CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 22 giugno 2018, n. 16572
Licenziamento illegittimo – Motivazione generica – Mancata prova dell’effettività della situazione di crisi aziendale -Ragioni poste dall’imprenditore devono essere oggettivamente verificabili onde escluderne la pretestuosità
Fatti di causa
1. La Corte di appello di Roma in accoglimento del gravame proposto da L.C. ha riformato la sentenza del Tribunale di Viterbo ed ha dichiarato illegittimo il licenziamento intimato in data 30 gennaio 2010 dalla A.V. s.r.l. ordinando la riassunzione della lavoratrice nel termine di tre giorni o, in mancanza, condannando la società al versamento dell’indennità risarcitoria quantificata in cinque mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto percepita oltre interessi legali e rivalutazione monetaria dal giorno del recesso al saldo. Inoltre ha condannato la società convenuta a corrisponderò alla lavoratrice la somma di € 11.688,13 oltre accessori a titolo di indennità di cassa e la somma di € 13.372,39 oltre interessi legali e rivalutazione monetaria dalle scadenze al saldo per differenze retributive spettanti in relazione all’avvenuto svolgimento delle mansioni superiori.
2. La Corte territoriale ha accertato che la motivazione del licenziamento era generica e che la società datrice non aveva comunque dato la prova dell’effettività della situazione di crisi aziendale allegata in giudizio. Ha accertato che al momento del licenziamento erano in servizio otto dipendenti di cui solo tre appartenenti alla famiglia A.. Inoltre non aveva dato la prova che la dedotta crisi incidesse proprio sul settore al quale era addetta la C. che, peraltro, si occupava oltre che della biglietteria anche di altri compiti del servizio turistico. Escluso il nesso causale tra crisi e recesso ha ritenuto equo quantificare in cinque mensilità l’indennità risarcitoria avuto riguardo alle ridotte dimensioni dell’azienda ed all’anzianità della lavoratrice. Il giudice di appello ha del pari condannato la società datrice a corrispondere l’indennità di cassa spettante a norma del ccnl di categoria in relazione allo svolgimento di compiti di maneggio danaro e le differenze retributive connesse all’accertato svolgimento delle mansioni superiori
3. Per la cassazione della sentenza ricorre la A.V. ed articola quattro motivi. Resiste la C. con controricorso e propone ricorso incidentale al quale resiste la ricorrente principale con controricorso. La A.V. s.r.l. ha depositato memoria ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ..
Ragioni della decisione
4. Con il primo motivo di ricorso la società A.V. ha censurato la sentenza nella parte in cui ha accertato la illegittimità del licenziamento intimato a L.C. per avere, in violazione dell’art. 360 primo comma n. 5 cod. proc. civ. omesso di considerare che i motivi del licenziamento, intimato per giustificato motivo oggettivo, non erano mai stati chiesti dalla lavoratrice e dunque la Corte non lo avrebbe potuto ritenere genericamente motivato. E’ poi denunciata la violazione e falsa applicazione dell’art. 3 della legge n. 604 del 1966, dell’art. 30 della legge n. 183 del 2010, dell’art. 2697 cod. civ. e dell’art. 41 Cost. atteso che nel corso del giudizio era stata offerta la prova documentale della crisi aziendale oltre che della composizione a prevalenza familiare dell’azienda. Ne consegue, ad avviso della ricorrente, che il giudice di appello, nel ritenere di modesta entità la perdita ed ingiustificata la decisione di ridurre il personale, avrebbe invaso l’ambito riservato alle scelte discrezionali dell’imprenditore ed avrebbe inoltre trascurato di considerare che si trattava di una piccola impresa che operava a livello locale e che la scelta di ridurre il personale delle biglietterie era connessa al calo degli introiti sintomatico del crollo delle vendite.
