CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 22 febbraio 2021, n. 4676
Contributi previdenziali omessi – Sospensione dell’attività lavorativa disposta dall’impresa doveva reputarsi -Giustificazione per causa di forza maggiore – Fattispecie di sospensione non prevista dalla contrattazione collettiva applicabile – Base di calcolo dei contributi previdenziali, non inferiore all’importo del c.d. “minimale contributivo” – Principio di autonomia del rapporto contributivo rispetto all’obbligazione retributiva
Fatti di causa
Con sentenza depositata il 25.2.2014, la Corte d’appello di Bari ha confermato la pronuncia di primo grado che aveva accolto l’opposizione proposta da W.R., in proprio e n.q. di legale rapp.te di Ing. R.W. & C. s.a.s., avverso la cartella esattoriale con cui gli era stato ingiunto di pagare i contributi previdenziali ritenuti omessi in danno di taluni dipendenti occupati presso un cantiere sito in Berlino.
La Corte, in particolare, ha ritenuto che, essendo state provate le cattive condizioni climatiche insistenti in Germania, la sospensione dell’attività lavorativa che era stata disposta dall’impresa doveva reputarsi giustificata per causa di forza maggiore, indipendentemente dal fatto che si trattasse di fattispecie di sospensione non prevista dalla contrattazione collettiva applicabile, di talché nulla era dovuto per i contributi omessi.
Avverso tali statuizioni ha proposto ricorso per cassazione l’INPS, deducendo un motivo di censura. W.R., in proprio e n.q., e la società concessionaria dei servizi di riscossione sono rimasti intimati. A seguito di infruttuosa trattazione camerale, la Sesta sezione civile di questa Corte, con ordinanza del 7.7.2016, ha rimesso la causa alla pubblica udienza.
Ragioni della decisione
Con l’unico motivo di censura, l’INPS denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 1, d.l. n. 338/1989 (conv. con l. n. 389/1989), per avere la Corte di merito ritenuto che, essendo stata data prova delle cattive condizioni climatiche insistenti nel cantiere sito in Germania, la sospensione dell’attività lavorativa da parte dell’impresa odierna intimata doveva reputarsi giustificata per causa di forza maggiore ex artt. 1463 e 1464 c.c., ancorché si trattasse di fattispecie di sospensione non tipizzata dalla contrattazione collettiva applicabile, e comunque per avere la Corte ritenuto raggiunta la prova della ricorrenza di una causa di forza maggiore, che nel caso di specie non poteva invece in alcun modo ravvisarsi.
Il motivo è fondato nei termini che seguono.
Va premesso che, secondo la giurisprudenza di questa Corte consolidatasi dopo Cass. S.U. n. 11199 del 2002, l’importo della retribuzione da assumere come base di calcolo dei contributi previdenziali, ai sensi dell’art. 1, d.l. n. 338/1989 (conv. con l. n. 389/1989), non può essere inferiore all’importo del c.d. “minimale contributivo”, ossia all’importo di quella retribuzione che ai lavoratori di un determinato settore dovrebbe essere corrisposta in applicazione dei contratti collettivi stipulati dalle associazioni sindacali più rappresentative su base nazionale.
Tale regola è espressione del principio di autonomia del rapporto contributivo rispetto all’obbligazione retributiva, in virtù del quale l’obbligo contributivo ben può essere parametrato ad un importo superiore rispetto a quanto effettivamente corrisposto dal datore di lavoro, e – com’è stato recentemente chiarito da Cass. n. 15120 del 2019 – la sua operatività concerne non soltanto l’ammontare della retribuzione c.d. contributiva, ma altresì l’orario di lavoro da prendere a parametro, che dev’essere l’orario di lavoro normale stabilito dalla contrattazione collettiva (o dal contratto individuale, se superiore): è infatti evidente che, se ai lavoratori venissero retribuite meno ore di quelle previste dal normale orario di lavoro e la contribuzione dovuta venisse modulata su tale minore retribuzione, non vi potrebbe essere rispetto del minimale contributivo nei termini dianzi ricordati e ne verrebbe vulnerata la stessa idoneità del prelievo a soddisfare le esigenze previdenziali e assistenziali per le quali è stato istituito (v. in tal senso già Corte cost. n. 342 del 1992).
Ciò equivale a dire che non sussiste alcuna possibilità per i datori di lavoro di modulare l’obbligazione contributiva in funzione dell’orario o della stessa presenza al lavoro che abbiano concordato con i loro dipendenti: l’obbligazione relativa ai contributi deve piuttosto ritenersi affatto svincolata dalla retribuzione effettivamente corrisposta e semmai connotata da caratteri di predeterminabilità e oggettività, anche in funzione della possibilità di un controllo da parte dell’ente previdenziale, per modo che rimane dovuta nell’intero ammontare previsto dal contratto collettivo anche nei casi di assenza del lavoratore o di sospensione della prestazione lavorativa che costituiscano il risultato di un accordo tra le parti derivante da una libera scelta del datore di lavoro e non da ipotesi previste dalla legge e dal contratto collettivo medesimo, quali malattia, maternità, infortunio, aspettativa, permessi, cassa integrazione (così, espressamente, Cass. n. 15120 del 2019, cit., che, sulla scorta di quanto già affermato da Cass. n. 13650 del 2019, ha in tal senso superato il diverso principio affermato da Cass. n. 24109 del 2018).
