CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 22 febbraio 2019, n. 5265
Tributi – Accertamento – PVC – Contenzioso tributario – Cessioni partecipazioni – Minusvalenze
Fatti di causa
1. L’Agenzia delle entrate emetteva avviso di accertamento nei confronti della Ing. P.G. s.p.a., a seguito di processo verbale di constatazione, per l’anno 2003, sia per l’indeducibilità di una minusvalenza di € 1.549.370,00 generata dalla cessione della partecipazione detenuta nella società estera V.I. Ltd alla F., ceduta ad € 1, sia l’indeducibilità di costi relativi a fatture emesse dalla Lavori edili s.a.s. nei confronti della contribuente per prestazioni effettuate in suo favore, in quanto relative a interposizione fittizia di manodopera.
In particolare, la G. s.p.a. acquistava il 23-12-1997 il 30 % delle quote della V.I., società con sede in Gibilterra, di proprietà della F., società lussemburghese, per la somma di lire 3.000.000.000.
La G. s.p.a. era partecipata per il 40 % dall’Ing. G.G. G., per il 20 % dall’Ing. P.G. e per il 40 % dalla F. s.p.a.. Con contratti preliminari del 22-10-1998 e del 16-12-1998, oltre che attraverso patti parasociali, la S. s.r.l. intendeva acquistare il 60 % delle azioni della G. s.p.a., lasciandone il 40 % alla F., al prezzo di lire 4.500.0. 000.
A seguito della risoluzione da parte di S., la F. chiedeva che la prima acquisisse il 40 % residuo delle azioni della G. s.p.a., con acquisizione anche del 30 % delle quote della V.I. di proprietà sempre della G. s.p.a. (controllata al 98 % da S.), entro cinque anni (23-12-2003), da intestare alla D.E., per un totale, quindi, di lire 4.500.0. 000, di cui lire 1.500.000.000 pagate dalla S. in tre rate, e lire 3.000.000.000, costituite dal valore del 30 % delle quote della V.I..
La G. s.p.a., poi, agiva invano dinanzi al collegio arbitrale nei confronti della venditrice F. per il risarcimento dei danni.
Il 14-11-2003 la G. s.p.a. cedeva il 30 % delle quote della V. alla F. per la cifra di € 1, “adempiendo” ad una obbligazione contratta dalla controllante S..
2. La Commissione tributaria provinciale rigettava il ricorso della contribuente, con conferma della decisione da parte della Commissione tributaria regionale.
3. Avverso tale sentenza proponeva ricorso per cassazione la contribuente.
4. Resisteva con controricorso l’Agenzia delle entrate.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo di impugnazione la società deduce, quanto alla “cessione della partecipazione di V.”, “violazione di legge ed errata applicazione degli artt. 9, 66 e 75 del Tuir, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c.”. Violazione ed errata applicazione dell’art. 112 del c.p.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4 c.p.c.. Violazione ed errata applicazione degli artt. 2697 e 2700 del c.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, del c.p.c.”.
Invero, l’assunto della Agenzia delle entrate è quello per cui il valore del 30 % delle quote della V., dapprima acquistate dalla G. nel 1997 a lire 3.000.000.000 dalla F., non poteva essere sceso ad € 1 nel 2003, quando la stessa G. ha ceduto le medesime quote alla F., “in quanto tale era l’importo di corrispettivo pattuito e corrisposto dalle parti alla fine del 1998, mediante una compensazione di natura finanziaria, in concomitanza…all’acquisto da parte di S. da F. S.A. delle azioni rappresentative del 40 % del capitale sociale della Ing. P.G. s.p.a.”.
Per la ricorrente, invece, il “corrispettivo” fissato in € 1, nel 2003, non può essere sostituito con il valore, in funzione di atti: con effetti meramente obbligatori; stipulati cinque anni prima; da soggetti diversi rispetto alla G..
Il corrispettivo è stato ritenuto nullo in ragione del valore “nullo” della partecipazione ceduta, anche a seguito dell’esito infruttuoso del giudizio arbitrale promosso dalla G. nei confronti della venditrice F., e della conseguente svalutazione integrale operata nel bilancio di esercizio del 2002 della G. s.p.a. Non vi sono norme che consentono il sindacato di congruità in capo agli organi verificatori ed alla amministrazione finanziaria, non potendo essi sostituirsi alle “scelte imprenditoriali”. Solo i beni “in natura”, ai sensi dell’art. 9 comma 2 del d.p.r. 917/1986, sono valutati in base al “valore normale” dei beni stessi.
