CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 23 aprile 2021, n. 10868
Rapporto di lavoro – Illegittimità del sistema organizzativo del turno di disponibilità – Comunicazione del turno di servizio con un preavviso di sei ore – Danno non patrimoniale per la violazione dei diritti alla vita sociale e familiare
Fatti di causa
Il Tribunale di Venezia, con la sentenza n. 58/2011, resa il 25.1.2011, ha accolto il ricorso di G.F., nei confronti di T. S.p.A., ed ha ritenuto la illegittimità del sistema organizzativo del turno di disponibilità – al quale il ricorrente era stato addetto in qualità di macchinista – che prevedeva la comunicazione al lavoratore del turno di servizio con un preavviso di sei ore. Il giudice di prima istanza ha posto a fondamento della decisione il contrasto di questo sistema con gli artt. 10 R.d. n. 2328 del 1923 e 6 del d.P.R. n. 1372 del 1971, oltre che con i principi di correttezza e buona fede sanciti dagli artt. 1175 e 1375 c.c., reputando che il meccanismo descritto non consentisse la comunicazione al lavoratore del turno di servizio in tempi ragionevoli, rendendo più difficoltosa l’organizzazione di vita tra tempi di lavoro e tempi di riposo e provocando così un danno non patrimoniale per la violazione dei diritti alla vita sociale e familiare tutelati dall’art. 2 della Carta costituzionale.
Con ricorso depositato il 20.7.2011, la società datrice ha proposto appello avverso la sentenza, assumendo che alla fattispecie non sarebbe applicabile l’art. 10 del R.d. n. 2328 del 1923, essendo l’appellante società di diritto privato e non concessionaria; che la norma di cui all’art. 6 del d.P.R. n. 1372 del 1971 si riferirebbe, quanto alla formazione ed alla affissione dei turni di servizio, al personale delle stazioni ferroviarie e non ai macchinisti, tra i quali ultimi rientra il ricorrente; che i turni di lavoro dei macchinisti vengono suddivisi tra i macchinisti assegnati ad un turno di servizio ed i macchinisti fuori turno, componenti un servizio di scorta, da impiegare per l’eventuale sostituzione del personale di turno e per lo svolgimento di servizi straordinari.
La Corte di Appello di Venezia, con sentenza pubblicata il 14.8.2014, in riforma della sentenza gravata, ha respinto la domanda proposta dal lavoratore ritenendo non condivisibile il ragionamento del giudice di primo grado, il quale ha fondato il giudizio di illegittimità del comportamento tenuto dalla società appellante sulla valutazione del tempo minimo previsto per la comunicazione al lavoratore dell’orario di presa di servizio (sei ore), ritenendo solo eventuale la fruizione di riposi maggiori rispetto a quelli del personale sostituito ed escludendo, quindi, che il lavoratore abbia diritto a compensi specifici non previsti dal contratto collettivo, ma solo al risarcimento del danno perché il tempo minimo di comunicazione del servizio inciderebbe sulla vita sociale e familiare del ricorrente.
Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso G.F. articolando tre motivi, cui T. S.p.A. ha resistito con controricorso.
Il lavoratore ha, altresì, depositato tardivamente una memoria.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo si censura, in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., la violazione e falsa applicazione delle circolari di T. del 25.1.1981 (art. 10) e del 20.3.1968; dell’Accordo sindacale 12.12.1985; del CCNL Attività Ferroviarie del 16.4.2003 (artt. 22 e 74); del CCNL Aziendale del 16.4.2003 (artt. 14 e 34 punto 8.4.1); in particolare, si assume che la Corte di merito avrebbe errato nel ritenere che la disciplina prevista dalla normativa richiamata sia idonea, nel suo complesso, ad escludere la illegittimità del comportamento della società datrice, che avrebbe applicato le disposizioni del contratto collettivo in questa materia, alla stregua delle quali il disagio costituito dall’orario minimo di preavviso del servizio verrebbe compensato con la fruizione di un maggiore riposo.
