CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 21 ottobre 2022, n. 31150
Licenziamento – Allontanamento dalla postazione di lavoro – Esecuzione di attività personali mediante l’utilizzo di attrezzature in assenza di preventivo addestramento – Lesione del vincolo fiduciario – Legittimità della sanzione espulsiva
Ritenuto in fatto
1.Con sentenza n. 408 del 2017, la Corte di appello di Venezia, definitivamente pronunziando nel giudizio di rinvio conseguente alla sentenza di questa Corte n. 8236 del 2016, ha respinto l’appello di C.G. avverso la decisione del Tribunale di Tolmezzo che aveva ritenuto la legittimità del licenziamento intimato al ricorrente per giusta causa dalla società A. s.r.l. con lettera del 27 giugno 2008.
1.1. In particolare, il giudice di secondo grado, adito in sede di rinvio, ha ritenuto di condividere l’iter motivazionale del primo giudice e, nell’effettuare un nuovo esame con riferimento ai profili oggettivi e fattuali dell’episodio oggetto di illecito disciplinare ascritto al lavoratore, come richiesto in sede di legittimità, ha ritenuto giustificata l’adozione della massima sanzione disciplinare nei confronti del ricorrente cui era stato contestato di aver eseguito, durante l’orario di lavoro, attività personali, allontanandosi dalla propria postazione di lavoro senza permesso ed utilizzando attrezzature cui non era stato preventivamente addestrato.
2. Per la cassazione della sentenza propone ricorso C.G., affidandolo a quattro motivi.
2.1. Resiste, con controricorso, A. s.r.l.
2.3. Entrambe le parti hanno presentato memorie.
3. Il Procuratore Generale, nella propria requisitoria, ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso.
Considerato in diritto
1.Con il primo motivo di ricorso, formulato ai sensi degli artt. 132, comma 2, n. 4,384, 116, cod. proc. civ., 2697 cod. civ., 5 L. n. 604 del 1966 e 360, co.1, n.4 cod. proc. civ., parte ricorrente censura la decisione impugnata per aver omesso di esaminare e motivare sulle risultanze documentali e testimoniali circa la “natura della pressa” manuale, la “pericolosità” della stessa il “tempo” necessario a piegare i pezzi ovvero i “profili oggettivi e fattuali oggetto di addebito disciplinare” come richiesto dalla Suprema Corte nel disporre il rinvio.
1.1. Con il secondo motivo si allega ancora la violazione dell’art. 132, comma 2, n. 4, 360 comma 1, n. 4, 116, 384 cod. proc. civ., 2, 3 e 5 L. n. 604 del 1966 in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, nonché vizio logico circa la durata dell’allontanamento dalla postazione di lavoro, la facoltà di utilizzare la pressa e la piegatura di 4, 5 piccoli pezzi, fatti tutti da ritenersi non provati per la falsità delle dichiarazioni rese dal teste F., l’omesso esame delle risultanze documentali e in particolare lettera di assunzione, raccomandata di impugnazione del licenziamento, verbali di udienza.
1.2. Con il terzo motivo si deduce ancora la violazione dell’art. 132, comma 2, n. 4,360 comma 1, n. 4, 116, 384 cod. proc. civ., 2,3 e 5 L. n. 604 del 1966 in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, nonché vizio logico circa la lettera di assunzione e l’impugnativa del licenziamento con riguardo alle mansioni ed alla autonomia del ricorrente circa le attrezzature complesse.
1.3. Con il quarto motivo si allega la violazione dell’art. 132, comma 2, n. 4, 360 comma 1, n. 4, 116, 384 cod. proc. civ., 2,3 e 5 L. n. 604 del 1966, dell’art. 7 L. n. 300 del 1970 con riguardo alla mancata affissione del codice disciplinare e alla mancata pubblicità circa il divieto di utilizzazione della pressa.
2. I quattro motivi, da esaminarsi congiuntamente per ragioni logico – sistematiche, oltre ad essere inammissibilmente formulati in modo promiscuo, tale da rendere impossibile l’operazione di interpretazione e sussunzione delle censure denunciando violazioni di legge o di contratto e vizi di motivazione senza che nell’ambito della parte argomentativa del mezzo di impugnazione risulti possibile scindere le ragioni poste a sostegno dell’uno o dell’altro vizio, determinando una situazione di inestricabile promiscuità (v., in particolare, sul punto, Cass. n. 18715 del 2016; Cass. n. 17931 del 2013; Cass. n. 7394 del 2010; Cass. n. 20355 del 2008; Cass. n. 9470 del 2008), nella sostanza contestano l’accertamento operato dalla Corte territoriale in ordine alla ritenuta legittimità del licenziamento, criticando sotto vari profili la valutazione dalla stessa compiuta con doglianze intrise di circostanze fattuali, mediante un pervasivo rinvio a deposizioni testimoniali e documenti.
