CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 23 aprile 2019, n. 11181
Contestazione disciplinare – Licenziamento – Cassiera – Omessa consegna buoni spesa ai clienti – Videosorveglianza – Volontario ed indebito utilizzo dei buoni
Fatti di causa
Con sentenza del 10.6 2017 la corte d’Appello di Catanzaro ha riformato la sentenza del tribunale di Cosenza che aveva dichiarato l’illegittimità del licenziamento intimato a P.P. in data 3.8.2011 dalla datrice di lavoro A. SRL, ordinando la sua reintegrazione.
La corte territoriale ha ritenuto legittimo il licenziamento comminato a seguito di contestazione disciplinare con cui era stato addebitato alla dipendente, cassiera presso il punto vendita della società, di aver omesso di consegnare 8 buoni sconto del 10% sulla spesa a clienti titolari di una tessera promozionale (denominata “sempremia”), per un valore complessivo di 24 euro, buoni che erano stati spesi presso il punto vendita dal marito della P. il giorno successivo.
I giudici del gravame, diversamente da quanto ritenuto dal giudice di prime cure che aveva escluso che dall’istruttoria testimoniale fosse emersa la prova della volontaria omessa consegna del buoni spesa ai clienti da parte della P., hanno rilevato che vi erano circostanze di fatto dalle quali inferire, in base all’art. 2729 c.c., la prova presuntiva del volontario e non consentito utilizzo in proprio favore di tali buoni spesa.
In particolare non era stata evidenziata nella sentenza di primo grado la circostanza dell’abbinamento dei buoni sconto utilizzati ad un numero identificativo di tessera che apparteneva ad una cliente la quale, interpellata, aveva dichiarato di avere smarrito tempo prima detta tessera. Inoltre il giudice di prime cure aveva omesso di rilevare che nei filmati del servizio di video sorveglianza del punto vendita era ritratto il consorte della P. mentre pagava presso una cassa utilizzando dei buoni, poi risultati emessi tutti a poca distanza di tempo e collegati tutti ad una stessa tessera “sempremia”.
Per la corte quindi in base al filmato in atti e alle contraddizioni in cui la lavoratrice era incorsa, – sia nel non dar conto del perché avesse abbinato tutti i buoni ad uno stesso numero di tessera, sia nel negare la presenza del marito presso il punto vendita nel giorno in cui erano stati utilizzati detti buoni – doveva concludersi per il raggiungimento della prova in ordine al volontario ed indebito utilizzo dei buoni spesa spettanti ad altri clienti.
Avverso la sentenza ha proposto ricorso per cassazione la P. affidato a due motivi, poi illustrato da memoria ex art.378 c.p.c., a cui ha opposto difese con controricorso la società.
Ragioni della decisione
Con il primo motivo si deduce la violazione degli artt. 2727, 2729 e 2697 c.c., degli artt.115 e 116 c.p.c. in relazione all’art. 360 c.1 n.3 c.p.c.: incombeva al datore di lavoro dimostrare la commissione delle condotte contestate, mentre vi sarebbe un’assoluta incompatibilità nel testo della sentenza tra prove esaminate ed esito della lite, ciò desumendosi dal fatto che il provvedimento espulsivo non era stato generato da un’ “indebita emissione di buoni sconto”, ma dal diverso fatto che la “P. avrebbe omesso di consegnare gli 8 buoni sconto a clienti titolari della tessera promozionale “sempremia”. In particolare per la ricorrente non potevano essere ritenute presuntivamente acquisite le prove circa mancata consegna da parte della P. dei buoni sconto ai clienti e l’impossessamento degli stessi con artifici e raggiri, mediante l’utilizzo di altra tessera, quindi la consegna dei buoni stessi al coniuge per l’utilizzazione, ostandovi il fatto che non risultano indicati in sentenza indizi gravi, precisi e concordanti.
In particolare non sarebbero stati esplicitati in concreto tali artifici e raggiri, che hanno portato la corte di merito a ravvisare il reato di truffa, essendovi una mancanza di consequenzialità tra l’automatica generazione del buono sconto e la presunta condotta truffaldina, posta in essere con la complicità del marito. Infatti anche con riferimento a tale seconda fase la corte non aveva tenuto conto dello sfasamento di orario tra quello indicato sul server della telecamera del video di telesorveglianza che mostrava il marito della P. e l’orario dell’avvenuto utilizzo dei buoni.
2) con il secondo motivo di gravame si deduce la violazione degli artt. 2105, 2106 e 2119 cc. In relazione all’art. 360 c.1. n.3 c.p.c. ed anche la violazione dell’art. 132 c.p.c., per nullità della sentenza per mancanza di motivazione : la corte di merito sarebbe incorsa in un’erronea ricognizione della norma giuridica nella quale sussumere la condotta della P., non potendosi ricondurre le condotte contestate alla disposizione di cui all’art. 2105 c.c., senza un richiamo agli art. 1175 e 1375 c.c. in termini di correttezza e di buona fede, richiamo non fatto dalla sentenza della corte, che neanche ha spiegato perché il comportamento della lavoratrice avrebbe integrato artifici e raggiri, che non erano stati esplicitati . Neanche sarebbe poi stata valutata la proporzionalità della sanzione inflitta, con violazione dell’art. 2106 c.c., tenuto conto del valore complessivo dei buoni sconto di soli 24 euro, non avendo peraltro mai adombrato il datore di lavoro, né in sede disciplinare e neanche in sede di intimazione del licenziamentoi la presunta perdita dell’ elemento fiduciario.