5. La censura è infondata sotto entrambi i profili.
5.1. La circostanza che la ricorrente non avesse chiesto che le venissero comunicati i motivi del licenziamento, nel regime antecedente le modifiche apportate alla legge n. 604 del 1966 dall’art. 1 comma 37 della legge 28 giugno 2012 n. 92, non è decisiva ove si consideri che in concreto la Corte territoriale ha accertato l’insussistenza delle ragioni giustificative del recesso quali esposte nelle difese apprestate in giudizio. Con riguardo poi all’ accertamento dell’insussistenza del giustificato motivo oggettivo di licenziamento ed alla denunciata illegittima intromissione, da parte della Corte di appello, nelle scelte aziendali va rilevato che la sentenza, non ha proceduto ad una valutazione autonoma dell’opportunità di contenere i costi né tantomeno si è sostituito all’imprenditore nel vagliare quale delle possibili scelte organizzative fosse quella corretta per farvi fronte. Piuttosto il giudice di appello, preso atto di quali erano le scelte operate, ne ha in concreto verificato non si trattava di impresa a carattere familiare, che non risultava documentata la crisi nei termini denunciati, che la posizione lavorativa non era stata soppressa e che, comunque, non era stato provato il collegamento causale tra crisi denunciata e la sua eliminazione. In definitiva la Corte di merito ha mantenuto la sua indagine proprio nell’ambito richiestole che è quello di verificare in concreto l’esistenza delle ragioni poste dall’imprenditore a fondamento della sua scelta di procedere alla risoluzione del rapporto di lavoro, scelta che, come più volte ribadito da questa Corte, deve essere oggettivamente verificabile onde escluderne la pretestuosità (cfr. tra le altre Cass. 03/05/2017 n. 10699 che, pur riconoscendo che nelle ragioni inerenti all’attività produttiva ed all’organizzazione del lavoro siano comprese anche quelle dirette ad una migliore efficienza gestionale ovvero ad un incremento della redditività, pretende comunque un collegamento causale tra la soppressione della posizione lavorativa ed il mutamento dell’assetto organizzativo e, ferma l’insindacabilità della scelta imprenditoriale nei suoi profili di congruità ed opportunità, pretende comunque una verifica in concreto da parte del giudice dell’ esistenza della ragione organizzativa o produttiva, alla quale, ove resti indimostrata, consegue l’ingiustificatezza del licenziamento per mancanza di veridicità o pretestuosità della causale addotta).
6. Con il secondo motivo di ricorso la società censura la sentenza della Corte romana nella parte in cui, ritenuto provato un maggior orario lavorato, ha condannato la società a corrispondere alla lavoratrice la somma di € 11.021,11 a titolo di differenze retributive oltre accessori dalle singole scadenze al saldo. Pur prendendo atto del fatto che nel dispositivo della sentenza non è riportata tale condanna, tuttavia la società afferma di avere interesse ad impugnare la motivazione della sentenza che, in esito all’esame del materiale probatorio, ha accertato lo svolgimento di un numero di ore lavorative settimanali superiore rispetto a quello denunciato e retribuito riconoscendo così le somme chieste. Sostiene in particolare la ricorrente che in violazione degli artt. 115 e 116 cod.proc.civ. sarebbe stato attribuito valore probatorio decisivo ai cartellini di presenza prodotti in giudizio dalla lavoratrice ma tempestivamente contestati dalla Società e non confermati se non in minima parte dai testi escussi. Deduce poi che la Corte di merito avrebbe invertito l’onere probatorio, che con riguardo alla dimostrazione del maggior orario grava sul lavoratore, così incorrendo anche nella violazione dell’art. 2697 cod.civ..
7. Il medesimo capo della decisione è oggetto del primo motivo di ricorso incidentale da parte della signora C. che denuncia per tale aspetto, in relazione all’art. 360 primo comma n. 4 cod. proc. civ. ed in violazione degli artt. 112 e 156 secondo comma cod. proc. civ., la nullità della sentenza di cui evidenzia la contraddittorietà della motivazione, che contiene la ricostruzione della domanda oltre che il suo accoglimento, con il dispositivo della sentenza che omette la condanna.
8. Si reputa necessario esaminare con precedenza il ricorso incidentale che nei termini di seguito esposti è fondato.
8.1. Nel dispositivo della sentenza la Corte territoriale “in accoglimento dell’appello e in riforma della sentenza (…)” che aveva visto totalmente soccombente la C., ha dichiarato illegittimo il licenziamento con le conseguenze di cui all’art. 8 della legge n. 604 del 1966 (riassunzione o risarcimento del danno quantificato in cinque mensilità di retribuzione); ha condannato la società al pagamento delle somme chieste per indennità di cassa (€ 11.688,13) delle differenze dovute in relazione alle mansioni superiori svolte (€ 13.372,39) ed al pagamento delle spese di entrambi i gradi di giudizio. La Corte ha omesso pertanto la condanna al pagamento delle somme chieste, e non contestate nel loro ammontare, in relazione al maggior orario di lavoro svolto. In motivazione la sentenza esamina, invece, la domanda,accogliendola. E’ accertato e non è contestato che la domanda fosse stata formulata in primo grado e reiterata in appello. Non solo ne dà atto la sentenza ma neppure lo contesta la Società datrice, che anzi propone un motivo di ricorso con il quale si duole della ricostruzione dei fatti e dell’accoglimento della domanda. Si è pertanto realizzata quella difformità tra dispositivo e motivazione che rende nulla in tale parte la sentenza. Ed infatti nel rito del lavoro il contrasto insanabile tra dispositivo e motivazione determina la nullità della sentenza, da far valere mediante impugnazione, in difetto della quale prevale il dispositivo. Tale impugnazione è stata ritualmente proposta dalla C..
