CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 21 maggio 2018, n. 12436
Licenziamento disciplinare – Reintegrazione nel posto di lavoro – Indennità risarcitoria – Trasferimento del ramo d’azienda – Fallimento
Fatto
Con sentenza ai sensi dell’art. 281sexies c.p.c. del 14 aprile 2016, la Corte d’appello di L’Aquila dichiarava inammissibile la chiamata in causa in grado d’appello di R.E.S. s.p.a., rigettandone la domanda risarcitoria per lite temeraria nei confronti della chiamante L.F., in cui favore liquidava, a carico di C.S.M. s.r.l. in liquidazione, l’indennità risarcitoria nella richiesta somma di € 97.160,00, oltre rivalutazione ed interessi dal 5 novembre 2014: così parzialmente riformando la sentenza di primo grado che aveva accertato l’illegittimità del licenziamento disciplinare intimatole il 25 giugno 2010 dalla predetta società datrice e condannato la medesima alla reintegrazione della lavoratrice nel posto di lavoro e alla corresponsione, in suo favore a titolo risarcitorio, di un’indennità commisurata alla retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento a quello di effettiva reintegrazione.
In esito a tempestiva riassunzione dalla lavoratrice del giudizio interrotto per effetto della dichiarazione di fallimento, la Corte territoriale riteneva la spettanza a L. F. dell’indennità come sopra liquidata, a fronte della sola condanna in via generica del Tribunale nonostante la sua domanda di specifica determinazione e del cumulo di interessi e rivalutazione, a norma dell’art. 429, terzo comma c.p.c.
Essa escludeva invece l’ammissibilità della chiamata in giudizio soltanto in grado di appello di R.E.S. s.p.a., siccome cessionaria del ramo d’azienda da C.S.M. s.r.l. e pur essendole nota l’operazione già dal giudizio di primo grado: nell’inapplicabilità dell’art. 111 c.p.c., per successione a titolo particolare nel diritto controverso in combinazione con l’art. 2112 c.c., preclusa dalla dichiarazione di fallimento della società cedente.
Con atto notificato il 20 giugno 2016, L. F. ricorreva per cassazione con due motivi, cui resisteva R.E.S. s.p.a. con controricorso e memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c.; il fallimento C.S.M. s.r.I., pure intimato, non svolgeva difese.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo, la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 111 c.p.c. e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, per erronea esclusione dell’ammissibilità della citazione in giudizio, ancorchè per la prima volta in grado di appello, della società cessionaria di ramo d’azienda cui già era stata addetta la lavoratrice: pertanto avente qualità di successore nel diritto controverso in quanto titolare della res litigiosa, legittimata all’impugnazione della sentenza pure in difetto di sua partecipazione alle pregresse fasi di giudizio.
2. Con il secondo, ella deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 2112 c.c. e insufficiente motivazione su punto decisivo della controversia, per erronea esclusione del regime di solidarietà tra le società cedente e cessionaria di ramo d’azienda nel rapporto di lavoro, anche interrotto, qualora sia stato ripristinato per l’accertata illegittimità del licenziamento intimato, come appunto nel caso di specie.
3. In via preliminare, entrambi i motivi devono essere ritenuti ammissibili, posto che, sebbene siano articolati in più profili di doglianza ciascuno dei quali avrebbe potuto essere prospettato come un autonomo motivo, ciò non costituisce di per sé ragione d’inammissibilità dell’impugnazione, essendo sufficiente, ai fini dell’ammissibilità del ricorso, che la formulazione permetta di cogliere con chiarezza le doglianze prospettate onde consentirne, se necessario, l’esame separato esattamente negli stessi termini in cui lo si sarebbe potuto fare se esse fossero state articolate in motivi diversi, singolarmente numerati (Cass. s.u. 6 maggio 2015, n. 9100; Cass. 17 marzo 2017, n. 7009): ciò che si verifica nel caso di specie.
4. Tanto preliminarmente chiarito, questa Corte reputa la fondatezza in parte qua del primo motivo, relativo alla violazione e falsa applicazione dell’art. 111 c.p.c. e contraddittoria motivazione su punto decisivo della controversia, per inammissibilità della citazione in giudizio, ancorchè per la prima volta in grado di appello, della società cessionaria del ramo d’azienda cui già era stata addetta la lavoratrice illegittimamente licenziata.
4.1. Proprio la ravvisata autonomia delle censure, confluite nell’unico mezzo ma chiaramente individuabili, consente di ritenerne, nonostante la palese inconfigurabilità del vizio di contraddittoria motivazione denunciato, alla luce del novellato art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c. (Cass. s.u. 7 aprile 2014, n. 8053; Cass. 10 febbraio 2015, n. 2498; Cass. 26 giugno 2015, n. 13189; Cass. 21 ottobre 2015, n. 21439), applicabile ratione temporis, la fondatezza, sotto il profilo della violazione della norma di diritto denunciata.
4.2. Ed infatti, la Corte territoriale ha accertato in fatto (per le ragioni esposte al quarto capoverso di pg. 4 della sentenza) l’avvenuto trasferimento del ramo d’azienda dalla società datrice poi fallita a R.E.S. s.r.l. con atto notarile del 19 dicembre 2011 (e quindi in epoca successiva all’introduzione del giudizio di primo grado, con ricorso depositato il 22 dicembre 2010), senza che ciò possa essere sindacato da questa Corte di legittimità, in assenza di rituale devoluzione.
