabilito dal detto comma 4.
La sentenza impugnata va pertanto sul punto cassata, con rinvio ad altro giudice, in dispositivo indicato, al fine della concreta applicazione delle misure di cui al ridetto comma 4, oltre che per la regolamentazione delle spese, comprese quelle del presente giudizio di legittimità, da distrarsi in favore del difensore del lavoratore dichiaratosi anticipante.
P.Q.M.
Rigetta i primi due motivi del ricorso ed accoglie il terzo nei termini di cui in motivazione. Cassa la sentenza impugnata in relazione alla censura accolta e rinvia, anche per la regolamentazione delle spese, alla Corte di appello di Roma in diversa composizione.
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