CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 23 gennaio 2019, n. 1778
Tributi – Accertamento – Riscossione – Imposte non versate – Contenzioso tributario
Fatti di causa
1. L’Agenzia delle Entrate propone ricorso per cassazione avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale della Lombardia, depositata il 16 luglio 2010, di reiezione dell’appello principale dalla medesima proposto e dell’appello incidentale proposto dalla E. s.p.a. avverso la sentenza di primo grado che aveva annullato l’avviso di accertamento con cui, relativamente all’anno 2004, erano stati rideterminati l’i.r.e.s., l’i.r.a.p. e l’i.v.a. e recuperate le imposte non versate.
2. Dall’esame della sentenza impugnata si evince che le riprese fiscali fatte valere con l’atto impositivo avevano ad oggetto, quanto all’i.r.e.s., l’indebita deduzione di costi (ammortamenti e perdite su crediti), in quanto ritenuti non di competenza, quanto all’i.r.a.p., l’indebita deduzione di componenti negativi (i medesimi ammortamenti e consulenze commerciali) e, quanto all’i.v.a., l’omessa dichiarazione di operazioni di cessione di beni, per le quali era stata contestata l’indebita qualificazione di cessione all’esportazione non imponibili.
2.1. Il giudice di appello, confermando la decisione della Commissione provinciale, aveva preliminarmente respinto l’appello incidentale della contribuente, fondato sull’asserito mancato rispetto del termine di cui all’art. 12, quinto comma, I. 20 luglio 2000, n. 212, e, quindi, respinto anche l’appello principale, ritenendo corretto l’operato della società.
3. Il ricorso è affidato a tre motivi.
4. Resiste con controricorso la E. s.p.a., la quale propone ricorso incidentale affidato a due motivi.
5. La controricorrente deposita memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso l’Agenzia delle Entrate denuncia la violazione e falsa applicazione degli artt. 2426 c.c., 102, 108, terzo comma, 109 e 110, primo comma, d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, per aver la sentenza impugnata, in relazione alla ripresa avente ad oggetto l’indebita deduzione del costo rappresentato dagli ammortamenti di spese pluriennali, ritenuto conforme a legge l’operato della società che aveva individuato il periodo di ammortamento in ragione della durata originaria del rapporto contrattuale di affiliazione commerciale nel corso del quale la spesa (contributi per l’apertura o ristrutturazione di punti vendita) era stata sostenuta, anziché della utilità futura della spesa.
1.1. Il motivo è infondato.
Sul punto, la sentenza di appello afferma che «tali spese erano state ammortizzate secondo i criteri individuati in applicazione delle disposizioni civilistico/contabili, cui la norma fiscale rinviava», aggiungendo che «tale criterio non era sindacabile da parte dell’amministrazione finanziaria se non tramite una preventiva contestazione del bilancio d’esercizio…».
Con particolare riferimento alla natura delle spese pluriennali in esame, dal contenuto degli atti di parte, concordi sul punto, si evince che le stesse sono rappresentate da contributi economici erogati dalla contribuente a società controllate o sottoposte a influenza dominante in virtù di pattuizione contrattuali collegate a contratti di affiliazione commerciale, in relazione alle esigenze delle società affiliate di aprire nuovi punti vendita o di ristrutturarne di esistenti e previa assunzione da parte di quest’ultime dell’obbligo di effettuare un più elevato volume minimo di acquisti annuo ovvero proroga della durata dei contratti di affiliazione commerciale.
La società contribuente ha provveduto a iscrivere gli oneri pluriennali tra le immobilizzazioni immateriali dello stato patrimoniale e a ripartire l’onere in funzione del periodo di durata residua di ciascun contratto di affiliazione in essere.
