CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 21 gennaio 2020, n. 1217
Tributi – Accertamento – Rinvenimento di merce in un deposito non dichiarato – Presunzione di cessione della merce – Esclusione – Comportamento concludente – Esibizione di contratto di comodato per l’utilizzo del deposito al momento dell’accesso degli ispettori – Deducibilità costi utenze intestate al proprietario del deposito – Sussiste
Fatti di causa
1. L’Agenzia delle entrate, a seguito di verifica fiscale per gli anni dal 1994 al 1998, con processo verbale di constatazione del 13-10-1998, emetteva avviso di accertamento nei confronti di A. P., esercente attività di commercio al dettaglio di elettrodomestici, per l’anno 1998, ai sensi dell’art. 39 comma 1 d.p.r. 600/1973 e 54 d.p.r. 633/1972, sia per omessa registrazione di ricavi, sia per mancato riconoscimento di costi. In particolare, quanto ai ricavi, l’accertamento si fondava sul rinvenimento di merce in un deposito non dichiarato, ai sensi dell’art. 35 d.p.r. 633/1972, ma immediatamente indicato dalla contribuente al momento dell’accesso con l’esibizione anche di un contratto di comodato, sicché, ai sensi dell’art. 53 dello stesso decreto, si presumeva ceduto con una percentuale di ricarico del 23,648 %, invece che del 13 %. Non venivano riconosciuti i costi relativi alle fatture emesse per le utenze Enel e Telecom, intestate al proprietario del deposito, concesso in comodato, e non alla contribuente.
2. La Commissione tributaria regionale della Sicilia accoglieva solo parzialmente l’appello proposto da A. P. avverso la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Messina che aveva accolto integralmente il ricorso della contribuente, evidenziando che l’avviso di accertamento era legittimo quanto alla presunzione di cessione per le merci rinvenute nel deposito, che non era stato indicato formalmente, come pure con riferimento alla detrazione dei costi delle fatture, in quanto non inerenti all’attività di impresa, mentre era fondata la doglianza della contribuente in ordine alla applicazione della percentuale di ricarico del 23,6%, stante la natura disomogenea delle merci.
3. Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione la contribuente.
4. Altro ricorso per cassazione propone l’Agenzia delle entrate.
5. Resiste con controricorso la contribuente.
6.1 difensori della contribuente hanno depositato copia del certificato di morte della ricorrente, nonché copia delle dichiarazioni di rinuncia all’eredità da parte dei prossimi congiunti della stessa.
Ragioni della decisione
1. Anzitutto, si rileva che nel giudizio di cassazione, in considerazione della particolare struttura e della disciplina del procedimento di legittimità, non è applicabile l’istituto dell’interruzione del processo, con la conseguenza che la morte di una delle parti, intervenuta dopo la rituale instaurazione del giudizio, non assume alcun rilievo, né consente agli eredi di tale parte l’ingresso nel processo (Cass., 1757/2016).
Inoltre, poiché il ricorso per cassazione di A. P. è stata spedito per la notifica il 12-7-2012, mentre il ricorso per cassazione della Agenzia delle entrate è stato spedito per la notifica il 20-7-2012, il primo ricorso va considerato come principale, mentre quello della Agenzia delle entrate va qualificato come ricorso incidentale.
Per questa Corte, il principio dell’unicità del processo di impugnazione contro una stessa sentenza comporta che, una volta avvenuta la notificazione della prima impugnazione, tutte le altre debbono essere proposte in via incidentale nello stesso processo e perciò, nel caso di ricorso per cassazione, con l’atto contenente il controricorso; tuttavia quest’ultima modalità non può considerarsi essenziale, per cui ogni ricorso successivo al primo si converte, indipendentemente dalla forma assunta e ancorché proposto con atto a sé stante, in ricorso incidentale (Cass., n. 5695/15).
1.1.Con il primo motivo di impugnazione principale A. P. deduce “omessa, insufficiente o contraddittoria motivazione della sentenza di II grado (art. 360 c.p.c. n. 5)”, sia in ordine alla “presunta vendita in evasione d’imposta, della merce rinvenuta nei locali non dichiarati”, sia “quanto all’indebita detrazione d’imposta”.