Inoltre, ai sensi dell’art. 9 comma 4 del d.p.r. 917/1986 “il valore normale è determinato…per le altre azioni, per le quote di società non azionarie e per i titoli o quote di partecipazione al capitale di enti diversi dalle società, in proporzione al valore del patrimonio netto della società o ente ovvero, per le società o enti di nuova costituzione, all’ammontare complessivo dei conferimenti“. Il patrimonio netto della V., all’epoca della cessione del 2003, era nullo, non potendo farsi riferimento ad un valore (lire 3.000.000.000.00) stabilito cinque anni prima all’intero di preliminari stipulato tra soggetti diversi dalla contribuente. Il valore del patrimonio, nei bilanci del 2001, 2002 e 2003 era rispettivamente di € 30.000,00, 30.000,00 e 4000.000,00, dovendosi anche considerare che la quota della contribuente era solo del 30 %.
Inoltre, la Guardia di finanza non ha condotto alcuna indagine tesa a dimostrare l’effettivo valore della partecipazione al momento della cessione.
Né la G. ha mai avuto il controllo della V., in quanto le quote della V. sono state intestate alla fiduciaria D.E. spa con obbligo di quest’ultima di esercitare in assemblea il diritto di voto coerentemente alle istruzioni impartite da F., già a partire dal 22-12-1998.
L’individuazione del momento impositivo è l’anno 2003, data di cessione della partecipazione, e non quello della stipulazione di preliminari tra diversi soggetti nel 1998.
La Commissione regionale, poi, ha dapprima disposto una perizia per la determinazione del valore della partecipazione V. al 2003, ma successivamente ha revocato l’ordinanza istruttoria, per assenza di documentazione. In realtà, la società ha depositato l’atto costitutivo e lo statuto della V., i bilanci della stessa relativi agli anni 2001, 2002 e 2003.
Vi è violazione del principio di corrispondenza tra il chiesto ed il pronunciato ex art. 112 c.p.c., in quanto per la Commissione regionale, in caso di acquisti da società a fiscalità privilegiata, i relativi costi sono deducibili solo alle condizioni di cui all’art. 76 commi 7 bis e ter del d.p.r. 917/1986, all’epoca vigente (ora art. 110 commi 10 e 11 Tuir). In realtà, l’avviso di accertamento non fa menzione di tali norme e della indeducibilità di costi sostenuti per acquisto da paesi inclusi nella black list.
Non v’è, poi, prova in atti della proposta di riacquisto formulata dall’Ing. G. nel 1999 e nel 2000 (cfr. pagina 83 del ricorso per cassazione), per tenere indenne la società G. spa dall’eventuale deprezzamento della partecipazione V., mentre erroneamente la Commissione regionale ha ritenuto sussistente tale proposta sulla base del rapporto della Guardia di Finanza (pagine 49 e 50 del p.v.c.), in violazione degli artt. 2697 e 2700 c.c..
2. Con il secondo motivo di impugnazione la ricorrente si duole della “erroneità della sentenza di seconde cure per omessa motivazione su di un punto decisivo della controversia afferente il valore oggettivo della partecipazione all’epoca della cessione, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c.”, non avendo la Commissione regionale preso in considerazione i valori patrimoniali della V., risultanti dai bilanci e confermati dall’esito del giudizio arbitrale.
3. Con il terzo motivo di impugnazione la ricorrente deduce “omessa motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio. Il giudice di secondo grado rinvia sterilmente alla decisione di primo grado. Erroneo utilizzo della motivazione per relationem, in relazione all’art. 360, primo comma n. 5 c.p.c.”, essendosi limitata la Commissione regionale “a svolgere un vero e proprio copia ed incolla della motivazione di primo grado”.
3.1.Tali motivi, che vanno esaminati congiuntamente per ragioni di connessione, sono infondati.
