CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 23 dicembre 2019, n. 34368
Licenziamento disciplinare – Violazione del principio di consunzione del potere disciplinare – Possibilità di tener conto delle sanzioni eventualmente applicate, entro il biennio, ai fini della recidiva – Irrogazione al dipendente di una sanzione conservativa per condotte di rilevanza penale – Passaggio in giudicato della sentenza penale di condanna per i medesimi fatti – Escluso il licenziamento disciplinare, per una diversa valutazione o configurazione giuridica di una condotta già sanzionata
Fatti di causa
1. La Corte di Appello di Bologna, con sentenza pubblicata in data 8 maggio 2018, ha respinto il reclamo proposto da P.I. Spa avverso la decisione di primo grado che aveva confermato l’ordinanza, resa nella fase sommaria di un procedimento ex lege n. 92 del 2012, che aveva accertato l’illegittimità del licenziamento disciplinare intimato dalla società al dipendente D.A., con applicazione della tutela reintegratoria prevista dal comma 4 dell’art. 18 novellato, l. n. 300 del 1970.
2. La Corte bolognese, conformemente ai primo giudice, ha ritenuto la violazione del principio del ne bis in idem in relazione agli addebiti (“di distrazione del controvalore di euro 171,00 e del versamento per un importo di euro 1.087,00 effettuato da cliente su libretto di risparmio”) già oggetto di sanzione conservativa (10 giorni di sospensione) non impugnata.
3. Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso la società soccombente con 3 motivi, illustrati anche da memoria, cui ha resistito con controricorso il lavoratore.
Ragioni della decisione
1. I motivi di ricorso possono essere come di seguito sintetizzati.
1.1. Con il primo si denuncia “violazione e/o falsa applicazione, ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c., degli artt. 2106 c.c., 7 l. n. 300 del 1970 e 18 comma 3 della l. n. 300 del 1970 e s.m.i., in ordine alla rilevanza dell’addebito contestato ai fini dell’operatività del principio di consumazione del potere disciplinare”; si sostiene che “il potere disciplinare può dirsi consumato solo se venga esercitato due volte per lo stesso oggetto (inteso come infrazione), e ciò a prescindere del fatto o dei fatti materiali sottostanti”, per cui “la valutazione circa il rispetto del principio di consumazione del potere disciplinare deve essere condotta in considerazione della identità o meno di addebiti e non dei singoli fatti o eventi materiali”.
1.2. Con il secondo mezzo si denuncia “violazione e/o falsa applicazione, ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c., dell’art. 7 della l. n. 300 del 1970 e dell’art. 54, comma VI lett. h) ed i) del CCNL di P.I. del 14 aprile 2011; omesso esame, ai sensi dell’art. 360 n. 5 c.p.c., dell’oggetto dei due procedimenti disciplinari”; si sostiene che “anche sotto il profilo strettamente materiale, l’oggetto del procedimento disciplinare conclusosi con il licenziamento impugnato non è il medesimo del procedimento disciplinare conclusosi con sanzione conservativa”; si sostiene che oggetto del secondo procedimento culminato nel licenziamento sarebbe “il fatto stesso di aver subito una sentenza penale di condanna”.
1.3. Con il terzo motivo si lamenta “violazione e/o falsa applicazione, ai sensi dell’art. 360 n. 3 c.p.c., dell’art. 18 commi 4 e 6 della l. n. 300 del 1970 e s.m.i.” criticando i giudici del merito per aver concesso la tutela reintegratoria, nonostante nella specie non ricorresse una ipotesi di “insussistenza del fatto contestato” ed anche perché la “tardività nell’attivazione del procedimento disciplinare … non può mai dar luogo a tutela reintegratoria”.
2. Il primo motivo non è meritevole di accoglimento sulla scorta di una stratificata giurisprudenza di legittimità, ancora di recente ribadita.
L’applicazione del principio di consunzione (in cui si compendia, appunto, la massima del “ne bis in idem” ricavabile dal testuale disposto degli artt. 90 cod. pen. e 39 c.p.c.) al procedimento disciplinare privatistico ha portato al consolidato orientamento di questa Corte secondo cui il datore di lavoro, una volta esercitato validamente il potere disciplinare nei confronti del prestatore di lavoro in relazione a determinati fatti costituenti infrazioni disciplinari, non può esercitare, una seconda volta, per quegli stessi fatti, il detto potere ormai consumato, essendogli consentito soltanto di tener conto delle sanzioni eventualmente applicate, entro il biennio, ai fini della recidiva (Cass. n. 17912 del 2016; Cass. n. 22388 del 2014; Cass. n. 7523 del 2009; Cass. n. 3039 del 1996; Cass. n. 3871 del 1986).
In particolare è stato sempre confermato il divieto di esercitare due volte il potere disciplinare per un stesso fatto, sotto il profilo di una sua diversa valutazione o configurazione giuridica (ex plurimis: Cass. n. 26815 del 2018; Cass. n. 3855 del 2017; Cass. n. 20429 del 2016; Cass. n. 16472 del 2015).