Sostiene l’Agenzia ricorrente che, in ragione delle caratteristiche dei rapporti contrattuali di affiliazione commerciale in essere (situazione di controllo o influenza dominante della contribuente; funzione di valorizzazione del marchio «E.» svolta dalle società affiliate; costanza, se non crescita, dei volumi di affari realizzati della contribuente con tali società; vigenza dei rapporti contrattuali oltre la durata contrattuale originaria), tali rapporti godessero di una stabilità temporale tale da rendere indefinito il periodo di durata dei relativi accordi.
Critica, inoltre, la sentenza di appello in ordine alla affermata preclusione per l’Amministrazione finanziaria di sindacare i criteri di utilizzazione dei costi adottati dalla società, se non previa contestazione del bilancio di esercizio.
1.2. Ciò posto, osserva questo Collegio che, alla luce dei fatti emersi, l’interesse economico perseguito dalla contribuente con l’erogazione dei contributi in favore dei soggetti affiliati va individuato nell’esigenza di rendere più efficace la rete di distribuzione dei prodotti recanti il suo marchio e di incrementare il prestigio del segno attraverso la presentazione dei prodotti medesimi in locali dotati di maggiore capacità attrattiva.
In relazione all’immediata finalità delle erogazioni alla pubblicizzazione dei prodotti e dei marchi della contribuente e, per tale via, alla promozione e incremento delle vendite, le stesse vanno qualificate quali spese di pubblicità e di propaganda (cfr., sul punto, Cass. 17 febbraio 2016, n. 3087; Cass. 28 ottobre 2015, n. 21977), che, ai sensi dell’art. 108, d.P.R. n. 917 del 1986, nella formulazione applicabile al periodo di imposta in esame, sono deducibili nell’esercizio in cui sono state sostenute o in quote costanti nell’esercizio stesso e nei quattro successivi.
Pertanto, non appare censurabile la scelta della contribuente di ripartire la spesa in un periodo di cinque esercizi.
1.3. Può, inoltre, evidenziarsi che la deduzione della spesa nell’arco temporale quinquennale appare coerente con i criteri di valutazione espressi dall’art. 2426, n. 5, c.c., secondo cui i costi di sviluppo e pubblicità aventi utilità pluriennale (e, più in generale, alle immobilizzazioni immateriali) possono essere iscritti nell’attivo con il consenso, ove esistente, del collegio sindacale e devono essere ammortizzati entro un periodo non superiore a cinque anni, nonché con i principi di prudenza e di ragionevolezza che informano la redazione del bilancio civilistico e, in particolare, la valutazione delle relative poste, in considerazione della scelta della contribuente di commisurare la quota di costo gravante su ciascun esercizio alla durata residua dei contratti e, dunque, dell’utilità della spesa sostenuta (cfr., in tema, Cass. 14 marzo 2018, n. 6288).
Non decisiva, in senso contrario, si presenta la circostanza relativa alla possibilità di una proroga del rapporto di affiliazione commerciale tra la contribuente e i soggetti affiliati destinatari dei contributi – che l’Ufficio avrebbe riscontrato e che sarebbe insita nel legame di controllo o di influenza dominante che legherebbero la prima ai secondi -, in quanto inidonea a dimostrare la irrazionalità della ripartizione della spesa operata dalla contribuente, all’esito di una valutazione dell’esercizio del potere discrezionale nella redazione del bilancio da effettuarsi ex ante.
2. Con il secondo motivo la ricorrente deduce, con riferimento al capo della sentenza relativo al rilievo i.v.a. per omessa dichiarazione di operazioni imponibili, la insufficiente motivazione su un fatto decisivo e controverso, in relazione alla ritenuta circostanza che le operazioni in esame, sin dalla loro origine, siano state volute dalle parti come cessioni nazionali in vista di trasporto a cessionario residente all’estero.
Sottolinea, sul punto, che la Corte regionale ha desunto la preordinazione delle cessioni all’esportazione dall’esistenza di «dettagliata documentazione», senza indicale fossero i documenti rilevanti e le ragioni della loro concludenza.