In relazione al primo profilo di impugnazione, la contribuente rileva che la merce è stata rinvenuta nel deposito indicato dalla stessa immediatamente in sede di accesso, sicché deve tenersi conto, non solo delle comunicazioni formali ex art. 35 d.p.r. 633/72 di esistenza del deposito, ma anche dal comportamento concludente della P., che ha esibito il contratto di comodato proprio all’inizio dell’accesso.
Quanto alla indebita detrazione di imposta deve tenersi conto che, sebbene le fatture siano state solo formalmente intestate al proprietario dei locali concessi in comodato, le stesse riguardavano l’attività della comodataria, sicché sussisteva il requisito della inerenza.
2. Con il secondo motivo di impugnazione la ricorrente deduce “violazione e/o falsa applicazione della norma di diritto di cui all’art. 53 d.p.r. 633/72 e di cui agli artt. 75 Tuir 917/86, 21, 23 e 24 d.p.r. 633/72 (art. 360 c.p.c. n. 3)”, sia in relazione alla presunta vendita in evasione di imposta della merce rinvenuta nei locali non dichiarati, sia in ordine alla indebita detrazione d’imposta.
2.1. I motivi primo e secondo, che vanno esaminati congiuntamente per ragioni di connessione, sono fondati.
2.2.Invero, il disposto dell’art. 53 d.p.r. 633/1972 è stato sostituito dal d.p.r. 10-11-1997, n. 441, emanato in attuazione dell’art. 3 , comma 137, della legge n. 662 del 1996, con efficacia sostitutiva dell’art. 53, e prevede all’art. 1 (presunzione di cessione) che “si presumono ceduti i beni acquistati, importati o prodotti che non si trovano nei luoghi in cui il contribuente svolge le proprie operazioni, né in quelli dei suoi rappresentanti. Tra tali luoghi rientrano anche le sedi secondarie, filiali, succursali, dipendenze, stabilimenti, negozi, depositi ed i mezzi di trasporto nella disponibilità dell’impresa”.
La prova contraria può essere fornita solo ai sensi dell’art. 1 comma 2 d.p.r. 441/1997 (” la presunzione di cui al comma 1 non opera se è dimostrato che i beni stessi: a) sono stati impiegati per la produzione, perduti o distrutti; b) sono stati consegnati a terzi in elaborazione, deposito, comodato o in dipendenza di contratti estimatori, di contratti di opera, appalto, trasporto, mandato, commissione o di altro titolo non traslativo della proprietà”).
Ai sensi dell’art. 3 (presunzione di acquisto) ” i beni che si trovano in uno dei luoghi in cui il contribuente svolge le proprie operazioni si presumono acquistati se lo stesso non dimostra di averli ricevuti in base ad un rapporto di rappresentanza o ad uno degli altri titoli di cui all’articolo 1, nei modi ivi indicati”.
L’art. 4 (operatività delle presunzioni) prevede, poi, che “gli effetti delle presunzioni di cessione e di acquisto, conseguenti alla rilevazione fisica dei beni, operano al momento dell’inizio degli accessi, ispezioni e verifiche. Le eventuali differenze quantitative derivanti dal raffronto tra le risultanze delle scritture ausiliarie di magazzino…, o della documentazione obbligatoria emessa e ricevuta, e le consistenze delle rimanenze registrate costituiscono presunzione di cessione o di acquisto per il periodo d’imposta oggetto del controllo”.
2.3. Ai sensi dell’art. 1 comma 3 del d.p.r. 441/97, poi, “la disponibilità delle sedi secondarie, filiali o succursali, nonché delle dipendenze, degli stabilimenti, dei negozi, dei depositi, degli altri locali e dei mezzi di trasporto che non emerga dalla iscrizione al registro delle imprese, alla Camera di Commercio o da altro pubblico registro, può risultare dalla dichiarazione di cui all’art. 35 del d.p.r. 633/72, se effettuata anteriormente al passaggio dei beni, nonché da altro documento dal quale risulti la destinazione dei beni esistenti presso i luoghi su indicati, ha notato in uno dei registri in uso, tenuto ai sensi dell’art. 39 d.p.r. 633/72”.