2.1. Giova premettere che ogni qualvolta si rinviene, nell’atto introduttivo del presente giudizio, quale motivo di ricorso, la deduzione concernente l’omesso esame o il vizio logico – da riqualificarsi ex art. 360 co. 1 n. 5 anziché ex art. 360, co. 1, n. 4 – si verte nell’ambito di una valutazione di fatto totalmente sottratta al sindacato di legittimità, in quanto in seguito alla riformulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5 del cod. proc. civ., al di fuori dell’omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, il controllo del vizio di legittimità rimane circoscritto alla sola verifica della esistenza del requisito motivazionale nel suo contenuto “minimo costituzionale” richiesto dall’art. 111, comma 6, Cost. ed individuato “in negativo” dalla consolidata giurisprudenza della Corte -formatasi in materia di ricorso straordinario- in relazione alle note ipotesi (mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale; motivazione apparente; manifesta ed irriducibile contraddittorietà; motivazione perplessa od incomprensibile) che si convertono nella violazione dell’art. 132, comma 2, n, 4), c.p.c. e che determinano la nullità della sentenza per carenza assoluta del prescritto requisito di validità (fra le più recenti, Cass. n. 13428 del 2020; Cass. n. 23940 del 2017).
2.1.1. In particolare va ricordato che l’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., nella formulazione risultante dalle modifiche introdotte dal d.l. n. 83 del 2012, conv. dalla L. n. 143 del 2012, (ndr: L. n. 134 del 2012) prevede l'”omesso esame” come riferito ad “un fatto decisivo per il giudizio” ossia ad un preciso accadimento o una precisa circostanza in senso storico – naturalistico, non assimilabile in alcun modo a “questioni” o “argomentazioni” che, pertanto, risultano irrilevanti, con conseguente inammissibilità delle censure irritualmente formulate (cfr. sul punto, Cass. n. 2268 del 2022).
2.2. Occorre poi, evidenziare che, secondo quanto statuito recentemente dalle Sezioni Unite, per la violazione delle disposizioni che presiedono all’ammissione delle prove, è necessario denunciare che il giudice, in contraddizione espressa o implicita con la prescrizione delle relative norme, abbia posto a fondamento della decisione prove non introdotte dalle parti, ma disposte di sua iniziativa fuori dei poteri officiosi riconosciutigli (salvo il dovere di considerare i fatti non contestati e la possibilità di ricorrere al notorio), mentre è inammissibile la diversa doglianza che egli, nel valutare le prove proposte dalle parti, abbia attribuito maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre (cfr., SU n. 20867 del 20/09/2020).
Inoltre, anche una violazione dell’art. 116 cod., proc. civ., non può porsi per una erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma solo allorché si alleghi che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte di ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente appezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti, invece, a valutazione (cfr. Cass. 27.12.2016 n. 27000; Cass. 19.6.2014 n. 13960).
2.3. Relativamente, quindi, alla denunziata violazione dell’art. 2697 cod. civ., va osservato che, per consolidata giurisprudenza di legittimità, (ex plurimis, Cass. n. 18092 del 2020) la doglianza relativa alla violazione del precetto di cui all’art. 2697 cod. civ. è configurabile soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne risulta gravata secondo le regole dettate da quella norma e che tale ipotesi non ricorre nel caso di specie, in particolar modo in quanto, pur veicolando parte ricorrente la censura per il tramite della violazione di legge, essa, in realtà mira ad ottenere una rivisitazione del fatto, inammissibile in sede di legittimità.
3. La Corte, nella specie, con valutazione sottratta al sindacato di legittimità, ha ritenuto dimostrata la peculiare gravità del comportamento del lavoratore, allontanatosi dalla propria postazione di lavoro e dedicatosi all’uso di una pressa, cui non era addestrato, per scopi personali, così addivenendo a reputare legittima l’adozione della massima sanzione espulsiva nei confronti del dipendente.
3.1. Va rilevato, al riguardo, che, secondo l’insegnamento di questa Corte (da ultimo, Cass. n. 13534 del 2019 nonché, in terminis, Cass. n, 7838 del 2005 e Cass. n. 18247 del 2009), il modulo generico che identifica la struttura aperta delle disposizioni di limitato contenuto ascrivibili alla tipologia delle cd. Clausole generali, richiede di essere specificato in via interpretativa, allo scopo di adeguare le norme alla realtà articolata e mutevole nel tempo. La specificazione può avvenire mediante la valorizzazione o di principi che la stessa disposizione richiama o di fattori esterni relativi alla coscienza generale ovvero di criteri desumibili dall’ordinamento generale, a cominciare dai principi costituzionali ma anche dalla disciplina particolare, collettiva, come nel caso in esame, in cui si colloca la fattispecie. Tali specificazioni del parametro :normativo hanno natura giuridica e la loro errata individuazione è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge (ex plurimis, Cass. n. 13453 del 2019 cit., Cass. n. 6901 del 2016; Cass. n. 6501 del 2013; Cass. n. 6498 del 2012; Cass. n. 25144 del 2010).