Il primo motivo è infondato. Va premesso che la ricorrente non ha trascritto la lettera di contestazione e non ha depositato il documento, ma ha ritenuto di attenersi solo a quanto riprodotto di tale provvedimento nella sentenza impugnata, in cui si riassumono concisamente gli addebiti nella sola seguente frase: ” nelle giornate tra il 10 ed il 14 luglio 2011 (la P.) avrebbe omesso di consegnare buoni sconto del 10% a clienti titolari della tessera promozionale ” sempremia” e che il successivo 16 luglio, quei buoni sconto, del valore complessivo di € 24,09, sarebbero stati utilizzati dal marito per l’acquisto di merce per circa trenta euro”.
La sentenza impugnata va, infatti, esente dalle dedotte censure, atteso che sono stati evidenziati dalla corte distrettuale gli elementi di fatto secondari, sia quelli non contestati, sia quelli che hanno trovato conferma nelle deposizioni testimoniali, che valutati congiuntamente, hanno portato i giudici di appello ad evidenziarne la rilevanza in termini di prova presuntiva, senza che sia rinvenibile quella assoluta illogicità e contraddittorietà del ragionamento decisorio lamentato dalla ricorrente.
Ed infatti come più volte rilevato da questa corte (cfr fra le tante, Cass. n. 15737/2003, Cass. 8023/2009), “spetta al giudice di merito valutare l’opportunità di fare ricorso alle presunzioni semplici, individuare i fatti da porre a fondamento del relativo processo logico e valutarne la rispondenza ai requisiti di legge, con apprezzamento di fatto che, ove adeguatamente motivato, sfugge al sindacato di legittimità, dovendosi tuttavia rilevare che la censura per vizio di motivazione in ordine all’utilizzo o meno del ragionamento presuntivo non può limitarsi ad affermare un convincimento diverso da quello espresso dal giudice di merito, ma deve fare emergere l’assoluta illogicità e contraddittorietà del ragionamento decisorio, restando peraltro escluso che la sola mancata valutazione di un elemento indiziario possa dare luogo al vizio di omesso esame di un punto decisivo.
Ebbene la corte distrettuale ha indicato gli elementi probatori – a) la conoscenza da parte della P. del numero della carta “sempremia” smarrita dalla proprietaria cliente, numero poi abbinato ai buoni sconto, b) i filmati del servizio di videosorveglianza in cui era stato visto il marito utilizzare in cassa tali buoni sconto, filmati non presi in considerazione dalla sentenza di primo grado -. Sono stati poi evidenziate le contraddizioni in cui era incorsa la P., la quale aveva in prima battuta riferito dell’assenza del marito da Rende nella giornata in cui erano stati utilizzati i buoni e che poi, visionato in sede di procedimento disciplinare il filmato che lo ritrae alla cassa, aveva dovuto convenire trattarsi del coniuge. La sentenza ha poi puntualmente richiamato le testimonianze che avevano confermato in particolare l’utilizzo dei buoni da parte del coniuge della P. nella giornata indicata nel filmato.
La corte pertanto, correttamente utilizzando il ragionamento probatorio presuntivo secondo i principi scaturenti dalla norma di cui all’art.2729 c.c., ha ricavato dall’esame di fatti secondari, dotati dell’efficacia probatoria di gravità, precisione e concordanza, la prova del fatto principale: la consapevole volontà della lavoratrice di utilizzare per sé, con la complicità del marito, buoni sconto che aveva abbinato ad una tessera smarrita tempo addietro dalla proprietaria.
Anche il secondo motivo non merita accoglimento. La corte distrettuale ha ritenuto provata la condotta della P. di impossessamento e di successivo utilizzo di buoni sconto, a cui non aveva diritto, in cambio di merce in parte quindi non pagata; pertanto ha correttamente ricondotto tali condotte alla previsione di cui all’art. 2015 c.c., norma che, nel prescrivere un dovere di fedeltà a cui è assoggettato il lavoratore, enuncia solo alcune manifestazioni di obblighi negativi come mere ipotesi esemplificative di più vasta gamma di comportamenti, anche positivi ma pur sempre riconducibili, in senso ampio ed in collegamento ai doveri di correttezza e di buona fede di cui agli artt. 1175 e 1375 c.c., all’obbligo di fedeltà (cfr Cass. n. 8711/2017).
Nel caso specifico poi la corte territoriale, ricollegandosi alla fattispecie penale della truffa, stante la condotta concretatasi nei raggiri posti in essere dalla lavoratrice, ha rilevato altresì, nel pieno rispetto dei principi di cui all’art. 2106 e 2119 c.c., che la gravità della condotta era tale da ledere l’elemento fiduciario, indipendentemente da una valutazione economica dell’entità del danno causato alla datrice di lavoro, certamente non rilevante.
Ed infatti la verifica giudiziale della correttezza del procedimento disciplinare, quindi anche del giudizio di proporzionalità tra violazione contestata e provvedimento adottato/ si sostanzia nella valutazione della gravità dell’inadempimento del lavoratore e dell’adeguatezza della sanzione, tutte questioni di merito che, ove siano vagliate dal giudice di appello con un apprezzamento in fatto che esamina tutti gli elementi decisivi che sono stati oggetto di discussione tra le parti, come nel caso di specie, non possono essere più oggetto di doglianza in sede di legittimità.
Il ricorso va pertanto rigettato, con condanna della ricorrente, soccombente, alla rifusione della spese del presente giudizio, liquidate come da dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese di lite del presente giudizio che liquida in euro 200,00 per esborsi, euro 3500,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art.13 comma 1 quater DPR n.115/2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1- bis dello stesso art. 13.
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