CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 23 agosto 2019, n. 21663
Licenziamento – Soppressione della figura di responsabile della produzione – Ragione ritorsiva – Accertamento
Fatti di causa
1. Con sentenza n. 952/2017, pubblicata il 25 ottobre 2017, la Corte di appello di Palermo ha confermato la sentenza, con la quale il Tribunale della stessa sede aveva dichiarato, con le pronunce conseguenti, la nullità del licenziamento intimato a G. U. dalla K. S.r.l. con lettera del 20/11/2015.
2. La Corte di appello – come già il primo giudice – ha ritenuto che il licenziamento, motivato con la volontà di procedere alla soppressione della figura di responsabile della produzione ricoperta dall’U., i cui compiti di maggiore responsabilità sarebbero stati direttamente svolti dall’Amministratore Unico, mentre le mansioni operative sarebbero state distribuite tra i capi turno addetti al reparto, era stato, in realtà, determinato, quale unico motivo illecito, da una ragione ritorsiva, originata dal rifiuto del lavoratore di compiere, quale A.U. di una società partecipata, operazioni dirette ad alterare la contabilità aziendale ed altre irregolarità.
3. In particolare, la Corte ha osservato come le ragioni organizzative e produttive poste a base del licenziamento non fossero state rese esplicite nella lettera di comunicazione, così da precludere la stessa possibilità di accertamento della loro esistenza, e come ciò costituisse, pur non rilevando sul piano della validità del recesso, un fattore estrinseco indicativo dell’intento ritorsivo che aveva mosso il datore di lavoro, intento che peraltro aveva trovato riscontro anche nelle dichiarazioni testimoniali.
4. Ha proposto ricorso per la cassazione della sentenza la società con due motivi, cui ha resistito il lavoratore con controricorso.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo, deducendo violazione e falsa applicazione dell’art. 41 Cost., degli artt. 3 e 5 I. n. 604/1966 e dell’art. 30, comma 1, I. n. 183/2010, la ricorrente censura la sentenza impugnata per avere ritenuto inidoneo a giustificare la risoluzione del rapporto il mero richiamo, contenuto nella lettera di licenziamento, alla necessità di sopprimere la posizione di responsabile della produzione, in difetto di una motivazione che rendesse esplicite le ragioni di ordine economico alla base di tale opzione organizzativa, peraltro in tal modo ponendosi in contrasto con l’orientamento giurisprudenziale, che esclude che il licenziamento per giustificato motivo oggettivo debba necessariamente essere collegato ad una situazione di crisi dell’impresa, ed altresì con il precetto costituzionale, per il quale compete soltanto all’imprenditore stabilire la dimensione occupazionale dell’azienda.
2. Con ¡1 secondo motivo, deducendo violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 cod. civ., 115 e 116 cod. proc. civ., nonché vizio di motivazione, la ricorrente si duole che la Corte sia giunta a ritenere dimostrato l’intento ritorsivo del licenziamento nonostante la inesistenza di un quadro probatorio che potesse sorreggere e giustificare tale conclusione ed inoltre trascurando di esaminare nella propria ricostruzione della vicenda fatti decisivi ai fini del giudizio.
3. Il ricorso non può trovare accoglimento.
4. Il primo motivo, infatti, non risulta pertinente rispetto al reale percorso argomentativo della sentenza impugnata, posto che la Corte di appello, nel rilevare come la decisione di espellere l’U. fosse stata fondata sulla necessità di procedere alla soppressione della posizione di responsabile della produzione “senza altra motivazione riferibile ad esigenze di carattere economico che avessero determinato tale opzione organizzativa”, ha tuttavia immediatamente chiarito come tale profilo di illegittimità ridondasse “non tanto sul piano della invalidità intrinseca” del recesso “quanto come fattore estrinseco indicativo di una più complessa strategia espulsiva che trova nel concorso di altri elementi di riscontro la conferma dell’intento ritorsivo” (cfr. p. 4, 3° e 4° capoverso).
5. Il secondo motivo è, sotto ogni profilo, inammissibile.
6. Per ciò che attiene al dedotto vizio di violazione e falsa applicazione di norme di diritto, si osserva che “la violazione del precetto di cui all’art. 2697 cod. civ., censurabile per cassazione ai sensi dell’art. 360 n. 3 cod. proc. civ., è configurabile soltanto nell’ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l’onere della prova ad una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni e non invece laddove oggetto di censura sia la valutazione che il giudice abbia svolto delle prove proposte dalle parti (sindacabile, quest’ultima, in sede di legittimità, entro i ristretti limiti del “nuovo” art. 360 n. 5 cod. proc. civ.)”.
6.1. Si osserva inoltre che il principio del libero convincimento, posto a fondamento degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ., opera interamente sul piano dell’apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità, sicché la denuncia della violazione delle predette regole da parte del giudice del merito configura un errore di fatto, che deve essere censurato attraverso il corretto paradigma normativo del difetto di motivazione e dunque nei limiti consentiti dall’art. 360 n. 5 cod. proc. civ., come riformulato dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla I. n. 134 del 2012 (Cass. n. 23940/2017).
7. Quanto al vizio di cui all’art. 360 n. 5, è da rilevare come il motivo, per la censura ora in esame, non si conformi, dolendosi la ricorrente di una carente ed erronea lettura delle risultanze istruttorie, al modello legale del nuovo vizio “motivazionale”, quale risultante a seguito delle modifiche introdotte con le norme sopra richiamate.
7.1. Al riguardo, le Sezioni Unite di questa Corte, con le sentenze n. 8053 e n. 8054 del 2014, hanno precisato che l’art. 360 n. 5 cod. proc. civ., come riformulato a seguito dei recenti interventi legislativi, “introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia)”; con la conseguenza che “nel rigoroso rispetto delle previsioni degli artt. 366, primo comma, n. 6 e 369, secondo comma, n. 4 cod. proc. civ., il ricorrente deve indicare il fatto storico, il cui esame sia stato omesso, il dato, testuale o extratestuale, da cui esso risulti esistente, il come e il quando tale fatto sia stato oggetto di discussione processuale tra le parti e la sua decisività, fermo restando che l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie”.
7.2. All’osservanza di tali oneri di deduzione si è sottratta la ricorrente, in particolare non enucleando – con il mero richiamo di un proprio precedente atto e, pertanto, di un ampio e indistinto complesso di allegazioni e argomentazioni difensive – i fatti specifici che la Corte di merito avrebbe trascurato di considerare nella propria ricostruzione della vicenda e non illustrandone la decisività, nei sensi indicati dalla giurisprudenza di questa Corte a Sezioni Unite e dalle molte sentenze successive che ad essa si sono uniformate.
8. Le spese seguono la soccombenza e si liquidano come in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio, liquidate in euro 200,00 per esborsi e in euro 4.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% e accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, D.P.R. n. 115/2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso articolo 13.
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