CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 22 giugno 2020, n. 12193
Ordinanza di applicazione della misura degli arresti domiciliari – Tardivo avvio del procedimento disciplinare – Conoscenza pregressa dei fatti illeciti di rilevanza penale – Principio della immediatezza della contestazione disciplinare
Fatti di causa
1. Con sentenza n. 255/2018, resa pubblica il 12 aprile 2018, la Corte di appello di L’Aquila, decidendo nel giudizio promosso da P.R. nei confronti della S.p.A.
P.I. per la dichiarazione di illegittimità del licenziamento allo stesso intimato con lettera in data 25/9/2016, a seguito di contestazione del 2/9 precedente, in relazione all’appropriazione della somma di euro 14.528,28 avvenuta il 31/8/2012 dalla cassaforte dell’ufficio “P.” di Vasto Centro, ha ritenuto tardivo l’avvio del procedimento disciplinare, posto che la società, già dall’ottobre 2012, con la notizia dell’ordinanza di applicazione della misura degli arresti domiciliari disposta dal G.I.P. del Tribunale di Vasto (ordinanza che aveva determinato la decisione di sospendere il dipendente dal servizio e dalla retribuzione), e comunque dal mese di febbraio 2013, quando il medesimo giudice aveva disposto il giudizio immediato, era stata a conoscenza dei fatti illeciti di rilevanza penale che l’avrebbero successivamente indotta a recedere dal rapporto.
2. Per effetto di tale decisione la Corte territoriale ha ritenuto assorbiti gli ulteriori motivi di reclamo della società e i primi sei motivi dell’impugnazione del lavoratore, relativi, fra l’altro, all’insussistenza del fatto contestato e della giusta causa di recesso, confermando l’applicazione alla fattispecie della tutela prevista dall’art. 18, comma 5, l. n. 300/1970.
3. Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione P.I. S.p.A. con tre motivi.
4. Il R. ha resistito con controricorso, con il quale ha proposto ricorso incidentale, affidato a plurimi motivi, cui ha resistito a sua volta la società con controricorso.
5. Entrambe le parti hanno depositato memoria.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo del ricorso di P.I. S.p.A. viene dedotta la violazione e/o falsa applicazione dell’art. 7 l. n. 300/1970, nonché degli artt. 1375 e 1175 cod. civ., per non avere la Corte territoriale considerato che la società era venuta a conoscenza della responsabilità del proprio dipendente soltanto con la pubblicazione, in data 22/8/2016, della sentenza penale di condanna e che rispetto a tale momento, in cui gli elementi a dimostrazione della responsabilità si erano cristallizzati in modo sufficientemente certo, la contestazione del 2/9/2016 era da ritenersi assolutamente tempestiva.
2. Con il secondo motivo viene dedotta dalla ricorrente la violazione e falsa applicazione dell’art. 7, comma 2, l. n. 300/1970, dell’art. 55, comma 4, del CCNL per i dipendenti di P.I. S.p.A. e dell’art. 415 bis cod. proc. penale per avere la Corte di appello ritenuto che il datore di lavoro debba dare tempestivo avvio al procedimento disciplinare, pur in contemporanea pendenza del giudizio penale, salvo eventualmente avvalersi della possibilità di sospenderlo in attesa della definizione di quest’ultimo, senza, tuttavia, considerare che tale possibilità non è consentita né dalla disciplina di fonte legale, alla stregua dei principi elaborati in materia, né da quella di fonte collettiva; ed inoltre per non aver considerato come anche al momento della conclusione delle indagini preliminari l’eventuale responsabilità dell’indagato non può comunque dirsi “cristallizzata”, potendo egli e il suo difensore porre in essere o chiedere il compimento di varie attività finalizzate ad ottenere l’archiviazione del procedimento.
3. Con il terzo motivo del ricorso della società viene dedotto il vizio di cui all’art. 360 n. 5 per avere la Corte di appello reso una motivazione inadeguata ed erronea sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico-formale, omettendo di esaminare la cronologia reale dei fatti e, in particolare, il tempo in cui P.I. aveva individuato con sufficiente certezza il responsabile dell’appropriazione al fine di poter procedere alla contestazione disciplinare.