Anzitutto, si rileva che la Commissione regionale, ha sì trascritto la motivazione della commissione provinciale, ma l’ha adeguatamente valutata, censurando tutte le critiche alla stessa mosse con l’atto di appello della società. Infatti, nella prima parte della motivazione ha riferito sui fatti di causa e sulla documentazione in atti (contratti preliminari e patti parasociali), nella parte I (da pagina 5) ha rigettato una eccezione preliminare ritenendo insussistente l’inammissibilità del ricorso per abuso del diritto, nella parte II/A (da pagina 7 a pagina 12) ha riportato la motivazione della Commissione provinciale, nelle parti II B, II C e II D (da pagina 12 a pagina 15) ha risposto alle osservazioni dell’appellante sull’omesso espletamento della perizia per determinare il valore della partecipazione, sulla irrilevanza dei bilanci della società per accertare tale valore e sulla ricerca di opportune garanzie da parte dell’Ing. G., sulla non congruità del valore di tale partecipazione all’atto della cessione nel 2003. Inoltre, contrariamente a quanto affermato dalla ricorrente, che ha richiamato due pronunce di questa Corte (Cass.Civ., 31 ottobre 2005, n. 21155, e Cass.Civ., 19 maggio 2000, n. 6502), in materia di congruità dei compensi corrisposti agli amministratori, ai fini della loro deducibilità quali costi, la giurisprudenza successiva ha affermato che, in tema di determinazione dei redditi di impresa, rientra nei poteri dell’Amministrazione finanziaria la valutazione di congruità dei costi e dei ricavi esposti nel bilancio e nelle dichiarazioni, anche ove non ricorrano irregolarità nella tenuta delle scritture contabili o vizi negli atti giuridici d’impresa, sicché la deducibilità, ai sensi dell’art. 62 (ora art. 95, comma 5) del d.P.R. n. 917 del 1986, dei compensi degli amministratori di società non implica alcun vincolo alla misura indicata nelle deliberazioni sociali o nei contratti, competendo agli uffici finanziari la verifica dell’attendibilità economica dei predetti dati (Cass.Civ., 30 novembre 2016, n. 24379; Cass.Civ., 11 febbraio 2013, n. 3243; Cass.Civ., 19369/2018; per l’esclusione del diritto alla detrazione Iva nel caso n cui l’amministrazione finanziaria dimostri l’antieconomicità manifesta e macroscopica dell’operazione cfr. Cass.Civ., 27 settembre 2013, n. 22130).
La Commissione regionale ha chiarito le ragioni per cui il valore del corrispettivo della cessione delle partecipazioni alla V. (30 %), avvenuto ad € 1, da parte della G. s.p.a. in favore della F. s.p.a., non sia stato ritenuto congruo.
La Ing. P.G. s.p.a., il 23-12-1997, ha acquistato dalla F., con sede di Lussemburgo, le quote della V.I., al prezzo di lire 3.000.000.000,00, reputando che tale acquisto avrebbe consentito una espansione contrattuale nel mondo.
Si premette che, poi, nel 2003, le medesime quote (pari al 30 %) saranno ritrasferite dalla G. s.p.a. alla F. per la somma di € 1: di qui la asserita minusvalenza, disconosciuta dalla Agenzia delle entrate.
Il 22-10-1998 sono stati stipulati contratti preliminari tra la F. (promittente venditrice) e M.L. (promissario acquirente, che controlla la S. s.p.a.), aventi ad oggetto l’acquisizione della maggioranza delle azioni della G. s.p.a..
Tali azioni appartenevano per il 40 % all’Ing. G.G. G., per il 20 % all’Ing. P.G. e per il restante 40 % alla F..
Il M. (controllante della S.) promette di acquistare il 60 % delle quote, quindi il 40 % dall’Ing. G.G.G. ed il 20 % dall’Ing. P.G..
All’art. 8 dei patti parasociali si prevede però che, in caso di disaccordo sulle strategie aziendali, il socio di maggioranza (il M. e poi la S.) si obbliga ad acquistare il residuo 40 % del capitale sociale per lire 4.500.0. 000.
Al M. subentra poi la controllata S. che chiede la risoluzione anticipata del contratto. La F., quindi, in base al patto parasociale, chiede che la S. acquisisca il residuo 40 % delle azioni della G. s.p.a.. Inoltre, con il preliminare del 16-12-1998, S. si impegna ad acquistare il 30 % delle quote della V.I. di proprietà della G., entro cinque anni, quindi, entro il 22-12-2003. Tali quote al momento del primo pagamento saranno intestate alla fiduciaria D.E., che eserciterà il diritto di voto secondo le indicazione della F..
Viene stipulato, poi, altro preliminare tra la F. e la S., controllante la G., in base al quale la F. cede il 40 % delle azioni della G. alla S. al prezzo di lire 4.500.000.000,00, come previsto nel patto parasociale del 1998, mentre la S. (che controlla la G. s.p.a.), offre in pagamento la somma di lire 1.500.000.000,00 in tre rate, nonché , entro il 22-12-2003, la partecipazione in V., ossia il 30 % delle quote, già stimata nel contratto del 23-12-1997, in lire 3.000.000.000,00. Questa è la “compensazione finanziaria” cui fa riferimento l’Agenzia delle entrate e dalla quale emerge che il prezzo del 30 % delle quote della V. Interational è proprio di 3.000.000.000,00.