2. Con il secondo motivo si deduce <<Omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti>>, perché la Corte di merito non avrebbe motivato sul fatto che l’adozione del sistema di preavviso di sei ore per il turno, e l’applicazione dello stesso nei confronti del F. dal dicembre 2002 all’agosto 2010, potesse o meno integrare una violazione, da parte della società, degli artt. 10 R.d. n. 2328 del 1923 e 6 d.P.R. n. 1372 del 1971, nonché degli artt. 1175 e 1375 c.c..
3. Con il terzo motivo, articolato in riferimento all’art. 360, primo comma, n. 3, c.p.c., si assume la violazione e falsa applicazione degli artt. 1218, 1223, 2697 c.c. e 2 Cost., per l’erroneità della sentenza oggetto del presente giudizio laddove si afferma che, per il risarcimento del danno non patrimoniale, costituito dalla incidenza negativa sulla vita di relazione di un determinato fatto illecito, è necessaria una specifica indicazione dell’esistenza di un pregiudizio provocato sul fare reddituale del soggetto in relazione alle sue abitudini ed ai suoi assetti relazionali.
1.1. Il primo motivo è inammissibile, perché non risulta che il ricorrente abbia prodotto, nella loro completezza, il CCNL di categoria, gli accordi aziendali e quelli sindacali dei quali si denunzia la violazione; e ciò, in violazione del disposto di cui all’art. 366, primo comma, n. 6, c.p.c. ed in spregio del principio, più volte ribadito da questa Corte, che definisce quale onere della parte ricorrente quello di indicare lo specifico atto precedente cui si riferisce, in modo tale da consentire alla Corte di legittimità di controllare ex actis la veridicità delle proprie asserzioni prima di esaminare il merito della questione (tra le molte, con arresti costanti, Cass. n. 14541/2014). Il ricorso per cassazione deve, infatti, contenere tutti gli elementi necessari a costituire le ragioni per cui si chiede la cassazione della sentenza di merito ed a consentire la valutazione della fondatezza di tali ragioni, senza che sia necessario fare rinvio a fonti esterne al ricorso e, quindi, ad elementi o atti concernenti il pregresso grado di giudizio di merito (cfr., tra le molte, Cass. nn. 10551/2016; 23675/2013; 1435/2013). Al riguardo, la giurisprudenza di legittimità ha, altresì, precisato che l’onere di depositare i contratti e gli accordi collettivi che si assumono incisi può dirsi soddisfatto solo con la produzione dei testi integrali (v., tra le molte, Cass. n. 4350/2015); ma che lo stesso può ritenersi adempiuto (v., tra le altre, Cass. n. 15437/2014), in base al principio di strumentalità delle forme processuali – nel rispetto dell’art. 111 Cost., letto in coerenza con l’art. 6 della CEDU, in funzione dello scopo di conseguire una decisione in tempi ragionevoli -, anche mediante la riproduzione, nel corpo dell’atto di impugnazione, della sola norma contrattuale collettiva sulla quale si basano principalmente le doglianze, purché il testo integrale del contratto collettivo sia stato prodotto nei precedenti gradi di giudizio e, nell’elenco degli atti depositati, posto in calce al ricorso, vi sia la richiesta, presentata alla cancelleria del giudice che ha pronunciato la sentenza impugnata, di trasmissione del fascicolo d’ufficio che lo contiene – adempimenti, tutti, cui nella fattispecie non si è ottemperato -, risultando forniti, in tal modo, alla Corte di legittimità tutti gli elementi per verificare l’esattezza dell’interpretazione offerta dal giudice di merito.