Si è così consolidato il principio in base al quale: “L’avvenuta irrogazione al dipendente di una sanzione conservativa per condotte di rilevanza penale esclude che, a seguito del passaggio in giudicato della sentenza penale di condanna per i medesimi fatti, possa essere intimato il licenziamento disciplinare, non essendo consentito (in linea con quanto affermato dalla Corte EDU, sentenza 4 marzo 2014, Grande Stevens ed altri contro Italia, che ha affermato la portata generale, estesa a tutti i rami del diritto, del principio del divieto di “ne bis in idem”), per il principio di consunzione del potere disciplinare, che una identica condotta sia sanzionata più volte a seguito di una diversa valutazione o configurazione giuridica” (Cass. n. 22388 del 2014; Cass. n. 17912 del 2016; Cass. 24752 del 2017; da ultimo v. Cass. n. 28927 del 2019).
Il principio è stato ancora di recente applicato in fattispecie analoga alla presente laddove P.I. Spa aveva irrogato prima la sanzione conservativa al dipendente accusato di avere “incassato denaro di pertinenza di due clienti, riscuotendo le somme di due bonifici ai medesimi destinati” e, poi, quella espulsiva, in seguito alla condanna per peculato per gli stessi fatti (Cass. n. 27657 del 2018).
Pertanto l’assunto del ricorrente secondo cui, nella valutazione della violazione del canone del ne bis in idem, occorrerebbe “prescindere del fatto o dei fatti materiali sottostanti” è privo di pregio, anche perché in alcun modo si misura con la giurisprudenza di legittimità appena richiamata, in contrasto con l’art. 360 bis, n. 1, c.p.c., che sanziona con l’inammissibilità i motivi di ricorso per cassazione che non offrano elementi per mutare orientamenti di questa Corte cui la sentenza impugnata si sia conformata.
3. Parimenti non può trovare accoglimento il secondo motivo di ricorso.
Esso è in radice inammissibile nella parte in cui invoca il vizio di cui all’art. 360 n. 5 c.p.c. in una ipotesi in cui il fatto è stato ricostruito nei medesimi termini dai giudici di primo e di secondo grado, sicché esso, per il vincolo normativo imposto dall’ultimo comma dell’art. 348 ter c.p.c., non è sindacabile da questa Corte in caso di pronuncia c.d. doppia conforme (v. tra molte Cass. n. 23021 del 2014).
Anche nella parte in cui denuncia pretesi errori di diritto, il motivo, nella sostanza, contesta l’accertamento fattuale operato da tutti i giudici del merito che si sono occupati della vicenda, concordi nel ritenere che i fatti addebitati, sia nel primo che nel secondo procedimento disciplinare, fossero i medesimi (cfr., in analogo senso, Cass. n. 10343 del 2019).
Pertanto il ricorrente pretende da questa Corte una non consentita rivalutazione di merito in ordine all’interpretazione degli atti delle procedure disciplinari, anche riguardo alla tesi, che peraltro assume l’inammissibile connotato di novità della censura (cfr. Cass. SS. UU. n. 2399 del 2014; Cass. n. 2730 del 2012; Cass. n. 20518 del 2008; Cass. n. 25546 del 2006; Cass. n. 3664 del 2006; Cass. n. 6542 del 2004), secondo cui l’A. sarebbe stato licenziato per la sentenza di condanna penale e non per i fatti che a quella sentenza avevano dato origine.
4. Infondato è, infine, il terzo mezzo in base a quanto già affermato da questa Corte secondo cui: “In tema di licenziamento disciplinare, ove il datore di lavoro contesti un fatto non sanzionabile, per essere già stato esercitato in relazione ad esso il potere punitivo mediante l’irrogazione di una sanzione conservativa, quel fatto deve ritenersi privo del carattere dell’antigiuridicità, per cui va riconosciuta al lavoratore la tutela reintegratoria ex art. 18, comma 4, della l. n. 300 del 1970, come riformulato dalla l. n. 92 del 2012” (Cass. n. 27657 del 2018).
Fuori bersaglio è poi la censura che invoca i principi in tema di tempestività dell’azione disciplinare, atteso che, pacificamente, il licenziamento dell’A. non è stato ritenuto illegittimo per tardività della procedura sanzionatola bensì perché il datore di lavoro aveva licenziato il lavoratore quando non ne aveva più il potere.
5. Conclusivamente il ricorso va respinto, con spese liquidate secondo soccombenza come da dispositivo.
Occorre altresì dare atto della sussistenza dei presupposti processuali di cui all’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002, come modificato dall’art. 1, co. 17, l. n. 228 del 2012.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese liquidate in euro 5.000,00, oltre euro 200,00 per esborsi, accessori secondo legge e spese generali al 15%.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.
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