La G. s.p.a., controllata da S. s.p.a., trasferisce, invece, cinque anni dopo, il 14-11-2003, un mese prima della scadenza fissata nel preliminare del 1998 (22-12-2003), il 30 % di tali quote, per € 1,00, alla F., che, a sua volta, le aveva vendute alla G. s.p.a. il 23-12-1997, a lire 3.000.000.000.00.
Vari elementi depongono per la sottovalutazione di tali quote, benché la ricorrente sottolinei che il prezzo di lire 3 miliardi proviene da contratti preliminari, meramente obbligatori, tra soggetti diversi e a distanza di circa cinque anni, con il rigetto, peraltro, della domanda di risarcimento dei danni presentata dalla G. nei confronti della venditrice F. dinanzi al collegio arbitrale.
In realtà, come evidenziato dalla Commissione regionale, non v’è traccia di trattative con altri possibili acquirenti, la G. s.p.a., che cede le quote ad € 1, è controllata dalla obbligata S., “tra le società Ing. P.G. s.p.a….S….F., con sede in Lussemburgo e la V….sussistono legami non solo di interessi ma anche personali, nonostante la compagine sociale e l’organo amministrativo della ricorrente siano mutati poco dopo l’acquisizione della partecipazione nella V.”, esisteva un patto parasociale che indicava in lire 4.500.000.000,00 il valore del 40 % delle azioni della G. s.p.a., la cessione avviene a meno di un mese dalla scadenza dei cinque anni per trasferire il 30 % delle quote della V. alla F., il lodo è stato richiesto per ottenere utilità a prescindere dall’esito (in caso di vittoria con un credito della attrice G. nei confronti della F., in caso di rigetto della domanda di danni, con la possibilità di svalutare la partecipazione, sicché la S. avrebbe adempiuto alla sua obbligazione ad un costo nullo). Inoltre, la Commissione regionale ha chiarito che la perizia non è stata espletata per assenza di documentazione, che i documenti prodotti (bilanci del triennio 2001, 2002 e 2003) non sono attendibili in quanto la V. è una società con sede in Gibilterra, paese a fiscalità privilegiata, che l’Ing. G., prima di formalizzare l’acquisto della partecipazione V., ha informato il Collegio sindacale che aveva dato incarico ai legali di farsi riconoscere una garanzia sul valore della partecipazione, che sono state del tutto ignorate le norme che prevedevano l’indeducibilità dei costi ai sensi dell’art. 76 commi 7 bis e 7 ter del d.p.r. 917/1986, all’epoca vigente.
Né v’è stata, sul punto, la pretesa extrapetizione ex art. 112 c.p.c., in quanto la Commissione regionale ha fatto riferimento all’art. 76 commi 7 bis e 7 ter del d.p.r. 917/1986, non per integrare la motivazione dell’avviso di accertamento, ma per contrastare le doglianze della ricorrente, giustificando l’omesso espletamento della perizia per l’assenza di documentazione attendibile, in quanto quella prodotta ineriva ad una società con sede in paese incluso nella black list.
Nelle sedute del 21-12-1999 e del 3-1-2000 ring. G. ha sottoscritto una “proposta ferma di riacquisto” della partecipazione V. per tenere indenne la società da un eventuale deprezzamento, aggiungendo che “la considerata proposta di riacquisto è riportata nelle pagine 45 e 50 del p.v.c. il quale, come è noto, fa fede fino a querela di falso”.