8.2. Vanno allora esaminate le censure mosse alla motivazione della sentenza dalla Società. Queste sono inammissibili. Ed infatti, lungi dal denunciare, come esposto nella rubrica, una violazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ e dell’art. 2697 cod. civ., esse sollecitano una nuova e diversa valutazione delle emergenze istruttorie che non è consentita a questa Corte. Come è noto, nel giudizio di cassazione la questione della violazione o della falsa applicazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. non può porsi con riferimento alla erronea valutazione del materiale istruttorio compiuta dal giudice di merito, ma, rispettivamente, solo allorché si alleghi che quest’ultimo abbia posto a base della decisione prove non dedotte dalle parti, ovvero disposte d’ufficio al di fuori dei limiti legali, o abbia disatteso, valutandole secondo il suo prudente apprezzamento, delle prove legali, ovvero abbia considerato come facenti piena prova, recependoli senza apprezzamento critico, elementi di prova soggetti invece a valutazione (cfr. Cass. 27/12/2016 n. 27000). Nessuna di tali evenienze è neppure denunciata sicché per tale aspetto il motivo è inammissibile. Quanto alla dedotta violazione dell’art. 2697 cod. civ. va qui ribadito che la doglianza relativa alla violazione di tale precetto è configurabile soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne risulta gravata secondo le regole dettate da quella norma. Nel caso in esame la Corte di merito ha ricostruito l’orario osservato prendendo le mosse dai cartellini di presenza rispetto ai quali i testi escussi hanno confermato che in caso di mal funzionamento si procedeva ad annotare manualmente sui cartellini stessi gli orari. Così facendo la Corte ha esercitato il potere discrezionale riservatole di analisi e valutazione del materiale probatorio offertole dalle parti senza incorrere in alcuna delle violazioni denunciate nella rubrica del motivo che viceversa si propone di ottenere, in ammissibilmente, da questa Corte una diversa e più favorevole valutazione delle emergenze istruttorie che invece è riservata esclusivamente al giudice di merito.
8.3. Alla luce delle considerazioni sopra esposte, allora, inammissibile il motivo del ricorso principale va accolto invece il ricorso incidentale. Non occorre però disporre il rinvio alla Corte di merito atteso che nessun accertamento di fatto è necessario per disporre la condanna al pagamento delle somme che non sono mai state contestate nel loro complessivo ammontare. La Corte di appello, infatti, dà atto del fatto che i conteggi non erano stati mai contestati né dal ricorso della società è dato evincere il contrario. Ne consegue che la società A.V. s.r.l. deve essere condannata al pagamento in favore della lavoratrice della somma di € 11.021,11 oltre alla rivalutazione monetaria ed agli interessi legali dalle singole scadenze al saldo.
