CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 22 luglio 2019, n. 19660
Licenziamento collettivo – Criteri di scelta – Violazione – Accordi sindacali
Fatti di causa
1. La Corte di appello di Roma, decidendo in sede di rinvio a seguito di cassazione della sentenza della Corte di appello di Roma n. 3557 del 2015, in applicazione del principio di diritto fissato con la sentenza n. 20063 del 2016, ha ritenuto infondato il reclamo proposto dal F. avverso la sentenza di primo grado che aveva accertato la legittimità del licenziamento intimato al lavoratore in esito ad una procedura di licenziamento collettivo confermandola, del pari, nella parte in cui aveva respinto la domanda di condanna della Banca datrice al pagamento dell’indennità sostitutiva del preavviso, espressamente esclusa dagli Accordi collettivi del settembre 2012.
2. Per la cassazione della sentenza propone ricorso S. F. che articola sette motivi ai quali resiste con controricorso U. s.p.a.. Entrambe le parti hanno depositato memoria ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ.
Ragioni della decisione
3. Con il primo motivo di ricorso è denunciata la violazione e falsa applicazione dell’art. 65 del R.d. 30 gennaio 1941 n. 12. Sostiene la ricorrente che illegittimamente la Corte di Cassazione e, per l’effetto la Corte del rinvio, aveva proceduto all’interpretazione diretta degli accordi sindacali adottati ai sensi della legge n. 223 del 23 luglio 1991, accordi aziendali di carattere gestionale, difforme da quella motivatamente fornita dalla Corte di appello di Roma con la sentenza n. 3557 del 2015 che aveva ritenuto discriminatorio il criterio della prossimità alla pensione adottato per individuare il personale da licenziare con la procedura.
4. La censura è inammissibile.
4.1. Va in primo luogo rammentato che il giudizio di rinvio, conseguente alla cassazione della pronuncia di secondo grado per motivi di merito (giudizio di rinvio proprio), non costituisce la prosecuzione della pregressa fase di merito e non è destinato a confermare o riformare la sentenza di primo grado, ma integra una nuova ed autonoma fase che, pur soggetta, per ragioni di rito, alla disciplina riguardante il corrispondente procedimento di primo o secondo grado, ha natura rescissoria (nei limiti posti dalla pronuncia rescindente), ed è funzionale alla emanazione di una sentenza che, senza sostituirsi ad alcuna precedente pronuncia, riformandola o modificandola, statuisce direttamente sulle domande proposte dalle parti (cfr. Cass. n. 28/01/2005 n. 1824, 23/09/2002 n. 13833).
4.2. Tuttavia, pur dotato di autonomia, il giudizio di rinvio conseguente a cassazione non dà vita ad un nuovo ed ulteriore procedimento, ma rappresenta una fase ulteriore di quello originario da ritenersi unico ed unitario (cfr. Cass. s.u. 17/09/2010 n. 19701 e 19/01/2017 n. 1301). Si tratta di un giudizio chiuso, nel quale, qualora vi sia stato annullamento per violazione o falsa applicazione di legge, il giudice deve limitarsi a completare il sillogismo giudiziale applicando il dictum della Cassazione a un materiale di cognizione già completo, cosicchè le parti sono obbligate a riproporre la controversia negli stessi termini e nello stesso stato d’istruzione anteriore alla sentenza cassata (cfr. Cass. 21/04/ 2005 n. 8357), salvo le deroghe imposte da fatti sopravvenuti o dalla stessa sentenza di cassazione che abbia imposto l’acquisizione di nuovo materiale istruttorio (v. Cass. 18/10/2018 n. 26108, 30/09/2015 n. 19424, 01/03/2012 n. 3186 e 12/10/2009 n. 21587). In sostanza il vincolo per il giudice del rinvio è dato dalla statuizione della Cassazione a seguito della quale il giudizio è riassunto ai sensi dell’art. 392 cod. proc. civ., salvo l’esame di questioni ritenute assorbite dalla sentenza che ha disposto il rinvio. Tale statuizione non è suscettibile di censura davanti alla Corte di appello che giudica in riassunzione. Come ha correttamente evidenziato la Corte territoriale, nella sentenza che qui viene censurata, nel cassare con rinvio la sentenza della Corte di appello di Roma n. 3557 del 2015 la Corte di legittimità ha indicato al giudice del rinvio tutti i principi da seguire ed in particolare ha affermato che il criterio della pensionabilità adottato dall’accordo collettivo è legittimo perché privo di margini di discrezionalità e che il ricorrente (n.d.r. in quella sede di legittimità) non aveva dedotto e documentato che erano stati adottati criteri arbitrari in generale e nella scelta del dipendente. La sentenza della Cassazione era suscettibile semmai di una revisione in sede di revocazione che, tuttavia, non solo non era stata proposta ai sensi dell’art. 391 bis cod. proc. civ. ma, come rileva la Corte di appello nella sentenza che oggi viene impugnata, neppure, gli argomenti utilizzati in sede di riassunzione erano tali da poterne configurare la proposizione.