Da un tale accertamento, che pure anche secondo il giudice di merito “poteva giustificare la chiamata in causa dell’anzidetta società” (così ai primi due alinea del primo capoverso di pg. 5 della sentenza), esso non ha tratto le coerenti conseguenze giuridiche corrette, sugli inconferenti presupposti dell’omesso compimento dalla lavoratrice di un tale atto processuale in primo grado, nonostante la sua “sicura conoscenza del conferimento del ramo d’azienda già nel 2013, come implicitamente ammesso nel ricorso in appello … ” (ancora al quarto capoverso di pg. 4 della sentenza) e della sua ravvisata preclusione in grado di appello, per effetto del dichiarato fallimento della datrice cedente il ramo il 30 luglio 2015, nel corso del giudizio di appello (come illustrato al primo capoverso di pg. 3 della sentenza).
In ordine al primo, appare del tutto evidente come l’obiettivo accertamento dell’intervenuta cessione del ramo d’azienda “nel corso del processo” (secondo l’incipit del primo capoverso dell’art. 111 c.p.c.) renda irrilevante il profilo soggettivo del momento di personale conoscenza dalla lavoratrice chiamante, alla luce della corretta applicazione, come si dirà, dei principi di diritto in materia.
Quanto al secondo, nessuna decisiva interferenza esercita la dichiarazione di fallimento di C.S.M. s.r.l. in liquidazione, alla luce della scindibilità delle domande svolte da L.F. in via reintegratoria ed anche risarcitoria (conseguenti alla definitivamente accertata illegittimità del suo licenziamento anteriore alla detta cessione, per il trasferimento del rapporto di lavoro ripristinato tra le parti originarie in capo al cessionario, ai sensi dell’art. 2112 c.c.: Cass. 8 marzo 2011, n. 5507; Cass. 21 febbraio 2014, n. 4130): la prima evidentemente nei confronti della società cessionaria e la seconda nei confronti della medesima e, in via solidale per tutti i crediti della lavoratrice al tempo del trasferimento (art. 2112, secondo comma c.c.), con la società cedente (Cass. 29 marzo 2010, n. 7517; Cass. 6 marzo 2015, n. 4598). Ed infatti, il fallimento di questa non osta alla vigenza dell’azione nei confronti del coobbligato (tra l’altro per la sola parte suindicata) in bonis: essendo attratta al foro fallimentare la sola domanda nei confronti del coobbligato fallito, per l’autonomia delle azioni proponibili da un creditore verso più soggetti solidalmente obbligati nei suoi confronti (Cass. 9 luglio 2005, n. 14468; Cass. 2 febbraio 2010, n. 2411; Cass. 29 febbraio 2016,. n. 2902).
4.3. Ed allora ricorre la violazione dell’art. 111 c.p.c. denunciato, ben potendo il cessionario di ramo d’azienda, attesa la sua qualità di successore a titolo particolare del cedente nella generalità dei rapporti preesistenti, non già di terzo, ma di parte processuale, per l’acquisita titolarità del diritto in contestazione (Cass. 24 giugno 2008, n. 18151): e pertanto, in una posizione processuale e sostanziale non distinta da quella del suo dante causa, sicchè è legittimato ad intervenire o ad essere chiamato in causa, senza che in appello operino i limiti risultanti dall’art. 344 c.p.c. (intervento del terzo), né ostando all’ammissibilità della sua chiamata in causa il mancato rispetto dei termini e delle forme prescritti dall’art. 269 c.p.c. (Cass. 27 febbraio 1991, n. 2108; Cass. 14 marzo 2006, n. 5468).
5. Le superiori argomentazioni assorbono l’esame del secondo motivo (violazione e falsa applicazione dell’art. 2112 c.c. e insufficiente motivazione su punto decisivo della controversia, per esclusione del regime di solidarietà tra le società cedente e cessionaria di ramo d’azienda nel rapporto di lavoro), in quanto non esaminato nel merito dalla Corte aquilana per la ravvisata preclusione della partecipazione al giudizio della società cessionaria.
6. Sicchè dalle ragioni svolte discende coerente l’accoglimento del primo motivo di ricorso, con assorbimento del secondo e la cassazione della sentenza con rinvio, anche per la regolazione delle spese del giudizio di legittimità, alla Corte d’appello di Ancona, sulla base del seguente principio di diritto: “Integra violazione dell’art. 111 c.p.c. l’esclusione della chiamata in causa, ancorchè per la prima volta in grado di appello, da parte della lavoratrice illegittimamente licenziata dalla società cedente e reintegrata nel posto di lavoro dopo il trasferimento del ramo d’azienda cui già era stata addetta, della società cessionaria del suddetto ramo: avendo essa qualità di successore a titolo particolare della cedente nella generalità dei rapporti preesistenti e pertanto non già di terza, ma di parte processuale, per l’acquisita titolarità del diritto in contestazione, in una posizione processuale e sostanziale non distinta da quella del suo dante causa; con la sua conseguente legittimazione ad intervenire o ad essere chiamata in causa, senza i limiti risultanti dall’art. 344 c.p.c., né il rispetto dei termini e delle forme prescritti dall’art. 269 c.p.c.”.
P.Q.M.
Accoglie il primo motivo di ricorso, assorbito il secondo; cassa la sentenza, in relazione al motivo accolto e rinvia, anche per la regolazione delle spese del giudizio di legittimità, alla Corte d’appello di Ancona.