4. Il ricorso della società deve essere respinto.
5. Si deve, in primo luogo, rilevare che le censure svolte con il terzo motivo risultano inammissibili, in quanto non si conformano, sostanziandosi nella denuncia di profili di incoerenza e di illogicità della motivazione, al modello legale del vizio di cui all’art. 360 n. 5, nella formulazione risultante dalle modifiche del 2012 e dalla giurisprudenza di questa Corte a Sezioni Unite (sentenze n. 8053 e n. 8054 del 2014 e successive numerose conformi); fermo restando che, diversamente da quanto affermato dalla ricorrente, la Corte di appello non ha affatto omesso di esaminare e valutare la cronologia reale dei fatti, avendo anzi puntualmente e analiticamente ricostruito lo svolgersi della vicenda nel tempo, con particolare riguardo agli snodi del procedimento penale e al loro effetto sulla possibilità per il datore di lavoro di dare avvio alla procedura disciplinare (cfr. sentenza impugnata, pp. 4-8).
6. Quanto, poi, alle censure riconducibili al vizio di cui all’art. 360 n. 3 cod. proc. civ. (primo e secondo motivo), le quali possono esaminarsi congiuntamente per connessione, deve osservarsi che la Corte di appello ha accertato – sulla base delle risultanze acquisite al giudizio (atti del procedimento penale depositati da P.I. S.p.A.) – come già molto tempo prima della contestazione disciplinare la società disponesse di elementi per ritenere “ragionevolmente sussistente” l’illecito.
7. A tale riguardo la Corte ha, in particolare, sottolineato come P.I. avesse avuto fin dal principio, come poteva desumersi dalla stessa presentazione della denuncia da parte del responsabile dell’ufficio, o comunque dovesse avere secondo un canone di ordinaria diligenza, tenuto conto della natura dell’episodio e della possibilità di una sua pronta ricostruzione, una conoscenza del fatto tale da consentire l’immediato avvio del procedimento disciplinare; e come una tale conoscenza le fosse in ogni caso derivata sia dalla comunicazione (nell’ottobre 2012) dell’ordinanza di applicazione al lavoratore della misura degli arresti domiciliari, sia dalla comunicazione (nel febbraio 2013) del decreto che ne disponeva il giudizio immediato.
8. Su tali premesse la sentenza impugnata risulta esente dalle critiche che le sono state mosse, avendo fatto applicazione, nel ritenere la tardività della contestazione, di principi consolidati nella giurisprudenza di questa Corte.
9. E’ stato, infatti, ritenuto che: “Il principio della immediatezza della contestazione disciplinare, la cui ratio riflette l’esigenza di osservanza della regola della buona fede e della correttezza nell’attuazione del rapporto di lavoro, non consente all’imprenditore di procrastinare la contestazione medesima, in modo da rendere impossibile o eccessivamente difficile la difesa del lavoratore; peraltro, la presentazione, da parte del datore di lavoro, di una denuncia in sede penale non esclude l’onere, per il medesimo di promuovere tempestivamente il procedimento disciplinare contro il lavoratore, non sottoposto a sospensione cautelare, a carico del quale egli abbia già rilevato elementi di responsabilità” (Cass. n. 15361/2004); “In tema di licenziamento disciplinare, nel valutare l’immediatezza della contestazione occorre tener conto dei contrapposti interessi del datore di lavoro a non avviare procedimenti senza aver acquisito i dati essenziali della vicenda e del lavoratore a vedersi contestati i fatti in un ragionevole lasso di tempo dalla loro commissione. Ne consegue che l’aver presentato a carico di un lavoratore denunzia di un fatto penalmente rilevante connesso con la prestazione di lavoro non consente al datore di attendere gli esiti del processo penale sino alla sentenza irrevocabile prima di procedere alla contestazione dell’addebito, dovendosi valutare la tempestività di tale contestazione in relazione al momento in cui i fatti a carico del lavoratore appaiano ragionevolmente sussistenti” (Cass. 1101/2007); “La tempestività della contestazione di cui all’art. 7, 2° comma, legge n. 300 del 1970 va valutata in relazione al momento in cui i fatti a carico del