L’art. 35 del d.p.r. 633/72 (disposizione regolamentare concernente le dichiarazioni di inizio, variazione e cessazione attività) dispone al comma 2 che “dalla dichiarazione di inizio attività devono risultare:…d) il tipo e l’oggetto dell’attività e il luogo o i luoghi in cui viene esercitata anche a mezzo di sedi secondarie, filiali, stabilimenti, succursali, negozi, depositi e simili…” Per il comma 3 “in caso di variazioni di alcuno degli elementi di cui al comma 2 o di cessazione dell’attività, il contribuente deve entro 30 giorni farne dichiarazione ad uno degli uffici indicati dal comma 1, utilizzando modelli conformi a quelli approvati con provvedimento del direttore dell’agenzia delle entrate”. Per il comma 6 ” le dichiarazioni previste dal presente articolo sono presentate in via telematica secondo le disposizioni di cui ai commi 10 le seguenti ovvero, in duplice esemplare, direttamente ad uno degli uffici di cui al comma 1. Le dichiarazioni medesime possono, in alternativa, essere inoltrate in unico esemplare a mezzo servizio postale mediante raccomandata, con l’obbligo di garantire l’identità del soggetto dichiarante mediante allegazione di idonea documentazione”.
2.4. Per questa Corte, in tema di accertamento delle imposte sul reddito, trovano applicazione, in virtù del principio di unitarietà dell’ordinamento, le presunzioni di cessione e di acquisto dei beni rinvenuti nel luogo o in uno dei luoghi in cui il contribuente esercita la propria attività, poste in materia di IVA dall’art. 53 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633; tali presunzioni, peraltro, non operando in via diretta ed immediata in materia di imposte dirette, non sono da sole sufficienti a giustificare l’accertamento, ma necessitano di ulteriori riscontri, adeguati alla disciplina delle singole imposte; inoltre, trattandosi di presunzioni legali relative, annoverabili tra quelle c.d. miste, è consentita la prova contraria da parte del contribuente, ma solo entro i limiti di oggetto e di mezzi di prova indicati dall’art. 53 cit., e da quest’ultimo previsti ad evidenti fini antielusivi (Cass., 19 luglio 2006, n. 16483).
Si esclude, dunque, una completa libertà di prova contraria e questo all’evidente fine di contrastare l’elusione della normativa in materia di Iva che potrebbe essere aggirata affidandosi a prove aventi un limitato grado di affidabilità (Cass., 4 febbraio 2015, n. 1976; Cass., 1134/2001; Cass., 7121/2003; Cass., 10947/2002).
La presunzione legale relativa di cessione opera solo se la differenza quantitativa, in negativo, tra beni esistenti nei luoghi indicati e quelli acquistati, importati o prodotti risulti o a seguito della verifica fisica dei beni giacenti, oppure dal confronto – differenza inventariale – tra la consistenza delle rimanenze registrate e le risultanze delle scritture ausiliarie di magazzino, di cui all’art. 14, primo comma lettera d del d.p.r. 600/1973 , o di altra documentazione obbligatoria (Cass., 13 giugno 2012, n. 9628).
Pertanto, in tema di IVA, il mancato rinvenimento, nei luoghi in cui il contribuente esercita la sua attività, di beni risultanti in carico all’azienda in forza di acquisto, importazione o produzione – nella specie, rilevati sulla base di annotazioni provvisorie contenute nelle schede di magazzino – determina l’applicabilità dell’art. 53, primo comma, del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, il quale pone la presunzione legale di cessione senza fattura dei beni medesimi, salvo che il contribuente, su cui incombe la prova contraria, fornisca spiegazioni in merito all’assenza degli stessi in sede di verifica, e non, invece, dell’art. 54, secondo comma, ultimo inciso, del d.P.R. citato, il quale legittima il ricorso al metodo induttivo anche sulla base di presunzioni semplici, purché siano gravi, precise e concordanti (Cass., 16 dicembre 2011, n. 27195; Cass., 30 luglio 2014, n. 17298).