Ciò posto, non può condividersi l’assunto della sentenza impugnata secondo cui la ricorrenza di una ipotesi di impossibilità oggettiva totale o parziale della prestazione ex artt. 1463 e 1464 c.c. dovrebbe comportare anche il venir meno dell’obbligazione contributiva, indipendentemente dal fatto che tale ipotesi non sia tipizzata dalla legge o dal contratto collettivo quale causa di legittima sospensione del rapporto di lavoro.
Come chiarito da Cass. S.U. n. 11199 del 2002, cit., l’art. 1, d.l. n. 338/1989, cit., nel prevedere che la retribuzione da assumere quale base di calcolo dei contributi previdenziali non possa essere «inferiore all’importo delle retribuzioni stabilito da leggi, regolamenti, contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative su base nazionale, ovvero da accordi collettivi o contratti individuali, qualora ne derivi una retribuzione di importo superiore a quella prevista dal contratto collettivo», non si limita a ribadire quanto già desumibile dall’art. 12, l. n. 153/1969, ossia che l’imponibile contributivo si determina sul “dovuto” e non su quanto “di fatto erogato”, ma pone il diverso e ulteriore principio per cui la retribuzione “dovuta” in relazione al sinallagma del rapporto di lavoro risulta rilevante solo se è superiore ai minimi previsti dal contratto collettivo, mentre in caso contrario non rileva e vale la misura minima determinata dal contratto collettivo. Vale a dire che non ogni alterazione del sinallagma funzionale del rapporto di lavoro, per quanto possa incidere sull’an e sul quantum dell’obbligazione retributiva, è rilevante ai fini della commisurazione dell’obbligazione contributiva: quest’ultima segue infatti proprie regole, potendo risultare dovuta perfino in assenza di alcun obbligo retributivo a carico del datore di lavoro (cfr. in tal senso Cass. n. 4899 del 2017).
Se ciò è vero, del tutto inconferente appare il richiamo della sentenza impugnata alla costante giurisprudenza di questa Corte in tema di sospensione dell’obbligo retributivo in relazione a cause di forza maggiore che rendano inutilizzabile la prestazione lavorativa: il principio secondo cui, in presenza di una causa di forza maggiore non imputabile al datore di lavoro, che renda la prestazione lavorativa obiettivamente inutilizzabile nel processo produttivo dell’azienda, si determina una impossibilità temporanea delle contrapposte obbligazioni che, finché dura l’impedimento, libera il lavoratore dall’obbligo della prestazione ed il datore di lavoro dall’obbligo di corrispondere la retribuzione (così, tra le tante, Cass. n. 5167 del 1983 e, più recentemente, Cass. n. 4437 del 1995), vale precisamente nell’ambito del sinallagma contrattuale individuale, ma non acquista rilevanza ai fini della determinazione dell’obbligazione contributiva se non in quanto vi sia una clausola del contratto collettivo di settore che attribuisca alla “forza maggiore” la qualità di causa di sospensione del rapporto di lavoro.
Né può sostenersi che, essendo l’impossibilità sopravvenuta della prestazione disciplinata dagli artt. 1463 e 1464 c.c. quale causa di sospensione dell’obbligo della controprestazione nei contratti a prestazioni corrispettive, la sua rilevanza ai fini della sospensione dell’obbligazione contributiva discenderebbe direttamente dalla legge: è infatti assolutamente pacifico in dottrina (e riconosciuto anche dalla giurisprudenza di questa Corte) che le disposizioni dettate dagli artt. 1463 e 1464 c.c. per l’ipotesi di impossibilità sopravvenuta della prestazione non esprimono una disciplina di natura cogente e inderogabile, ben potendo le parti, nell’esercizio della loro autonomia privata, disporre una regolamentazione differente degli effetti dell’impossibilità totale o parziale (così espressamente Cass. n. 275 del 1976), di talché, se può ragionevolmente sostenersi che la disciplina degli artt. 1463 ss. c.c. ha senz’altro una funzione integrativa del contratto individuale, ex art. 1374 c.c., non può per contro presupporsi che essa debba necessariamente entrare a far parte del contenuto dei contratti collettivi ai quali l’art. 1, d.l. n. 338/1989, cit., rinvia per la determinazione dell’obbligazione contributiva, dal momento che il principio posto dall’art. 1339 c.c. è invocabile solo nell’ipotesi in cui si prospetti la sostituzione di clausole contrattuali difformi rispetto a norme imperative di legge e non invece ove si invochi l’integrazione di lacune della manifestazione della volontà negoziale (così da ult. Cass. n. 14083 del 2019).
Dovendo pertanto ritenersi che la forza maggiore non imputabile al datore di lavoro, pur potendo liberare il lavoratore dall’obbligo della prestazione ed il datore di lavoro dall’obbligo di corrispondere la retribuzione, non acquista rilevanza ai fini della determinazione dell’obbligazione contributiva se non in quanto vi sia una clausola del contratto collettivo di settore che attribuisca alla “forza maggiore” la qualità di causa di sospensione del rapporto di lavoro, la sentenza impugnata, che non si è conformata all’anzidetto principio di diritto, va cassata e la causa rinviata per nuovo esame alla Corte d’appello di Bari, in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
accoglie il ricorso. Cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte d’appello di Bari, in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del giudizio di cassazione.
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