lavoratore, costituenti illecito disciplinare, appaiono ragionevolmente sussistenti. Quando il fatto costituente illecito disciplinare ha anche rilevanza penale, il principio dell’immediatezza della contestazione non può considerarsi violato quando il datore di lavoro, in assenza di elementi che rendano ragionevolmente certa la commissione del fatto da parte del dipendente, porti la vicenda all’esame del giudice penale, sempre che lo stesso si attivi non appena la comunicazione dell’esito delle indagini svolte in sede penale gli faccia ritenere ragionevolmente sussistente l’illecito disciplinare, non dovendo egli attendere la conclusione del processo penale” (Cass. n. 7983/2008); “Nell’ambito di un licenziamento per motivi disciplinari, il principio di immediatezza della contestazione, pur dovendo essere inteso in senso relativo, comporta che l’imprenditore porti a conoscenza del lavoratore i fatti contestati non appena essi gli appaiono ragionevolmente sussistenti, non potendo egli legittimamente dilazionare la contestazione fino al momento in cui ritiene di averne assoluta certezza, pena l’illegittimità del licenziamento” (Cass. n. 3532/2013; conforme Cass. n. 21633/2013).
10. E’ invece fondato, e deve essere accolto, il ricorso incidentale, con il quale la sentenza di appello viene censurata per avere la Corte territoriale ritenuto assorbiti i primi sei motivi del reclamo proposto dal lavoratore, in tal modo omettendo di compiere ogni accertamento su di essi e, pertanto, di valutare la dedotta insussistenza del fatto contestato e della giusta causa di recesso nonché di esaminare i capitoli di prova testimoniale volti a sostenere tali conclusioni.
11. Al riguardo si deve premettere che la sentenza ha ritenuto assorbiti i primi sei motivi del reclamo del R. semplicemente rilevando come l’assorbimento costituisse “logico corollario” dell’accertata violazione del principio di immediatezza della contestazione disciplinare, senza ulteriori considerazioni (cfr. p. 8, par. 2).
12. Peraltro, la figura dell’assorbimento ricorre quando la decisione sulla domanda assorbita diviene superflua, per sopravvenuto difetto di interesse della parte, la quale con la pronuncia sulla domanda assorbente ha conseguito la tutela richiesta nel modo più pieno, mentre è in senso improprio quando la decisione assorbente esclude la necessità o la possibilità di provvedere sulle altre questioni, ovvero comporta un implicito rigetto di altre domande (Cass. n. 28663/2013; conforme Cass. n. 28995/2018).
13. Nella specie è invece palese l’interesse del lavoratore ad una indagine, da parte del giudice di merito, circa l’insussistenza dei fatti contestati e della giusta causa di recesso, ricollegandosi ad essa il più forte e incisivo regime di tutela previsto dall ‘art. 18, comma 4, l. n. 300/1970, in luogo di quello applicabile (Sez. U n. 30985/2017) in caso di tardiva contestazione disciplinare.
14. Né, d’altra parte, potrebbe configurarsi una pronuncia di rigetto implicito, stante la chiara autonomia logico-giuridica delle questioni concernenti l’assenza di responsabilità disciplinare rispetto a quelle, unicamente oggetto di esame e motivazione in sentenza, concernenti la procedura di cui all’art. 7 l. n. 300/1970.
15. L’impugnata sentenza n. 255/2018 della Corte di appello di L’Aquila, rigettato il ricorso di P.I. S.p.A., deve, pertanto, essere cassata, in accoglimento del ricorso incidentale, e la causa rinviata alla stessa Corte in diversa composizione, la quale provvederà ad esaminare le doglianze già proposte con il reclamo del lavoratore e considerate assorbite.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso incidentale, respinto il ricorso principale; cassa la sentenza impugnata in relazione al ricorso accolto e rinvia, anche per le spese, alla Corte di appello di L’Aquila in diversa composizione.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, D.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente principale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso principale, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
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