2.5. Nella specie, però, deve evidenziarsi che la contribuente, pur non avendo comunicato l’esistenza del deposito in cui si trovava la merce, ha però immediatamente esibito il contratto di comodato relativo a tale deposito, al momento dell’accesso nei locali dell’impresa.
Per questa Corte, invero, in tema di imposta sul valore aggiunto, in virtù della disposizione di cui all’art. 1 del d.P.R. n. 441 del 1997, avente valenza integrativa e ricognitiva della previgente disciplina dettata dall’art. 53 del d.P.R. n. 633 del 1972 (Cass., 11 agosto 2017, n. 20035; Cass., 15 marzo 2005, n. 5558), la destinazione dei beni in un deposito (non dichiarato) di pertinenza dell’impresa non dà luogo a presunzione di avvenuta cessione, se il “passaggio” in esso è accompagnato da particolari modalità di tenuta della contabilità (bolle, annotazioni negli appositi registri) o da “comportamenti concludenti” tenuti dal contribuente da cui desumere il luogo di destinazione degli stessi beni (Cass., 20 giugno 2008, n. 16838; Cass., 21 marzo 2014, n. 6663; Cass., 15 ottobre 2018, n. 25662).
Pertanto, il giudice di appello, accogliendo parzialmente l’appello proposto dalla Agenzia delle entrate sul punto, in assenza di una formale comunicazione dell’esistenza del deposito da parte della contribuente, non ha fatto corretta applicazione dei principi giurisprudenziale sopra enunciati. Del resto, anche nella circolare della Agenzia delle entrate del 23-7-1998, n. 193 (regolamento recante norma per il riordino della disciplina delle presunzioni di cessione e di acquisto) si afferma che “va inoltre chiarito che il particolare mezzo di prova consistente nell’esibizione di documentazione di data anteriore a quella della verifica, regolarmente annotata in uno dei registri in uso ai fini Iva, per essere idoneo allo scopo, deve dimostrare due fatti essenziali, diversi fra loro: 1. che il soggetto dispone di una determinata sede secondaria, filiale, altri locali,ecc.; 2.che in tale luogo sono stati destinati i beni esattamente individuati e che costituiscono oggetto delle presunzioni di cui è questione. Necessita, pertanto, ad esempio, l’esistenza di un contratto d’affitto regolarmente registrato, da cui risulti la destinazione degli specifici beni, in relazione ai quali potrebbe rendersi operante la presunzione, presso i luoghi suindicati”.
Inoltre, in relazione all’accoglimento parziale dell’appello della Agenzia delle entrate in ordine alla non detraibilità dei costi relativi alle fatture emesse dalla Telecom e dall’Enel nei confronti del proprietario del deposito dato in comodato, che la contribuente afferma inerenti alla propria attività, il giudice di appello ha reso una insufficiente motivazione, limitandosi ad affermare che tali costi “si riferiscono a fatture intestate a soggetto diverso dal contribuente”.
3. Con il primo motivo di impugnazione incidentale l’Agenzia delle entrate deduce “omessa motivazione su fatto controverso e decisivo (in relazione all’art. 360 n. 5 c.p.c.)”, in quanto il giudice di appello, nell’accogliere la doglianza della contribuente in relazione alla errata determinazione della percentuale di ricarico sulle merci, non ha tenuto conto che tale percentuale era stata espressamente accettata da A. P., titolare della ditta, e da C. D., figlio e delegato, “in quanto ritenuta equa e favorevole alla ditta”, come risultava a pagina 54 del processo verbale di constatazione. Trattavasi, infatti, di “confessione stragiudiziale”, che non doveva essere confortata da altri elementi istruttori.
4. Con il secondo motivo di impugnazione incidentale la ricorrente lamenta la “violazione e/o falsa applicazione di legge: art. 39 d.p.r. 600/1973; art. 54 d.p.r. 633/1972; artt. 2697 e 2735 c.c. (in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c.)” in quanto la percentuale di ricarico del 23,648 % era stata espressamente accettata da A. P., titolare della ditta, e da C. D., figlio e delegato, “in quanto ritenuta equa e favorevole alla ditta”, come risultava a pagina 54 del processo verbale di constatazione. Trattavasi, infatti, di “confessione stragiudiziale”, che non doveva essere confortata da altri elementi istruttori, costituendo elemento di prova certo dell’esistenza di operazioni imponibili sottratte al fisco.