5. Tale ultima statuizione è censurata dal F. con il secondo motivo di ricorso che, nel denunciare la violazione e falsa applicazione degli artt. 391 bis, 392 e 395 cod. proc. civ., rileva che la Corte territoriale avrebbe precluso la denuncia dell’errore revocatorio commesso dalla cassazione, ponendosi in contrasto con quanto affermato in più occasioni dal giudice di legittimità il quale ha individuato nella riassunzione in sede di rinvio la sede in cui far valere l’errore revocatorio. Osserva poi che il vizio denunciato con la riassunzione investiva proprio un errore di fatto rilevante ai sensi dell’art. 395 n. 4 cod. proc. civ.
6. La censura è infondata.
6.1. Ritiene il Collegio di dare seguito all’orientamento espresso da questa Corte con l’ordinanza resa dalla sesta sezione in data 17/05/2018 n. 12046 che ha ritenuto infondata proprio la tesi invocata dal ricorrente, e sostenuta nelle sentenze da questo richiamate nel suo ricorso (Cass 12/10/2015 n. 20393 e 25/07/2011 n. 16184).
6.2. Il giudizio di rinvio non solo è “chiuso”‘, ma è “finalizzato al restringimento dell’area residua della lite, senza margini di ambiguità o incertezze, soprattutto, come avverte la dottrina, in un processo civile retto da un regime di preclusioni. Quei margini potrebbero essere male interpretati in sede di rinvio e ciò sarebbe quanto mai inopportuno in relazione a possibili enunciati che non siano nitidamente oggetto della rimessione al giudice di rinvio” (cfr. Cass. n. 12046 del 2018 cit.). In tale prospettiva l’orientamento più risalente (v. Cass. 20/10/2003 n. 15660) “si pone in linea con l’art. 111 Cost. novellato e con il principio della ragionevole durata del processo, giacchè consente che non si discuta superfluamente di revocazione se la materia su cui deve cadere l’accertamento del giudice di rinvio include (espressamente o implicitamente) la materia che si pretende essere incisa dall’errore di fatto del giudice di legittimità. Per contro qualora tale apertura complessiva non vi sia stata la revocazione della sentenza di cassazione di annullamento con rinvio risponde alla esigenza di verificare da parte dello stesso giudice se vi sia stato errore di fatto. Tale errore può essere molto rilevante in relazione alla tipologia di vizio che ha portato alla cassazione con rinvio. La cassazione ex art. 360 n.3 implica infatti una «preclusione processuale che opera su tutte le questioni costituenti il presupposto logico e inderogabile della pronuncia di cassazione, prospettate dalle parti o rilevate d’ufficio» , cioè presuppone che i fatti siano accertati, perché il giudizio di fatto precede quello di diritto. Il giudizio di rinvio non potrebbe quindi mai ingerirsi su un presupposto di fatto assunto come decisivo dalla Corte ai fini dell’enunciazione di quel principio di diritto” (Cfr. Cass. 12046 del 2018 cit.).
7. Con il terzo motivo di ricorso è censurata la sentenza per avere/ violato e falsamente applicato l’art. 5 della legge n. 223 del 1991 nell’applicare i criteri di scelta con riguardo alle previsioni degli accordi sindacali del 15 settembre 2012 e del 22 novembre 2012. Sostiene il ricorrente che la Corte territoriale non avrebbe tenuto conto delle censure formulate anche in sede di riassunzione circa le modalità di applicazione dei criteri di scelta e della necessità di estendere la platea dei licenziabili anche a coloro che avevano aderito all’esodo incentivato.
8. La censura è inammissibile in quanto, pur prospettata in termini di violazione di legge, suggerisce alla Corte di adottare una diversa interpretazione degli accordi sopra citati che, invece, per effetto della sentenza di rinvio non era più in discussione.