2.2. Altresì inammissibile è il secondo motivo, innanzitutto, perché teso, all’evidenza, ad ottenere un nuovo esame del merito (si veda, in particolare, pag. 11 del ricorso); inoltre, l’iter motivazionale dei giudici di seconda istanza appare condivisibile, scevro da vizi logico-giuridici e non scalfito dalla censura sollevata con il mezzo di impugnazione, posto che (v., in particolare, le pagg. 8-10 della pronunzia impugnata), avuto riguardo a tutte le considerazioni svolte in sentenza, non è dato cogliere alcun omesso esame del fatto che si denunzia, ma, semmai, un implicito superamento dello stesso. Ed invero, i giudici di seconda istanza hanno premesso che <<la sentenza di primo grado ha fondato il giudizio di illegittimità del comportamento tenuto dalla società appellante sulla valutazione del tempo minimo previsto per la comunicazione al lavoratore dell’orario di presa di servizio (6 ore), ritenendo solo eventuale la fruizione di riposi maggiori rispetto a quelli del personale sostituito>>, escludendo <<che il lavoratore abbia diritto a compensi specifici, non previsti dal contratto collettivo>>, ma concludendo per il <<diritto al risarcimento del danno perché il tempo minimo della comunicazione del servizio inciderebbe sulla vita sociale e familiare del ricorrente>>; ed hanno, però, reputato che la conclusione cui il primo giudice è giunto non sia condivisibile, perché <<la disciplina dell’orario di lavoro dei macchinisti “fuori turno” deve essere valutata in modo complessivo, tenendo conto non solo delle norme in materia di preavviso, ma anche delle regole in materia di riposi>> (v. pagg. 9 e 10 della sentenza impugnata). E, attraverso la disamina della disciplina complessiva, con una corretta operazione di sussunzione, hanno escluso l’illegittimità del comportamento della società datrice di lavoro, che ha applicato la disciplina prevista dal contratto collettivo di categoria, alla cui stregua il disagio costituito dall’orario minimo di preavviso del servizio è compensato con la fruizione di un maggiore riposo (v. pag. 10 della sentenza).
3.3. Il terzo motivo non è fondato. La Corte di Appello ha sottolineato che il F., nel prospettare l’esistenza di un danno biologico e/o esistenziale derivante dall’orario di lavoro seguito nell’espletamento delle sue mansioni, non ha fornito alcun elemento delibatorio a supporto.
La decisione cui è giunta la Corte di merito appare pienamente in linea con il consolidato orientamento giurisprudenziale di questa Corte, alla stregua del quale il riconoscimento del diritto del lavoratore al risarcimento del danno biologico e/o non patrimoniale in genere non ricorre automaticamente in tutti i casi di inadempimento datoriale e non può prescindere da una specifica allegazione sulla natura e sulle caratteristiche del pregiudizio lamentato (cfr., ex plurimis, Cass. nn. 7818/2014; 5237/2011). Pacificamente, infatti, va distinto il momento della violazione degli obblighi contrattuali da quello relativo alla produzione del danno da inadempimento, essendo quest’ultimo eventuale, in quanto il danno non è sempre diretta conseguenza della violazione di un dovere. In base ai principi generali dettati dagli artt. 2697 e 1223 c.c., è necessario individuare un effetto della violazione su di un determinato bene perché possa configurarsi un danno e possa poi procedersi alla liquidazione (eventualmente anche in via equitativa) del medesimo.
Ed in tal senso, questa Suprema Corte ha sottolineato che le allegazioni che devono accompagnare la proposizione di una domanda risarcitoria non possono essere limitate alla prospettazione di una condotta datoriale colpevole, produttiva di danni nella sfera giuridica del lavoratore, ma devono includere anche la descrizione delle lesioni, patrimoniali e non patrimoniali, prodotte da tale condotta, dovendo il ricorrente mettere la controparte in condizione di conoscere quali pregiudizi vengono imputati al suo comportamento, a prescindere dalla loro esatta quantificazione e dall’assolvimento di ogni onere probatorio al riguardo (v., ex multis, Cass. nn. 5590/2016; 691/2012).
Grava, quindi, sul lavoratore l’onere di provare l’esistenza del danno lamentato, la natura e le caratteristiche del pregiudizio subito, nonché il relativo nesso causale con l’inadempimento del datore di lavoro (cfr., tra le altre, Cass. nn. 2886/2014; 11527/2013 citt.; 14158/2011; 29832/2008); onere al quale il ricorrente non ha assolto.
4. Pertanto, per le considerazioni innanzi svolte, il ricorso va rigettato.
5. Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.
6. Avuto riguardo all’esito del giudizio ed alla data di proposizione del ricorso, sussistono i presupposti di cui all’art. 13, comma 1 – quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, secondo quanto specificato in dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso; condanna il ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in Euro 3.000,00 per compensi professionali ed Euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali nella misura del 15% ed accessori, come per legge.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 – bis dello stesso articolo 13, se dovuto.
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