In tema di accertamenti tributari, il processo verbale di constatazione assume un valore probatorio diverso a seconda della natura dei fatti da esso attestati, potendosi distinguere al riguardo un triplice livello di attendibilità: a) il verbale è assistito da fede privilegiata, ai sensi dell’art. 2700 c.c., relativamente ai fatti attestati dal pubblico ufficiale come da lui compiuti o avvenuti in sua presenza o che abbia potuto conoscere senza alcun margine di apprezzamento o di percezione sensoriale, nonché quanto alla provenienza del documento dallo stesso pubblico ufficiale ed alle dichiarazioni a lui rese; b) quanto alla veridicità sostanziale delle dichiarazioni a lui rese dalle parti o da terzi — e dunque anche del contenuto di documenti formati dalla stessa parte e/o da terzi — esso fa fede fino a prova contraria, che può essere fornita qualora la specifica indicazione delle fonti di conoscenza consenta al giudice ed alle parti l’eventuale controllo e valutazione del contenuto delle dichiarazioni; c) in mancanza della indicazione specifica dei soggetti le cui dichiarazioni vengono riportate nel verbale, esso costituisce comunque elemento di prova, che il giudice deve in ogni caso valutare, in concorso con gli altri elementi, potendo essere disatteso solo in caso di sua motivata intrinseca inattendibilità o di contrasto con altri elementi acquisiti nel giudizio, attesa la certezza, fino a querela di falso, che quei documenti sono comunque stati esaminati dall’agente verificatore (Cass.Civ., 24 novembre 2017, n. 28060; Cass.Civ., 3 luglio 2014, n. 15191, con riferimento ai fatti descritti nel processo verbale di constatazione).
Nella specie, la presenza della “proposta di riacquisto” da parte dell’Ing. G., nelle sedute 21-12-1999 e del 3-1-2000, riportata a pagina 45 e 50 del p.v.c., è un fatto di cui gli accertatoli hanno potuto conoscere senza alcun margine di apprezzamento.
Non v’è stata violazione alcuna, quindi, degli artt. 9, 61 e 75 del d.p.r. 917/1986, all’epoca vigente, mentre la motivazione risulta analitica, completa e ben strutturata.
Quanto alla motivazione, si rileva, ad evidenziare la completezza della stessa, che la Commissione ha dato atto del contenzioso introdotto dalla G. s.p.a. nei confronti della venditrice F., giungendo ad affermare, in modo condivisibile e chiaro, che “il lodo arbitrale…è stato intentato contro F. nel gioco del più ampio progetto da parte della famiglia M. teso a entrare in possesso del 100 % delle azioni: in pratica si può affermare che il lodo sia stato promosso nella certezza che, qualunque ne fosse stato l’esito, l’utilità sarebbe rientrata o in termini fiscali o in termini di risparmio, stante che il M. avrebbe dovuto pagare il riacquisto della partecipazioni della V.. Per quanto riguarda la ricorrente: in caso di soccombenza della F. avrebbe iscritto all’attivo patrimoniale il credito verso la predetta; in caso contrario, avrebbe avuto a disposizione lo strumento giuridico per svalutare la partecipazione”.
4. Con il quarto motivo di impugnazione la società deduce “Sull’applicazione dell’art. 8 del d.l. 2-3-2012 n. 16, al presente procedimento. Ius superveniens”, in quanto, in relazione alla indeducibilità dei costi sostenuti dalla ricorrente nei rapporti con la L.E. s.a.s., non deve applicarsi la vecchia normativa (art. 14, comma 4 bis della legge n. 537 del 1993), che faceva riferimento alla qualificabilità dei fatti compiuti come “reato”, ma alle modifiche apportate dal d.l. n. 16 del 2012, che fa riferimento, invece, per la indeducibilità dei costi all’esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero.
5. Con il quinto motivo la società si duole “sull’applicazione dell’art. 8 del d.l. 2-3-2012, n. 16. Il costo non è indeducibile. Mancata prova sulla sussistenza del presupposto ex lege previsto per la contestazione dell’indeducibilità dei costi. L’Amministrazione finanziaria non ha provato l’avvenuto esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero”, in quanto la Commissione tributaria si è limitata ad affermare che “il F. per i fatti suesposti è stato denunziato all’A.G. per il reato di cui all’art. 18 comma 5 bis d.lgs. 276/2003”, ma nulla si afferma in ordine agli esiti della denuncia.
6. Con il sesto motivo la ricorrente deduce “Sull’applicazione dell’art. 8 del d.l. 2-3-2012 n. 16. Il costo non è indeducibile in quanto non collegato direttamente con il reato. I costi sostenuti dalla Ing. P.G. sono stati utilizzati per l’esecuzione di attività in sé lecite”, in quanto l’indeducibilità attiene solo ai quei componenti negativi che si rivelano essere “causa” e non solo “occasione” del delitto non colposo commesso.
6.1.. Con il nono motivo di impugnazione la società deduce “art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c. – Violazione di legge ed errata applicazione dell’art. 14, comma 4 bis, della legge n. 537 del 1993”, in quanto vanno considerati indeducibili solo i costi sostenuti per attività che costituiscono in sé reato, non per le attività lecite, alla stregua di una interpretazione costituzionalmente orientata della norma richiamata.