8.1. Peraltro va dato atto del fatto che questa Corte ha anche di recente, e con orientamento qui condiviso (cfr. Cass 30/03/2018 n. 7986 ma già Cass. n. 31/05/2017 n. 13803, 22/07/2017 n. 12814 e 12813, 09/11/2016 n. 22789 e 06/10/2016 n. 20063), ritenuto legittima e non discriminatoria la previsione contenuta nella disposizione transitoria posta in calce all’art. 2 dell’accordo sindacale 15 settembre 2012 ed ha ritenuto che l’esercizio della facoltà prevista dalla citata norma transitoria non ha influito sul criterio della pensionabilità, nel senso che sono stati licenziati, così come pattuito in sede sindacale, soltanto lavoratori che, come l’odierno ricorrente, alla data indicata dagli accordi applicati nell’ambito della procedura di mobilità avevano maturato i requisiti pensionistici e non avevano aderito alla proposta di esodo incentivato. Ed infatti, come ritenuto nelle sentenze citate, “in tanto si verifica una violazione dell’art. 5 legge n. 223 del 1991 (sui criteri di scelta) in quanto la comparazione fra i lavoratori astrattamente licenziabili sia stata viziata dall’adozione di criteri generici, non verificabili e comunque lasciati alla mera discrezione del datore di lavoro, oppure sia avvenuta alla stregua di criteri astrattamente oggettivi e verificabili, ma in concreto malamente applicati. V’è altresì bisogno – pena difetto di interesse ad impugnare il licenziamento (cfr., da ultimo e per tutte, Cass. n. 24558/16) – che risulti che il lavoratore che lamenti essere avvenuta a proprio danno una discriminazione o comunque una violazione dei criteri di scelta si sia visto inserire nel novero degli esuberi per far posto ad un altro o ad altri dipendenti che, pur appartenendo alla medesima platea di lavoratori potenzialmente licenziabili, nondimeno abbiano beneficiato di un’erronea applicazione dei criteri di scelta o di criteri di scelta generici o discrezionali adoperati dal datore di lavoro. Insomma, l’annullamento del licenziamento per violazione dei criteri di scelta ai sensi dell’art. 5 L. 223/1991 può essere chiesto soltanto dai lavoratori che in concreto abbiano subito un pregiudizio per effetto della violazione”. Nel caso in esame la Corte territoriale ha accertato che il ricorrente nulla aveva dedotto e documentato quanto all’applicazione di criteri arbitrari o di una loro illegittima applicazione. In sostanza il giudice del rinvio ha seppur sinteticamente dato atto del fatto che non era risultato che escludere dal novero dei licenziabili i lavoratori aderenti alla proposta di esodo volontario avesse provocato il licenziamento dell’odierno ricorrente.
9. Il quarto motivo di ricorso che denuncia l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio consistito nel non avere tenuto conto che per tre lavoratori aderenti all’esodo incentivato, alla data del licenziamento, non si era perfezionato l’iter di convalida delle dimissioni è inammissibile poiché sono richiamate una serie di circostanze di fatto di cui non è possibile comprendere la decisività del fatto né se la questione era stata sollevata, oltre che nei gradi di merito precedenti la cassazione, anche in sede di riassunzione .
10. Il quinto motivo che censura la sentenza per violazione dell’art. 5 della legge n. 223 del 1991 e degli artt. 15 e 16 della legge n. 300 del 20 maggio 1970 in relazione alla ritenuta applicazione discriminatoria del criterio della maggiore prossimità alla pensionabilità del ricorrente sul rilievo che era stato posticipato il pensionamento per i dipendenti ricoprenti cariche sindacali (M., I. e S.) è inammissibile in quanto la censura non chiarisce la ragione per la quale la questione avrebbe dovuto essere trattata dalla Corte di appello e si limita a ripercorre piuttosto una serie di fatti senza chiarire se e in che misura della questione era stata reinvestita la Corte del rinvio tenuto conto del fatto che, per quanto emerge dagli atti, la sentenza della Cassazione aveva verificato la legittimità del criterio adottato.
11. Il sesto motivo di ricorso, con il quale viene denunciata la violazione dell’art. 4 comma 9 della legge n. 223 del 1991 ed in particolare è riproposta la censura formulata in cassazione avverso la sentenza di appello, è inammissibile poiché non precisa se si trattava di questione che era stata riproposta nel giudizio in riassunzione a seguito di rinvio.