5. Con il terzo motivo di impugnazione incidentale la ricorrente deduce “in ogni caso; violazione e/o falsa applicazione di legge: artt. 1, 2 e 7 del d.lgs. 546/1992, art. 112 c.p.c. (in relazione all’art. 360 nn. 3 e 4 c.p.c.)”, in quanto il giudice di appello non avrebbe potuto limitarsi ad accogliere l’appello proposto dalla P. in ordine alla erronea determinazione delle percentuali di ricarico, ma avrebbe dovuto anche stabilire l’effettiva percentuale di ricarico applicabile alle merci vendute.
5.1.1 motivi primo e secondo del ricorso incidentale sono fondati, con conseguente assorbimento del terzo motivo.
Tali motivi sono autosufficienti, in quanto l’Agenzia delle entrate non si è limitata soltanto a riportare nel ricorso per cassazione la frase riferita alla contribuente ed a suo figlio, delegato, apposta sul processo verbale di constatazione, in ordine alla determinazione della percentuale di ricarico da parte dell’Ufficio (“in quanto ritenuta equa e favorevole alla ditta”), ma ha anche depositato il processo verbale di constatazione in sede di legittimità. Quanto al merito dei motivi, si rileva che per questa Corte, in tema di rettifica della dichiarazione annuale dell’imposta sul valore aggiunto, l’accettazione da parte del contribuente, in contraddittorio con i verbalizzanti, di una data percentuale di ricarico ai fini della determinazione dei ricavi, può essere apprezzata come confessione stragiudiziale, se risulti dal verbale di constatazione e sia stata sottoscritta dal contribuente medesimo, e, pertanto, può legittimare l’accertamento dell’ufficio per infedeltà della dichiarazione annuale, tanto come elemento da valutare ai sensi del secondo comma dell’art. 54 del d.P.R. 26 ottobre 1972 n. 633, quanto come prova diretta, ai sensi del terzo comma del medesimo articolo (Cass., 9 giugno 1990, n. 5628; Cass., 21 dicembre 2005, n. 28316; Cass., 24 ottobre 2014, n. 22616). Si è anche affermato che, in tema di accertamento delle imposte sui redditi, la partecipazione del contribuente alle operazioni di verifica senza contestazioni (nella specie, in ordine alla rappresentatività del campione di prodotti posti a base del calcolo della percentuale di ricarico), pur in mancanza di un’approvazione espressa, equivale sostanzialmente ad accettazione delle operazioni stesse e dei loro risultati, attesi la facoltà e l’onere di formulare immediatamente il proprio dissenso (Cass., 29 luglio 2016, n. 15851; Cass., 26 gennaio 2004, n. 1286).
6. La sentenza impugnata deve, quindi, essere cassata in relazione ai motivi accolti, con rinvio alla Commissione tributaria regionale della Sicilia, in diversa composizione, che si adeguerà al seguente principio di diritto: “In tema di imposta sul valore aggiunto, ai sensi dell’art. 1 del d.p.r. n. 441 del 1997, avente valenza integrativa e ricognitiva della previgente disciplina di cui all’art. 53 d.p.r. n. 633 del 1972, la destinazione dei beni in un deposito (non dichiarato) di pertinenza dell’impresa, non dà luogo a presunzione di avvenuta cessione, se il “passaggio” in esso è accompagnato da particolari modalità di tenuta della contabilità (bolle, annotazioni in appositi registri) o da comportamenti concludenti tenuti dal contribuente da cui desumere il luogo di destinazione degli stessi beni, come nel caso in cui il contribuente, al momento dell’accesso, abbia esibito un contratto di comodato per l’utilizzo del deposito, collocato di fronte al negozio”, che provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Accoglie i motivi primo e secondo del ricorso principale; accoglie i motivi primo e secondo di ricorso incidentale; dichiara assorbito il terzo motivo; cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti, con rinvio alla Commissione tributaria regionale della Sicilia, sezione distaccata di Messina, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.
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