6.3.Con il decimo motivo la società si duole per “art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c.”
– omessa motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio”, in quanto la Commissione regionale non ha preso in alcuna considerazione la questione sollevata dalla appellante in ordine alla qualificazione della notizia di reato come presupposto sufficiente per l’applicazione dell’art. 14, comma 4 bis, della legge n. 537 del 1993, mentre deve farsi riferimento alla effettiva sussistenza della ipotesi criminosa.
6.4.1 motivi quarto, quinto, sesto, nono e decimo, che vanno trattati unitariamente per ragioni di connessione, sono fondati.
Invero, ai sensi dell’art. 14 comma 4 bis della legge 24-12-1993, n. 537, prima della novella del 2012, “nella determinazione dei redditi di cui all’articolo 6, comma 1, del d.p.r. 917/1986, non sono ammessi in deduzione i costi o le spese riconducibili a fatti, atti o attività qualificabili come reato, fatto salvo l’esercizio di diritti costituzionalmente riconosciuti”.
L’art. 8 del d.l. 2 marzo 2012, n. 16 ha, invece, modificato l’art. 14 comma bis della legge 537/1993, prevedendo che “nella determinazione dei redditi di cui all’articolo 6, comma 1, del d.p.r. 917/1986, non sono ammessi in deduzione i costi e le spese dei beni o delle prestazioni di servizio direttamente utilizzati per il compimento di atti o attività qualificabili come delitto non colposo per il quale il pubblico ministero abbia esercitato l’azione penale o, comunque, qualora il giudice abbia emesso il decreto che dispone il giudizio ai sensi dell’art. 424 c.p.p. ovvero sentenza di non luogo a procedere ai sensi dell’art. 425 dello stesso codice fondata sulla sussistenza della causa di estinzione del reato prevista dall’art. 157 c.p.”
Inoltre, ai sensi del terzo comma dell’art. 8 del d.l. 16/2012, “Le disposizioni di cui ai commi 1 e 2 si applicano, in luogo di quanto disposto dal comma 4 bis dell’articolo 14 della legge 24-12-1993, n. 537, previgente, anche per fatti, atti o attività posti in essere prima dell’entrata in vigore degli stessi commi 1 e 2, ove più favorevoli, tenuto conto degli effetti in termini di imposte o maggiori imposte dovute, salvo che i provvedimenti previgenti non si siano resi definitivi”.
Nella specie, è in contestazione la interposizione fittizia nella somministrazione di manodopera, in quanto, secondo la ricostruzione effettuata dalla Commissione regionale, solo formalmente esisteva un contratto di appalto tra la G. s.p.a. e la L.E. s.a.s., mentre, in realtà, i lavoratori erano sotto il potere direttivo della G. s.p.a., senza che vi fosse rischio di impresa per la appaltatrice L.E. s.a.s..
Invero, l’art. 29 del d.lgs. 276 del 2003 prevede che “ai fini della applicazione delle norme contenute nel presente titolo (Somministrazione di lavoro, appalto di servizi, distacco), il contratto di appalto, stipulato ai sensi dell’art. 1655 c.c., si distingue dalla somministrazione di lavoro per la organizzazione dei mezzi necessari da parte dell’appaltatore, che può anche risultare, in relazione alle esigenza dell’opera o del servizio dedotti in contratto, dall’esercizio del potere organizzativo e direttivo nei confronti dei lavoratori utilizzati nell’appalto, nonché per la assunzione, da parte del medesimo appaltatore, del rischio d’impresa”.
I requisiti per la sussistenza di un contratto di appalto di servizi sono necessari tre presupposti: organizzazione in capo all’appaltatore, potere direttivo sui propri lavoratori, assunzione del rischio di impresa da parte dell’appaltatore. Peraltro, per giurisprudenza di legittimità, seppure nel vigore della legge 1369 del 1960, poi abrogata dalla legge 276/2003, il divieto di intermediazione ed interposizione nelle prestazioni di lavoro, sancito dall’art. 1 della legge n. 1369 del 1960, opera nel caso in cui l’appalto abbia ad oggetto la messa a disposizione di una prestazione lavorativa, attribuendo all’appaltatore i soli compiti di gestione amministrativa del rapporto in assenza di una reale organizzazione della prestazione stessa finalizzata ad un risultato produttivo autonomo, la cui esistenza, peraltro, non può essere esclusa – avuto riguardo alla natura delle prestazioni in concreto affidate – ove la predisposizione dell’organizzazione del lavoro non sia supportata da mezzi e capitali propri – nella specie, relativa all’affidamento del servizio di portierato per una Casa di cura ad una Cooperativa, la S.C., nel rigettare il ricorso, ha ritenuto corretta la decisione della corte territoriale di ritenere effettivo l’appalto atteso che l’organizzazione dei turni di servizio era concordata, sotto la direzione della sola Cooperativa, tra gli stessi membri della portineria, il corrispettivo per l’attività era forfettario e non commisurato alle ore o alle persone impiegate alla copertura del servizio, mancava una direzione tecnica da parte dell’amministrazione della clinica, le cui disposizioni interne erano meramente funzionali ad informare il personale di turno delle esigenze organizzative della clinica stessa, mentre, per contro, i lavoratori svolgevano, in concreto, solo le funzioni tipiche del portiere ed erano retribuiti dalla sola Cooperativa – (Cass.Civ., 29 settembre 2011, n. 19920).