12. L’ultimo motivo di ricorso, che denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 1362 cod.civ. in relazione alla dichiarazione aziendale n. 1 contenuta in calce al quinto punto delle premesse dell’accordo sindacale 22 novembre 2012 e la violazione e falsa applicazione dell’art. 2118 cod.civ. e dell’art. 8 commi 1, 2 e 2 bis d.l. n. 138 del 2011 conv. in I. n. 148 del 2011, è infondato.
12.1. Sostiene il ricorrente che il licenziamento sarebbe stato irrogato senza il rispetto dei termini di preavviso e che la Corte di appello, nel richiamare la motivazione della sentenza del Tribunale, ha fatto propria la decisione che ha ritenuto che le dichiarazioni aziendali a verbale contenute in accordi sindacali sottoscritti dalle parti in assenza di clausole di esclusione fanno corpo con quegli accordi partecipandone la natura. Secondo il ricorrente, così facendo, la Corte è incorsa in una errata interpretazione degli accordi che non possono essere modificati da dichiarazioni unilaterali.
12.2. Rileva al riguardo il Collegio che con la censura, più che evidenziare una violazione delle regole ermeneutiche, peraltro nello specifico insussistente, si prospetta una diversa lettura degli accordi e delle dichiarazioni in essi contenute. Il Tribunale, la cui motivazione la Corte territoriale ha fatto propria, ha preso atto del tenore delle clausole e delle dichiarazioni ed ha ritenuto che, essendo queste ultime inserite in un documento che tutte le parti hanno sottoscritto, ne fanno parte integrante.
12.3. Si tratta di interpretazione degli accordi che non incorre in alcuna delle denunciate violazioni delle regole interpretative alle quali il giudice di merito si è attenuto tenendo conto sia del contenuto letterale delle disposizioni collettive che della condotta tenuta dalle parti collettive ad esse antecedente e successiva.
12.4. Neppure sussiste la denunciata violazione dell’art. 8 comma 2 bis del d.l. n. 138 del 2011 conv. in I. n. 148 del 2011. Con tale disposizione è previsto che le parti collettive, fermo restando il rispetto della Costituzione e dei vincoli derivanti dalle normative comunitarie e dalle convenzioni internazionali sul lavoro, con le intese di cui al comma 1 della stessa norma – finalizzate alla maggiore occupazione, alla qualità dei contratti di lavoro, all’adozione di forme di partecipazione dei lavoratori, alla emersione del lavoro irregolare, agli incrementi di competitività e di salario, alla gestione delle crisi aziendali e occupazionali, agli investimenti e all’avvio di nuove attività – possano operare anche in deroga alle disposizioni di legge che disciplinano le materie richiamate dal comma 2 ed alle relative regolamentazioni contenute nei contratti collettivi nazionali di lavoro e, pertanto, anche sulle “conseguenze del recesso dal rapporto di lavoro, fatta eccezione per il licenziamento discriminatorio”.
12.5. Nel caso di specie le parti collettive, nell’accordo sottoscritto in data 15 settembre 2012, con il quale hanno disciplinato le modalità di accesso all’esodo volontario cui era noto sarebbe poi seguita la procedura di licenziamento collettivo, hanno stabilito che l’azienda non avrebbe riconosciuto “alcun trattamento sostitutivo a titolo di mancata effettuazione del preavviso”.
12.6. Tale accordo, adottato ai sensi dell’art. 8 comma 2 bis citato, è stato richiamato nelle premesse del successivo accordo del 22 novembre 2012, sottoscritto da U. e dalle aziende del gruppo da una parte e dalle organizzazioni sindacali nazionali dall’altra, raggiunto nel contesto della procedura iniziata ai sensi dell’art. 4 della legge n. 223 del 1991, in esito al quale la società ha comunicato a S. F. il licenziamento. Nel richiamarlo le parti hanno fatto proprio il contenuto dello stesso in tutte le sue proposizioni ed anche nella previsione dell’esclusione dell’indennità sostitutiva del preavviso.
