CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 23 febbraio 2021, n. 4896
Licenziamento per sopravvenuta inidoneità fisica allo svolgimento delle mansioni di operaia pulitrice – Accertamento – Obbligo di repechage del datore di lavoro alle sole mansioni di pari livello
Fatti di causa
1. La Corte di Appello di Roma, in riforma della pronuncia di primo grado emessa ex art. 1, comma 51, della legge n. 92 del 2012, ha respinto la domanda proposta da L. M. al fine di ottenere la declaratoria di illegittimità del licenziamento intimato il 12.11.2015 da T.S.C. s.r.l. per sopravvenuta inidoneità fisica della lavoratrice (invalidità pari all’80%) allo svolgimento delle mansioni di operaia pulitrice di III livello di cui al CCNL Multiservizi.
2. La Corte, dato atto dell’accertata sopravvenuta inidoneità della lavoratrice alle mansioni assegnate di operaia pulitrice all’interno dell’ospedale presso cui la società aveva vinto, congiuntamente ad altra ditta, l’appalto (salvo il disimpegno, peraltro occasionale e residuale del compito di ricezione delle telefonate) nonché dell’assenza di posti vacanti su mansioni compatibili con le condizioni di salute della M., ha ritenuto legittimo il licenziamento in considerazione dell’insussistenza di un obbligo del datore di lavoro di modificare la propria organizzazione aziendale o di demansionare o trasferire gli altri dipendenti.
3. Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso L. M. con tre motivi, illustrati da memoria. Ha resistito la società con controricorso.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo la ricorrente deduce violazione e/o falsa applicazione degli artt. 3 e 5 della legge n. 604 del 1966, 1463, 1464 e 2697 cod.civ. (ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 3 cod.proc.civ.) avendo, la Corte distrettuale, erroneamente circoscritto l’obbligo di repechage del datore di lavoro alle sole mansioni di pari livello (e non “a tutte le possibilità di effettivo residuale impiego del lavoratore nel complessivo contesto aziendale”) ed avendone posto l’onere della prova a carico della lavoratrice.
2. Con il secondo motivo la ricorrente deduce violazione e/o falsa applicazione degli artt. 3 e 5 della legge n. 604 del 1966, 1463, 1464 e 2697 cod.civ. nonché omesso esame di un fatto decisivo (ai sensi dell’art. 360, primo comma, nn. 3 e 5 cod.proc.civ.) essendo emerso, dalle deposizioni testimoniali acquisite in giudizio (in specie, teste D.M.), l’esistenza di mansioni compatibili con lo stato di salute della M. e svolte da personale inquadrato con la qualifica di operaio pulitore.
3. Con il terzo motivo la ricorrente deduce violazione e/o falsa applicazione degli artt. 3 e 5 della legge n. 604 del 1966, 2697 cod.civ., 3, comma 3 bis, del d.lgs. n. 216 del 2003 nonché omesso esame di un fatto decisivo (ai sensi dell’art. 360, primo comma, nn. 3 e 5 cod.proc.civ.) avendo, la Corte distrettuale, trascurato i principi di diritto adottati in sede comunitaria (Direttiva 2000/78/Ce) e recepiti nell’ordinamento interno (d.lgs. n. 216 citato) che impongono al datore di lavoro – secondo orientamento elaborato dalla Suprema Corte di Cassazione (Cass. n. 6798 del 2018) – di modificare l’organizzazione aziendale.
4. Il primo motivo ed il terzo motivo, che possono essere esaminati congiuntamente considerata la loro stretta connessione, sono infondati.
La fattispecie in esame si colloca, ratione temporis, nell’alveo di applicazione dell’art. 3, comma 3bis del d.lgs. n. 216 del 2003 come integrato dal d.l. n. 76 del 2013 (convertito con modificazioni in legge n. 99 del 2013), disposizione tesa a recepire l’art. 5 della direttiva n. 78/2000/CE del 27.11.2000.
In proposito vale richiamare la trama argomentativa contenuta in un recente arresto di questa Corte che ha analizzato funditus l’ambito dei poteri datoriali in caso di lavoratore impossibilitato a svolgere la prestazione per sopravvenuta invalidità permanente (cfr. Cass. n. 27243 del 2018).
La Corte di Giustizia, in conformità dell’art.2, co. 4, della Convenzione dell’ONU, ha definito gli “accomodamenti ragionevoli” come “le modifiche e gli adattamenti necessari ed appropriati che non impongano un onere sproporzionato o eccessivo, adottati, ove ve ne sia necessità in casi particolari, per garantire alle persone con disabilità il godimento e l’esercizio, su base di uguaglianza con gli altri, di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali” (CGUE, 4 luglio 2013, Commissione c. Italia, punto 58) e consistenti in provvedimenti efficaci e pratici, ad esempio sistemazione dei locali, adattamento di attrezzature, ritmi di lavoro o ripartizione dei compiti in funzione delle esigenze delle situazioni concrete, riduzione dell’orario di lavoro, per consentire ai disabili di accedere ad un lavoro, di svolgerlo, di avere una promozione o di ricevere una formazione, con il solo limite di imporre al datore di lavoro un onere sproporzionato.