Inoltre, si è aggiunto che, in tema di interposizione nelle prestazioni di lavoro, anche nel regime di cui al d.lgs. 10 settembre 2003, n. 276, così come già in quello di cui alla legge n. 1369 del 1960, per quanto la circostanza che il personale dell’appaltante impartisca disposizioni agli ausiliari dell’appaltatore sia un indice dell’accordo fraudolento, ai fini della dimostrazione della sussistenza di quest’ultimo è necessario che dette disposizioni sono riconducibili al potere direttivo del datore di lavoro anche in relazione alle effettive modalità di svolgimento delle prestazioni lavorative (Cass.Civ., 15 luglio 2011, n. 15615).
Non è, quindi, sufficiente, ai fini della configurazione di un appalto fraudolento, la circostanza che il personale dell’appaltante impartisca disposizioni agli ausiliari dell’appaltatore, dovendosi verificare se le disposizioni impartite siano riconducibili al potere direttivo del datore di lavoro, in quanto inerenti a concrete modalità di svolgimento delle prestazioni lavorative, oppure al solo risultato di tali prestazioni, il quale può formare oggetto di un genuino contratto di appalto (Cass.Civ., 6 giugno 2011, n. 12201, sempre in tema di applicazione della legge 1369/1960 poi abrogata dall’art. 85 comma 1 lettera c del d.lgs. 276/2003).
Nella specie, la Commissione tributaria ha ravvisato l’esistenza del potere direttivo da parte della committente G. s.p.a., come da dichiarazioni del F., appaltatore, (“Costui…ha dichiarato che i lavori nel cantiere in Marghera sono stati eseguiti da lavoratori della L.E. s.a.s. a lui riferibili sotto il coordinamento e la direzione della G.”).Inoltre, la L.E. s.a.s. “era priva di locali, quali magazzini, depositi…materiali ed attrezzature idonee ai lavori commissionati”.
Tuttavia, la Commissione si è limitata ad affermare che “il F., per i fatti suesposti è stato denunziato all’A.g. per il reato di cui all’art. 18 comma 5 bis d.lgs. 276/2003”.
Lo ius superveniens di cui al d.l. 16/2012, come visto, laddove prevede per la indeducibilità dei costi l’esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero, si applica retroattivamente, ai sensi dell’art. 8 comma 3 di tale d.l. (Cass.Civ., 24 luglio 2018, n. 19617), non essendo stato fornito elemento alcuno in ordine alla valutazione dei fatti oggetto di denunzia penale da parte del pubblico ministero.
Pertanto, vanno accolte le doglianze della società ricorrente sul punto.
7. Con il settimo motivo la società “nella denegatissima ipotesi in cui questa Ecc.ma Corte riterrà di insistere nell’applicazione della vecchia normativa”, deduce “art. 360 comma 1 n. 5 c.p.c. – Omessa motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio. Il giudice del merito ha completamente omesso di motivare sulla questione relativa all’assunzione del rischio di impresa”.
7.1. Tale motivo è assorbito, in ragione della applicazione dello ius superveniens.
8. Con l’ottavo motivo la società censura la sentenza della Commissione regionale per “art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c. – Omessa motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio. Il giudice di secondo grado rinvia sterilmente alla decisione di primo grado. Erroneo utilizzo della motivazione per relationem”, in quanto la Commissione regionale ha effettuato un “vero e proprio copia ed incolla” della decisione di primo grado.