12.7. Sussistevano pertanto le condizioni, previste dalla citata norma, per derogare ed incidere sulle conseguenze del recesso dal rapporto di lavoro. La deroga, infatti, era stata introdotta proprio per far fronte a una ben nota situazione di crisi aziendale ed occupazionale. L’accordo derogatorio, trasfuso nell’accordo raggiunto nell’ambito della procedura di mobilità, non si pone in contrasto con principi dettati nella Carta Costituzionale né viola vincoli derivanti da normative comunitarie e da convenzioni internazionali sul lavoro. Ben vero che la Carta Sociale Europea (riconosciuta dalla recente sentenza della Corte Costituzionale n. 194 del 2018 quale parametro interposto per la valutazione della costituzionalità di una norma nazionale), all’art. 4, prevede che “per garantire l’effettivo esercizio del diritto ad un’equa retribuzione” le parti si impegnano a “riconoscere il diritto do tutti i lavoratori ad un ragionevole periodo di preavviso nel caso di cessazione del lavoro” e, tuttavia, altro è il riconoscimento di un ragionevole periodo di preavviso rispetto al riconoscimento di una indennità sostitutiva convenzionalemente fissata in sede collettiva. La deroga viene prevista, in sede collettiva ancora una volta, nel contesto di un bilanciamento di opposti interessi e con la finalità di ridurre l’impatto della situazione di esubero.
12.8. Pur tralasciando di considerare se l’istituto del preavviso abbia o meno efficacia obbligatoria ( in tal senso appare orientata la giurisprudenza più recente di questa Corte cfr. Cass. 06/06/2017 n. 13988, 17/01/2017 n. 985, 30/09/2013 n. 22322, 04/11/2010 n. 22443, 21/05/2007 n. 11740) va rilevato che l’esercizio della facoltà di recedere con effetto immediato determina l’insorgere dell’unico obbligo della parte recedente di corrispondere l’indennità sostitutiva del preavviso, obbligazione pecuniaria che ben può costituire oggetto di accordo e di rinuncia (cfr. Cass. 18/06/2015 n. 12636 e 28/09/2010 n. 20358) ed è pertanto suscettibile di essere oggetto di accordo tra le parti sociali chiamate, nel contesto di una crisi aziendale, a mediare per assicurare la prosecuzione dell’attività di impresa e la conservazione dei livelli di occupazione.
12.9. Del resto l’art. 4 della legge n. 223 del 1991 detta una disciplina analitica, con rigide cadenze procedimentali, di confronto e di mediazione delle parti sociali, della procedura nel corso della quale, anche nell’interesse dei lavoratori coinvolti, sono verificate le possibilità di utilizzazione diversa del personale in esubero, o di una sua parte, nell’ambito della stessa impresa, anche mediante contratti di solidarietà e forme flessibili di gestione del tempo di lavoro.
12.10. Ciò posto nel caso in esame le parti con l’Accordo del 22 novembre 2012 hanno recepito l’intesa già raggiunta con l’Accordo del 15 settembre 2012 che aveva previsto che per coloro i quali, pur avendone i requisiti non avessero aderito all’esodo incentivato, ove destinatari, nella successiva procedura di mobilità, di un provvedimento di licenziamento non avrebbero avuto diritto a percepire l’indennità sostitutiva del preavviso come prevista dalla contrattazione collettiva.
12.11. Si tratta, in definitiva, di una procedura che, pur recependo una clausola con la quale si è esclusa l’erogazione dell’indennità sostitutiva del preavviso, è stata, tuttavia, caratterizzata da una chiara indicazione dei requisiti per l’individuazione dei potenziali destinatari, il che ha consentito loro di valutare ed apprezzare i rischi delle scelte individualmente adottate. In sostanza l’ Accordo con il quale è recepita la clausola si mantiene in quella prospettiva di maggior tutela dei lavoratori al fine di assicurare un minor costo sociale dell’operazione e di salvaguardare la prosecuzione dell’attività d’impresa e la relativa occupazione secondo le finalità cui è diretta la stessa legge n. 223 del 1991 (cfr. al riguardo CEISS. 03/11/2016 n. 22789).
13. In conclusione, per le ragioni sopra esposte, il ricorso deve essere rigettato e le spese, liquidate in dispositivo, vanno poste a carico del lavoratore soccombente che, ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.P.R. n. 115 del 2002 sarà tenuto al versamento dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dell’art.13 comma 1 bis del citato d.P.R..
P.Q.M.
rigetta il ricorso.
Condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che si liquidano in € 4.500,00 per compensi professionali, € 200,00 per esborsi, 15% per spese forfetarie oltre accessori dovuti per legge. Sussistono i presupposti per il raddoppio del contributo ex art. 13 comma1 quater DPR n. 115 del 2002.