9. E’ in parte inammissibile ed in parte infondato il terzo motivo del ricorso proposto dalla A.V. s.r.l. che, sotto due distinti profili, investe il capo della decisione con il quale è censurata la sentenza della Corte romana nella parte in cui ha riconosciuto il diritto della lavoratrice a percepire l’indennità di cassa, prevista dall’art. 431 del c.c.n.I. dei dipendenti da aziende del settore turismo ratione temporis applicabile, avendo riscontrato la sussistenza dei presupposti per la sua erogazione previsti dalla disposizione richiamata (adibizione continuativa ad operazioni di cassa e responsabilità della gestione con obbligo di accollo di eventuali differenze). Quanto al primo dei due profili di censura osserva il Collegio che, ancora una volta, pur dolendosi della violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 cod.proc.civ. si deduce nella sostanza che si sarebbe potuto ricostruire diversamente il materiale probatorio pervenendo ad un più favorevole risultato per la Società. Orbene, nel richiamare i principi esposti in risposta al secondo motivo di ricorso, si rileva che la sentenza ha chiarito le ragioni per le quali la circostanza che la C. non fosse mai stata ritenuta responsabile di ammanchi non per questo escludeva l’esistenza di una responsabilità di cassa. Si tratta di ricostruzione che non solo non incorre nella violazione delle disposizioni denunciate ma che, ove pure formulata quale vizio di motivazione (e non lo è stata), avrebbe potuto essere valutata nei rigorosi limiti dettati dal testo novellato dell’art. 360 primo comma n. 5 cod. proc. civ. con necessità di indicare un fatto decisivo pretermesso neppure segnalato. E’ infondata la censura nella parte in cui deduce una violazione e falsa applicazione dell’art. 431 c.c.n.I. sostenendo che l’indennità di cassa spetti solo al dipendente che svolga mansioni di cassiere o di addetto al cambio valute e non anche a chi, come la C., avesse l’incarico di riscuotere i corrispettivi dei servizi di biglietteria a cui era preposta. La Corte territoriale, muovendo dall’esatta considerazione che l’indennità è prevista per il caso in cui il dipendente sia adibito con continuità ad operazioni di cassa e ne abbia la responsabilità, ha in concreto accertato l’esistenza delle condizioni per il riconoscimento dei compensi chiesti dalla C. che per le funzioni svolte incassava i corrispettivi li custodiva in una cassetta riposta in cassaforte a fine giornata e riconteggiata il giorno dopo. Ha altresì accertato che per tale attività era prevista una responsabilità in caso di ammanchi tanto che altri dipendenti con analoghe mansioni erano stati richiesti di rimborsare somme incassate per biglietti e poi risultate mancanti. Si tratta di interpretazione della disposizione collettiva del tutto corretta che ben si attaglia alla realtà in cui è stata calata e che non si espone pertanto alle censure che vengono mosse non essendovi nella disposizione collettiva alcun elemento testuale o in collegamento con altre disposizioni dello stesso contratto che possa far propendere per la diversa ricostruzione prospettata dalla Società.
10. Con l’ultimo motivo del suo ricorso la A.V. s.r.l. si duole, sotto vari profili, dell’avvenuto riconoscimento delle mansioni superiori riconducibili al terzo livello del contratto collettivo di settore e della conseguente condanna al pagamento delle differenze retributive.
10.1 Sostiene la ricorrente che la Corte di merito, in violazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ., avrebbe travisato le risultanze istruttorie e ritenuto provata la conoscenza delle lingue, che costituisce uno dei requisiti per poter essere inquadrati nella qualifica rivendicata. Sostiene che per “conoscenza delle lingue” deve intendersi la effettiva ed assoluta padronanza della lingua straniera, diversa da quella meramente scolastica posseduta e quale era risultata dalle dichiarazioni rese dai testi escussi in giudizio. Ad avviso della ricorrente erroneamente la Corte avrebbe travisato le risultanze dell’istruttoria svolta dando rilievo a titoli di studio insufficienti a dimostrare la qualificazione linguistica necessaria per conseguire l’inquadramento richiesto.
10.2. In violazione dell’art. 360 primo comma n. 5 cod. proc. civ., poi, il giudice di secondo grado avrebbe trascurato di considerare che dalle dichiarazioni rese dai testi escussi sarebbe emersa appunto una conoscenza scolastica del solo inglese.
10.3. Sottolinea che la Corte sarebbe incorsa pure nella violazione falsa applicazione dell’art. 414 del contratto collettivo che nel richiedere la “conoscenza di lingue” non può che essere inteso come riferito alla padronanza di più lingue e non, come accertato, alla conoscenza scolastica di una sola lingua straniera.
10.4. Con riferimento poi all’ulteriore requisito della “capacità di costruzione tariffaria autonoma”, pure necessario ai sensi dell’art. 414 del c.c.n.I. citato per il conseguimento della qualifica rivendicata dalla lavoratrice, la società ricorrente si duole ancora una volta della violazione e falsa applicazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. in relazione all’art. 360 primo comma n. 3 cod. proc. civ. e della violazione e falsa applicazione dell’art. 414 c.c.n.I.. Sostiene infatti che dalle dichiarazioni rese dai testi escussi non era risultata confermata l’esistenza di tale requisito, sempre contestata dalla datrice di lavoro, sicché la Corte di appello avrebbe accolto la domanda nonostante la mancanza di prove da cui desumere la capacità della C. di costruire tariffe in autonomia da intendersi, ai sensi del citato art. 414 c.c.n.I., senza l’ausilio di cataloghi e software contenenti tariffe già predisposte e con autonomia decisionale.