9. Tale motivo è infondato.
Invero, la motivazione della Commissione regionale, non si è limitata a richiamare la motivazione della sentenza della Commissione provinciale, ma si è soffermata con cura sulla insussistenza dei caratteri propri del contratto di appalto “genuino” (organizzazione dei mezzi necessari da parte dell’appaltatore; potere direttivo dell’appaltatore; rischio di impresa che deve gravare sull’appaltatore), evidenziando le dichiarazioni rese dal F. e la circostanza che la s.a.s. era priva di locali quali magazzini e depositi.
10. Con l’undicesimo motivo la società deduce “erroneità della sentenza di seconde cure per omessa motivazione su di un punto decisivo della controversia, afferente la non applicabilità ovvero la riduzione delle sanzioni, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4 c.p.c.”, in particolare non v’è stata motivazione sulle questioni della inapplicabilità delle sanzioni per obiettive condizione di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione delle norme oggetto di causa ai sensi dell’art. 6, comma 2, del d. Igs. n. 472 del 1997, della inapplicabilità o riduzione delle sanzioni per carenza dell’elemento soggettivo ai sensi dell’art. 5, comma 2, del d.lgs. n. 472 del 1997, della riducibilità delle sanzioni per manifesta sproporzione tra la sanzione irrogabile e l’entità del tributo cui le presunte violazioni si riferiscono ai sensi dell’art. 7, quarto comma, del d.lgs. 472/1997.
10.1. Tale motivo è infondato.
Invero, con riferimento alla indeducibilità dei costi per la violazione dell’art. 29 del d.lgs. 276/2003, in tema di interposizione fittizia di manodopera, non possono, allo stato, essere applicate sanzioni, in ragione della applicazione della novella di cui al d.l. 16 del 2012, articolo 8, che ha modificato il comma 4 bis dell’art. 14 della legge 537/1993, con cassazione della sentenza impugnata con rinvio alla Commissione regionale del Veneto.
Per il resto, quanto alla indeducibilità della pretesa minusvalenza, il motivo è infondato, in quanto la Commissione regionale ha espressamente motivato in ordine alle sanzioni, rilevando (pagina 18 della sentenza) che “se è vero che nell’impugnata sentenza non risulta provveduto sulle dette eccezioni, è altrettanto vero che nessuna delle stesse eccezioni può comunque trovare accoglimento, poiché, a tacer d’altro, vi ostano sia la ritenuta – e qui condivisa -natura della predisposta manovra posta in essere nel 1998 e portata a termine nel 2003, sia il chiaro disposto dell’art. 14, comma 4 bis, della legge 24 dicembre 1993, n. 537…entrambe le circostanze appiano all’evidenza del tutto incompatibili con le invocate ipotesi di inapplicabilità o riduzione delle sanzioni”.
La motivazione della Commissione regionale, quindi, non solo tiene conto delle tre eccezioni sollevate dalla società in tema di applicazione della sanzioni, ma è anche congrua e convincente, in quanto fa riferimento alla “predisposta manovra” escogitata dalla società per ottenere una minusvalenza deducibile, perdurante per circa cinque anni, costruita anche con un ricorso dinanzi ad un collegio arbitrale, oltre che alla esistenza “in astratto” di una fattispecie criminosa, con effetti in tema di indeducibilità dei costi caducati dallo ius superveniens, che richiede l’esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero.
11. La sentenza deve, quindi, essere cassata limitatamente ai motivi quarto, quinto, sesto, nono e decimo, con rinvio alla Commissione tributaria regionale del Veneto, in diversa composizione, dovendosi accertare, proprio in ragione dell’intervento della novella costituita dal d.l. 16/2012, se vi sia stato l’esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero oppure l’emissione del decreto di rinvio a giudizio da parte del giudice dell’udienza preliminare ai sensi dell’art. 424 c.p.p.. il carattere “chiuso” del giudizio di rinvio ai sensi dell’art. 394 c.p.c., infatti, consente la produzione di nuovi documenti nel caso in cui fatti sopravvenuti o la stessa sentenza di cassazione rendano necessaria una ulteriore attività istruttoria (Cass. Civ., 12 ottobre 2009, n. 21587; Cass.Civ., 30 settembre 2015, n. 19424; Cass.Civ., 1 marzo 2012, n. 3186).
P.Q.M.
In accoglimento dei motivi quarto, quinto, sesto, nono e decimo, rigettati il primo, il secondo, il terzo, l’ottavo e l’undicesimo, assorbito il settimo, cassa la sentenza impugnata, con rinvio alla Commissione tributaria regionale del Veneto, in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.
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