3.2. Conseguentemente, non si sottrae al controllo di questa Corte il profilo della correttezza del metodo seguito nell’individuazione dei parametri integrativi, perché, pur essendo necessario compiere opzioni di valore su regole o criteri etici o di costume o propri di discipline e/o di ambiti anche extragiuridici, “tali regole sono tuttavia recepite dalle norme giuridiche che, utilizzando concetti indeterminati, fanno appunto ad esse riferimento” (per tutte v. Cass. n. 434 del 1999), traducendosi in un’attività di interpretazione giuridica e non meramente fattuale della norma stessa (cfr. Cass. n. 13453 del 2019 cit., Cass. n. 5026 del 2004; Cass. n. 10058 del 2005; Cass. n. 8017 del 2006).
Nondimeno, va sottolineato che l’attività di integrazione del precetto normativo di cui all’art. 2119 c.c. compiuta dal giudice di merito è sindacabile in cassazione a condizione, però, che la contestazione del giudizio valutativo operato in sede di merito non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga, invece, una specifica denuncia di non coerenza del predetto giudizio rispetto agli standards, conformi ai valori.
3.3. Sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice del merito, opera l’accertamento della concreta ricorrenza, nella fattispecie dedotta in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e sue specificazioni e della loro attitudine a costituire giusta causa di licenziamento;
quindi occorre distinguere: è solo l’integrazione a livello generale e astratto della clausola generale che si colloca sul piano normativo e conserve una censura per violazione di legge; mentre l’applicazione in concreto del più specifico canone integrativo così ricostruito, rientra nella valutazione di fatto devoluta al giudice del merito, “ossia il fattuale riconoscimento della riconducibilità del caso concreto nella fattispecie generale e astratta” (in termini ancora Cass. n. 18247/2009 e n. 7838/2005 citate).
Questa Corte precisa, pertanto, che “spettano inevitabilmente al giudice di merito le connotazioni valutative dei fatti accertati nella loro materialità, nella misura necessaria ai fini della loro riconducibilità – in termini positivi o negativi – all’ipotesi normativa” (così, in motivazione, Cass. n. 15661 del 2001, nonché la giurisprudenza ivi citata).
3.4. Tale distinzione, operante per le clausole generali condiziona la verifica dell’errore di sussunzione del fatto nell’ipotesi normativa, ascrivibile, per risalente tradizione giurisprudenziale (v. in proposito Cass. SS.UU. n. 5 del 2001), al vizio di cui al n. 3 dell’art. 360, comma 1, c.p.c. (di recente si segnala Cass. n. 13747 del 2018); è, infatti, solo l’integrazione a livello ,generale e astratto della clausola generale che si colloca sul piano normativo e consente una censura per violazione di legge: l’applicazione in concreto del più specifico canone integrativo così ricostruito, rientra nella valutazione di fatto devoluta al giudice del merito, “ossia il fattuale riconoscimento della riconducibilità del caso concreto nella fattispecie generale e astratta” (sul punto,fra le altre, Cass. n.18247 del 2009 e n. 7838 del 2005).
4. Nel caso di specie, appare evidente che la censura, veicolata per il tramite dell’art. 360 n. 3 cod. proc. civ., in realtà corre lungo i binari della censura fattuale in quanto mira ad una diversa ricostruzione della fattispecie oltre che ad una inammissibile diversa valutazione delle risultanze istruttorie di primo grado.
Parte ricorrente, infatti, pur denunciando, apparentemente, una violazione di legge, chiede in realtà alla Corte di pronunciarsi sulla valutazione di fatto compiuta dal giudice in ordine alle conclusioni raggiunte con riguardo alla sussistenza della lamentata grave lesione del vincolo fiduciario mentre le argomentazioni da essa sostenute si limitano a criticare sotto vari profili la valutazione compiuta dalla Corte d’Appello, con doglianze mi rise di circostanze fattuali mediante un pervasivo rinvio ad attività asseritamente compiute nelle fasi precedenti ed attinenti ad aspetti di mero fatto, tentandosi di portare di nuovo all’attenzione del giudice di legittimità una valutazione di merito, inerente il contenuto dell’accertamento compiuto circa il comportamento tenuto dal ricorrente e la rilevanza dello stesso nell’ambito del complessivo assetto contrattuale.
Quanto, in particolare, alla mancata affissione del codice disciplinare, va rilevato che, per consolidata giurisprudenza di legittimità (fra le tante, Cass. n. 6893 del 2018) ai fini della validità del licenziamento intimato per ragioni disciplinari non è necessaria la previa affissione del codice disciplinare, in presenza della violazione di norme di legge e comunque di doveri fondamentali del lavoratore, riconoscibili come tali senza necessità di specifica previsione — come è stato ritenuto nel caso di specie — né può assumere rilievo l’assenza di pubblicità circa il divieto di utilizzazione della pressa, avendo la Corte argomentato circa la gravità dell’illecito in considerazione delle mansioni svelte dal ricorrente nonché dell’assenza di addestramento all’uso del macchinari o in questione.
5. Alla luce delle suesposte argomentazioni, il ricorso deve essere respinto.
6. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.
6.1. Sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte della parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art. 1 bis dello stesso articolo 13 , se dovuto
P.Q.M.
Respinge il ricorso. Condanna la parte ricorrente alla rifusione delle spese processuali, in favore della parte controricorrente, che liquida in euro 4000,00 per compensi ed euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali al 15% e accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, da atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma dell’art.. 1 bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
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