Con riguardo all’orientamento giurisprudenziale nazionale sinora elaborato, le Sezioni Unite (n. 7755 del 1998) hanno affermato il seguente principio di diritto: “La sopravvenuta infermità permanente e la conseguente impossibilità della prestazione lavorativa, quale giustificato motivo di recesso del datore di lavoro dal contratto di lavoro subordinato, non è ravvisabile nella sola ineleggibilità dell’attività attualmente svolta dal prestatore, ma può essere esclusa dalla possibilità di altre attività riconducibile – alla stregua di un’interpretazione del contratto secondo buona fede – alle mansioni attualmente assegnate o a quelle equivalenti o, se ciò è impossibile, a mansioni inferiori, purché essa attività sia utilizzabile nell’impresa, secondo l’assetto organizzativo insindacabilmente stabilito dall’imprenditore“.
Questo orientamento è stato confermato da numerose pronunce successive (ex muitis Cass. n. 9624 del 2000, Cass. n. 7210 del 2001, Cass. n. 16141 del 2002, Cass. n. 8832 del 2011) che hanno ritenuto come solo l’inutilizzabilità della prestazione del lavoratore divenuto inabile, con alterazione dell’assetto organizzativo della medesima, può costituire giustificato motivo di licenziamento. Una interpretazione dell’art. 3, comma 3 bis della legge n. 216 del 2003 costituzionalmente orientata nonché valutata alla luce della giurisprudenza della Corte di giustizia europea porta a ritenere che il diritto del lavoratore disabile all’adozione di accorgimenti che consentano l’espletamento della prestazione lavorativa trova un limite nell’organizzazione interna dell’impresa e, in particolare, nel mantenimento degli equilibri finanziari dell’impresa stessa (cfr. già Corte Cost. n. 78 del 1958, Corte Cost. n. 316 del 1990, Corte Cost. n. 356 del 1993) nonché nel diritto degli altri lavoratori alla conservazione delle mansioni assegnate e, in ogni caso, di mansioni che ne valorizzino l’esperienza e la professionalità acquisita. In particolare, Cass. n. 34132 del 2019 (ribadendo l’orientamento già affermato con Cass. nn. 6798 e 27243 del 2018) ha effettuato un’ampia ricognizione del quadro normativo e giurisprudenziale, sottolineando che la ricerca del delicato punto di equilibrio tra diritto del disabile a non essere discriminato, diritto dell’imprenditore ad organizzare l’azienda secondo le proprie insindacabili scelte e diritto degli altri lavoratori deve essere condotta alla stregua dei parametri individuati dall’art. 3, comma 3 bis, della legge n. 216 del 2003 che fa rinvio all’art. 2 della Convenzione di New York che considera quale accomodamento ragionevole “le modifiche e gli adattamenti necessari ed appropriati che non impongano un carico sproporzionato ed eccessivo”.
Il giudice di merito deve, dunque, indagare la eventuale sussistenza, nell’ambito della struttura organizzativa assunta dall’impresa, di mansioni che possano eventualmente adattarsi all’inabilità del lavoratore, e può ritenere legittimo il licenziamento non solo a fronte della concreta inesistenza di accorgimenti pratici idonei a rendere utilizzabili le prestazioni lavorative dell’inabile ma altresì accertata l’assoluta impossibilità di affidare allo stesso mansioni equivalenti e mansioni inferiori, tenuto conto – nel bilanciamento degli interessi costituzionalmente protetti – della protezione dei soggetti svantaggiati, dell’interesse del datore di lavoro ad una collocazione del lavoratore inabile nella realtà organizzativa unilateralmente delineata dall’imprenditore stesso e del diritto degli altri lavoratori allo svolgimento di mansioni che si collochino nell’ambito del bagaglio professionale acquisito. Invero, il criterio di ragionevolezza sopra citato implica, altresì, che nell’adozione delle misure sopra indicate debba tenersi conto del limite costituito dall’inviolabilità in peius (art. 2103 cod.civ.) delle posizioni lavorative degli altri prestatori di lavoro: deve, pertanto, escludersi che le suddette misure organizzative possano incidere negativamente sulle mansioni e sulle altre condizioni di lavoro degli altri lavoratori (ad esempio, ambiente e luogo di lavoro, orario e tempi di lavoro).
5. Ebbene, nel caso di specie, la Corte territoriale ha accertato l’assenza di “posti vacanti compatibili con le minorate condizioni fisiche della M.”, dando atto che tutti gli altri dipendenti della società erano impiegati in “mansioni di fatica per le quali la M. era già stata dichiarata inidonea permanente” e che le uniche attività che la lavoratrice era in grado di svolgere (ricezione delle telefonate) erano di carattere occasionale e residuale tali da non consentire una adibizione in maniera esclusiva. La valutazione delle capacità lavorative residue è stata effettuata con riguardo a tutti i posti vacanti compatibili con le minorate condizioni fisiche e, dunque, comprensivi anche di mansioni inferiori, come emerge dalla considerazione delle mansioni disimpegnate dai colleghi inquadrati in livelli (I e II) inferiori a quello di appartenenza (III) della M..