10.5. In ultimo denuncia l’erroneità della sentenza per avere ritenuto che il tratto distintivo tra il terzo livello auspicato ed il quarto livello posseduto fosse “la capacità di ricostruzione tariffaria autonoma e la conoscenza di lingue”. Limitando a tali caratteristiche l’indagine istruttoria, senza procedere ad una comparazione delle qualifiche descritte nelle declaratorie, la Corte avrebbe trascurato di prendere in esame gli altri tratti caratteristici, pure rilevanti, quali le “notevoli conoscenze tecniche” la “specifica ed adeguata capacità professionale” e la “responsabilità di coordinamento”. Sottolinea poi che era onere del lavoratore allegare e dimostrare di essere in possesso dei requisiti per il chiesto inquadramento ivi comprese le più complesse modalità di esecuzione della prestazione e conclusivamente deduce che in tal modo sarebbe incorsa nella violazione dell’art. 360 primo comma n. 5 cod. proc. civ. e nella violazione e falsa applicazione dell’art. 414 c.c.n.I. delle aziende del settore turismo con riferimento all’art. 360 primo comma n. 3 cod. proc. civ..
11. Anche tali censure sono in parte inammissibili ed in parte infondate. L’articolata doglianza, infatti, pretende da una parte che la Corte rivisiti il materiale probatorio, già preso in esame dalla Corte di appello, al fine di ottenerne una diversa ricostruzione. Dall’altra si duole della ricostruzione operata dalla Corte del contenuto della norma collettiva di riferimento (l’art. 414 del c.c.n.I.) in quanto, a suo dire, il giudice di appello non avrebbe proceduto alla comparazione delle qualifiche, quali descritte dalla disposizione collettiva, ed avrebbe valorizzato solo alcuni dei tratti caratteristici trascurandone altri.
11.1. Va rilevato in primo luogo che dalla lettura della motivazione si evince che Corte territoriale si è attenuta alla regola enunciata dalla Cassazione in numerose sentenze (cfr. per tutte Cass. 30/10/2008 nn. 26233 e 26234 e recentemente Cass. 27/05/2016 n. 11017) secondo la quale “nel procedimento logico – giuridico diretto alla determinazione dell’inquadramento di un lavoratore subordinato non può prescindersi da tre fasi successive, e cioè, dall’accertamento in fatto delle attività lavorative in concreto svolte, dall’individuazione delle qualifiche e dei gradi previsti dal contratto collettivo di categoria e dal raffronto tra il risultato della prima indagine ed i testi della normativa contrattuale individuati nella seconda.” Ed infatti ha proceduto alesarne della norma collettiva, indagando il contenuto delle qualifiche ivi descritte. Ne ha individuato i tratti distintivi e, dopo aver accertato che gli addetti ai servizi di prenotazione, turistici e/o alle biglietterie ferroviarie, aeree, marittime e automobilistiche anche con mezzi di tariffazione automatica, appartengono al quarto livello (quello posseduto dalla C.), ha poi evidenziato che, invece, tali lavoratori devono essere inquadrati nel terzo livello ove si accerti l’esistenza di due ulteriori elementi: la costruzione tariffaria autonoma e la conoscenza di lingue. Ricostruito, quindi, sulla base delle acquisizioni istruttorie (testi e documenti), il contenuto delle mansioni svolte dalla lavoratrice, prendendo in esame anche le circostanze che, nel ricorso, si pretende che siano state trascurate è pervenuto al convincimento che la lavoratrice aveva diritto all’inquadramento rivendicato ed alle differenze retributive azionate. Non corrisponde al vero pertanto che la Corte di merito si sia discostata dal percorso ricostruttivo indicato dalla Cassazione nelle pronunce ricordate. Anzi la Corte ha anche motivatamente spiegato perché alcune delle caratteristiche indicate dalla norma collettiva (le notevoli conoscenze tecniche, la specifica ed adeguata capacità professionale e la responsabilità di coordinamento),non fossero riferibili al particolare profilo della ricorrente del quale ha ricostruito gli elementi identificativi sulla base di quanto dettato dalla norma contrattuale. Né l’osservanza del cd. criterio “trifasico”, da cui non si può prescindere nel procedimento logico-giuridico diretto alla determinazione dell’inquadramento del lavoratore, richiede che il giudice si attenga pedissequamente alla ripetizione di una rigida e formalizzata sequenza delle azioni fissate dallo schema procedimentale. A tal fine è infatti sufficiente che risulti che ciascuno dei momenti di accertamento, di ricognizione e di valutazione abbia trovato concreto ingresso nel ragionamento decisorio, concorrendo a stabilirne le conclusioni (cfr. Cass. 27/09/2016 n. 18943).
