CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 22 agosto 2019, n. 21630
Licenziamento – Assenza ingiustificata dal lavoro – Cessazione definitiva del rapporto per effetto del secondo provvedimento espulsivo
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza in data 22 febbraio 2017, la Corte d’Appello di Napoli ha respinto l’appello proposto dalla S. s.n.c. di P.G. & C. avverso la decisione con cui il Tribunale di Santa Maria Capua Vetere, in parziale accoglimento della domanda, aveva dichiarato illegittimo il licenziamento intimato in data 20 marzo 2003 a C.S., condannando la società al pagamento, in favore della lavoratrice, del risarcimento del danno pari a cinque mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto oltre interessi, respingendo la riconvenzionale proposta.
1.1. La Corte, confermando l’iter decisorio del primo giudice, ha ritenuto, in particolare, una volta accertata l’illegittimità del licenziamento in questione – fondato sull’assenza per tre giorni dal lavoro, ritenuta ingiustificata – di non poter pronunciarsi sul secondo licenziamento, intimato nel settembre 2003, in quanto ultra petita, non essendo mai stato impugnato dalla dipendente; ha reputato, quindi, corretta la valutazione di primo grado, che non aveva confermato la reintegra nel posto di lavoro disposta in sede cautelare, per essere definitivamente cessato il rapporto per effetto del secondo provvedimento espulsivo.
2. Per la cassazione della sentenza propone ricorso la S. s.n.c., affidandolo a tre motivi.
2.1 Resiste con controricorso C.S.
Considerato in diritto
1. Con il primo motivo di ricorso si deduce la violazione o falsa applicazione dell’art. 2702 cod. civ., avendo la Corte ritenuto prive di qualsivoglia valore probatorio le dimissioni scritte versate in atti, per averne la lavoratrice contestato il contenuto pur confermando la autenticità della sottoscrizione.
1.1. Il motivo è infondato.
Giova evidenziare, al riguardo, in termini generali, che il riconoscimento tacito della scrittura privata ai sensi dell’art. 215 cod. proc. civ. e la verificazione della stessa ex art. 216 stesso codice, attribuiscono alla scrittura il valore di piena prova fino a querela di falso, secondo quanto dispone l’art. 2702 cod. civ., della sola provenienza della stessa da chi ne appare come sottoscrittore e non anche della veridicità delle dichiarazioni in essa rappresentate, di talché il contenuto di queste ultime può essere contestato dal sottoscrittore con ogni mezzo di prova, entro i limiti di ammissibilità propri di ciascuno di essi (ex plurimis, Cass. n. 13321 del 30/06/2015; negli stessi termini, Cass. n. 11674 del 12/05/2008; si veda, altresì, Cass. n. 4582 del 06/05/1998, secondo cui, qualora il lavoratore sostenga di avere stipulato un contratto a tempo indeterminato e che nel contratto di lavoro prodotto dalla controparte, redatto mediante utilizzazione di un modulo prestampato e pacificamente da lui sottoscritto, la data di scadenza, lasciata in bianco, è stata apposta in un momento successivo dal datore di lavoro, al fine di far risultare il contratto a termine e non a tempo indeterminato, non è ammissibile ne’ necessaria una querela di falso, perché la contestazione verte, attesa la particolare natura della fattispecie, sulla veridicità del contenuto della scrittura privata e non sulla provenienza delle dichiarazioni).
Nel caso di specie, il giudice di merito, conformandosi all’orientamento della giurisprudenza di legittimità, ha escluso, in base al proprio prudente apprezzamento, che il documento, disconosciuto nel contenuto, potesse assumere valore di prova legale ai sensi dell’art. 2702 cod. civ., nel rispetto del principio di cui all’art. 116 cod. civ., con valutazione non censurabile in sede di legittimità. 2. Con il secondo motivo di ricorso si deduce la violazione dell’art. 112 cod. proc. civ. per aver la Corte ritenuto nulle per mancanza di causa le dimissioni disconosciute e operante un’inversione dell’onere della prova, addossando la stessa al datore di lavoro per dimostrare la validità del documento.
Il motivo è infondato.
Contrariamente a quanto asserito da parte ricorrente, la Corte non è in alcun modo andata ultra petita essendosi limitata a ritenere non valide le dimissioni per esserne stato il contenuto disconosciuto dalla lavoratrice ed avendo il documento valore fra le parti, ha correttamente ritenuto, conformemente alla giurisprudenza di legittimità (cfr., ex multis, Cass. n. 27353 del 23/12/2014) che è la parte che intende avvalersi del documento onerata dì provarne la veridicità e nessuna prova è stata offerta in tal senso dalla società datrice.
3. Con il terzo motivo si deduce la violazione e falsa applicazione degli artt. 1362 e 1363 cod.civ., nonché omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto dì discussione tra le parti con riferimento al contenuto della missiva datoriale del 20 marzo 2003.
Il motivo è infondato.
Non v’è dubbio che, in tema di interpretazione del contratto, il procedimento di qualificazione giuridica consta di due fasi, delle quali la prima – consistente nella ricerca e nella individuazione della comune volontà dei contraenti – è un tipico accertamento di fatto riservato al giudice di merito, sindacabile in sede di legittimità solo per vizi di motivazione in relazione ai canoni di ermeneutica contrattuale di cui agli artt. 1362 e ss. c.c., mentre la seconda – concernente l’inquadramento della comune volontà nello schema legale corrispondente – risolvendosi nell’applicazione di norme giuridiche – può formare oggetto di verifica e riscontro in sede di legittimità sia per quanto attiene alla descrizione del modello tipico della fattispecie legale, sia per quanto riguarda la rilevanza qualificante degli elementi di fatto così come accertati, sia infine con riferimento alla individuazione delle implicazioni effettuali conseguenti alla sussistenza della fattispecie concreta nel paradigma normativo (sul punto, ex multis, Cass. n. 29111 del 5/12/2017).
Nondimeno, nel caso di specie, la Corte si è limitata a prendere atto del contenuto, chiarissimo, della missiva datoriale che nulla ha a che vedere con un contratto ma consiste esclusivamente in una chiara manifestazione unilaterale di volontà espulsiva pur se “ammantata” del riferimento alle invalide dimissioni. Risulta di palmare evidenza il difetto di qualsivoglia operazione ermeneutica da parte della Corte alla luce del chiarissimo tenore delle parole del negozio.
Per quanto concerne la censura inerente il vizio di motivazione, ne va statuita l’inammissibilità, alla luce del disposto del comma 5 dell’art. 348 ter c. p. c., il quale prevede che la disposizione di cui al precedente comma 4 – ossia l’esclusione del vizio di motivazione dal catalogo di quelli deducibili ex art. 360 c. p. c. – si applica, fuori dei casi di cui all’art. 348 bis, comma 2, lett. a), anche al ricorso per cassazione avverso la sentenza di appello che conferma la decisione di primo grado (cd. “doppia conforme”).
4. Alla luce delle suesposte argomentazioni, il ricorso va respinto.
4.1. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo. Sussistono i presupposti per il versamento, da parte della parte ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dell’art. 1 -bis dell’ articolo 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002.
P.Q.M.
rigetta il ricorso. Condanna la parte ricorrente alla rifusione delle spese processuali in favore della controricorrente, che liquida in complessivi euro 5000,00 per compensi ed euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali al 15% e accessori di legge. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002, da atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dell’art. 1 -bis dello stesso articolo 13.
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