La Corte, conformemente all’indirizzo giurisprudenziale consolidatosi successivamente alla sentenza impugnata, ha correttamente ritenuto assolto l’obbligo della società controricorrente di tutela del lavoratore disabile in considerazione dell’accertata inidoneità della lavoratrice allo svolgimento delle mansioni affidate e dell’insussistenza di mansioni equivalenti o inferiori da affidare alla lavoratrice stessa; ha aggiunto, inoltre, che tutti gli altri compiti svolti dagli altri dipendenti nell’ambito della organizzazione aziendale erano incompatibili con l’inabilità della lavoratrice, restando, dunque, irrilevante l’ulteriore disamina degli eventuali accorgimenti da programmare al fine di adattare mansioni che si presentavano – in ogni caso – radicalmente incompatibili con l’infermità.
In conclusione, pacifica la situazione di disabilità di L. M., il datore di lavoro ha soddisfatto l’onere imposto dall’art. 5 della legge n. 604 del 1966 di provare il giustificato motivo di licenziamento dimostrando che, nell’ambito dell’organizzazione aziendale e del rispetto delle mansioni assegnate al restante personale in servizio, non vi era alcun accorgimento pratico – a prescindere dall’onere finanziario da assumere – applicabile alla mansione (già assegnata o equivalente ovvero inferiore) svolta dal lavoratore ed appropriato alla disabilità.
6. Il secondo motivo di ricorso è inammissibile.
Nonostante il formale richiamo alla violazione di norme di legge contenuto nella rubrica e nel corpo del motivo di ricorso, le censure si risolvono nella denuncia di vizi di motivazione della sentenza impugnata per errata valutazione del materiale probatorio acquisito, ai fini della ricostruzione dei fatti.
L’interpretazione di questa Corte (da ultimo, Cass. n. 27415 del 2018) ha chiarito come l’art. 360, primo comma, n. 5, cod.proc.civ., riformulato dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, abbia introdotto nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per Cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo (vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia).
Pertanto, l’omesso esame di elementi istruttori non integra, di per sé, il vizio di omesso esame di un fatto decisivo qualora il fatto storico, rilevante in causa, sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, ancorché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie (Cass. Sez. U, 07/04/2014, n. 8053).
Costituisce, pertanto, un “fatto”, agli effetti dell’art. 360, comma 1, n. 5, cod.proc.civ., non una “questione” o un “punto”, ma un vero e proprio “fatto”, in senso storico e normativo, un preciso accadimento ovvero una precisa circostanza naturalistica, un dato materiale, un episodio fenomenico rilevante (Cass. Sez. 1, 04/04/2014, n. 7983; Cass. Sez. 1, 08/09/2016, n. 17761; Cass. Sez. 5, 13/12/2017, n. 29883; Cass. Sez. 5, 08/10/2014, n. 21152; Cass. Sez. U., 23/03/2015, n. 5745; Cass. Sez. 1, 5/03/2014, n. 5133).
Non costituiscono, viceversa, “fatti”, il cui omesso esame possa cagionare il vizio ex art. 360, comma 1, n. 5, cod.proc.civ., le argomentazioni o deduzioni difensive (Cass. Sez. 2, 14/06/2017, n. 14802: Cass. Sez. 5, 08/10/2014, n. 21152); gli elementi istruttori; una moltitudine di fatti e circostanze, o il “vario insieme dei materiali di causa” (Cass. Sez. L, 21/10/2015, n. 21439).
E’ quindi inammissibile l’invocazione del vizio di cui all’art. 360 n. 5 cod.proc.civ. per sostenere il mancato esame di deduzioni istruttorie, di documenti, di eccezioni di nullità della sentenza non definitiva e degli atti conseguenti, di critiche rivolte agli elaborati peritali (ovvero di semplici allegazioni difensive a contenuto tecnico), o della “non contestazione dell’avvenuta usucapione” (un fatto che non sia stato “oggetto di discussione tra le parti” è, d’altro canto, fuori dall’ambito dell’art. 360 n. 5 cod.proc.civ. per sua stessa definizione), o per lamentarsi di una “motivazione non corretta”.
7. Il ricorso va, pertanto, rigettato e le spese di lite, in considerazione della elaborazione giurisprudenziale successiva alla sentenza impugnata, sono integralmente compensate tra le parti.
8. Sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato previsto dal d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, comma 1 quater, introdotto dalla L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17 (legge di stabilità 2013) pari a quello – ove dovuto – per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e compensa integralmente tra le parti le spese di lite.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13, se dovuto.