11.2. Quanto all’accertamento della natura delle mansioni concretamente svolte dal dipendente, ai fini dell’inquadramento del medesimo in una determinata categoria di lavoratori, va ribadito che questo costituisce giudizio di fatto riservato al giudice del merito (cfr. Cass. nn. 26233 e 26234 del 2008 cit.) e che la sindacabilità dell’accertamento della natura delle mansioni concretamente svolte è subordinata, dopo le modifiche apportate all’art. 360 primo comma n. 5 cod. proc. civ. dall’art. 54 della legge n. 92 del 2012, all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia) (cfr. per tutte Cass. s.u. 07/04/2014 n. 8053). Come è noto, infatti, Il sindacato di legittimità sulla motivazione è ridotto al “minimo costituzionale” sicché è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé e si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile”, esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di “sufficienza” della motivazione, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali (Cass. s.u. cit.).
11.3. Da quanto esposto consegue che le censure formulate sotto vari profili con riferimento alla violazione degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ. e con riguardo all’art. 360 primo comma n. 5 cod. proc. civ., sono per quanto già detto inammissibili, poiché in realtà mascherano la richiesta di un diverso apprezzamento del materiale probatorio. La Corte di merito, ricostruendo la fattispecie, ha preso in esame le circostanze che si pretende siano state trascurate seppur pervenendo ad una diversa conclusione rispetto a quella auspicata. Dopo aver analizzato la declaratoria contrattuale della qualifica posseduta dalla ricorrente e di quella rivendicata il giudice di appello, ne ha individuato i tratti distintivi ed ha accertato in concreto(sulla base delle dichiarazioni testimoniali e della documentazione allegata agli atti) che la C. aveva svolto attività di costruzione delle tariffe in autonomia e che aveva dimostrato la conoscenza di lingue straniere.
11.4. Né può ritenersi che con riguardo a tali requisiti l’indagine sia stata carente o errata. Il più volte ricordato art. 414 del c.c.n.I. del settore Turismo nel richiedere la capacità di costruzione tariffaria autonoma non pretende certo che il lavoratore prescinda da prezzi e quotazioni ufficiali di servizi riportati in cataloghi o software ma richiede piuttosto nell’operatore la capacità di costruire un’offerta attingendo a questi e selezionandoli nel modo più conveniente per il cliente. Del pari con riguardo alla conoscenza di lingue, non essendone specificato un livello, è stata correttamente ritenuta adeguata quella certificata da un diploma ufficiale. Ne consegue che la Corte di merito, restando aderente al tenore testuale della disposizione collettiva, non è incorsa nelle violazioni denunciate con riguardo ad una sua errata interpretazione.
12. In conclusione, per le ragioni sopra esposte, il ricorso proposto dalla A.V. s.r.l. deve essere rigettato e, in accoglimento del ricorso incidentale della C. decidendo nel merito (la società A.V. deve essere condannata al pagamento della somma di € 11.021,11 oltre alla rivalutazione monetaria ed agli interessi legali dalle singole scadenze al saldo. Quanto alle spese, ferme quelle dei gradi di merito la A.V. s.r.l. deve essere condannata al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che si liquidano nella misura indicata in dispositivo. Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente principale dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale a norma dell’art. 13 comma 1 bis del citato d.P.R..
P.Q.M.
Rigetta il ricorso principale. Accoglie il ricorso incidentale e decidendo nel merito condanna la A.V. s.r.l. al pagamento della somma di € 11.021,11 oltre rivalutazione monetaria ed interessi legali dalle singole scadenze al saldo. Ferme le spese dei giudizi di merito, condanna la A.V. s.r.l. al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che si liquidano in € 4.000,00 per compensi professionali, € 200,00 per esborsi, 15% per spese forfetarie oltre agli accessori dovuti per legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dell’art. 13 comma 1 bis del citato d.P.R..
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