Aggiunge, da un lato, che l’espressa pattuizione della clausola «fermo fabbrica» deporrebbe per l’estraneità del cedente alle successive vicende della merce ceduta e, dunque, per l’assenza di una volontà originaria delle parti di trasferire la merce a un cessionario residente all’estero e, dall’altro, l’irrilevanza, ai fini che qui interessano, della documentazione offerta dalla contribuente, in quanto relativa alla fase successiva alla prima cessione.
2.1. Il motivo è fondato.
In caso di operazioni «triangolari», ai fini dell’esenzione d’imposta di cui all’art. 8, primo comma, lett. a), d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, è onere del contribuente provare che le operazioni, fin dalla loro origine e nella loro rappresentazione documentale, siano state volute, secondo la comune volontà degli originari contraenti, come cessioni nazionali in vista del trasporto a cessionario residente all’estero (cfr., tra le altre, Cass. 23 febbraio 2018, n. 4408; Cass., ord., 2 dicembre 2014, n. 25528; Cass. 11 luglio 2014, n. 15971).
In presenza di una puntuale contestazione dell’Ufficio in ordine alla insussistenza di una siffatta volontà e alla mancata dimostrazione del fatto che l’operazione presenti carattere unitario e sia stata preordinata all’esportazione, fondata sull’elemento indiziario costituito dalla clausola «franco fabbrica» apposta alla cessione all’operatore nazionale e sul mancato rinvenimento di documentazione attestante la volontà del cedente nazionale di esportare la merce, il giudice di appello ha ritenuto sussistente tale volontà desumendola da «dettagliata documentazione».
Una tale motivazione appare insufficiente, in quanto, limitandosi a fare riferimento, sul punto, all’esistenza di una non meglio indicata «dettagliata documentazione», si presenta inidonea a farne apprezzare la coerenza sotto il profilo logico-giuridico, in relazione agli elementi di fatto addotti dall’Ufficio, i quali, essendo sintomatici della totale autonomia della cessione nazionale rispetto alla successiva esportazione della merce, sono astrattamente idonei a far venir meno la ratio deciderteli.
3. Con l’ultimo motivo di ricorso l’Agenzia si duole, in relazione al capo di sentenza relativo alla ripresa avente ad oggetto la deduzione del costo per consulenze commerciali, della violazione e falsa applicazione degli artt. 5 e 11, d.lgs. 1997, n. 446, per aver il giudice di appello ritenuto deducibili tali oneri.
Evidenzia, in proposito, che tali oneri erano rappresentati da costi relativi a personale dipendente assunto da altra impresa per prestazioni di servizi rese da altre imprese e riaddebitati alla contribuente.
3.1. Il motivo è fondato.
La sentenza impugnata evidenzia che gli oneri in esame si riferiscono a costi per personale assunto da una società americana e distaccato presso la contribuente, in virtù di apposito regolamento contrattuale, con oneri che la distaccante continuava a sostenere.
Conclude per la sussistenza del diritto della contribuente medesima alla deduzione del relativo costo, riaddebitato dalla distaccante, ai fini i.r.a.p.
Orbene, l’art. 11, secondo comma, d.lgs. n. 446 del 1997, nella formulazione applicabile al periodo di imposta in rilievo, stabilisce che, con riferimento ai costi sostenuti per personale distaccato da altro soggetto, nei confronti del soggetto che impiega il personale distaccato tali costi si considerano relativi al personale non ammessi in deduzione ai fini i.r.a.p.
La sentenza di appello, dunque, non ha fatto corretta applicazione della richiamata disposizione normativa.
4. Con il primo motivo del ricorso incidentale la contribuente lamenta la violazione e falsa applicazione dell’art. 12, quinto comma, l. n. 212 del 2000, per aver la sentenza impugnata escluso la nullità dell’atto impositivo, benché emesso a conclusione di una verifica protrattasi oltre trenta giorni, senza, tuttavia, che fosse intervenuta alcuna proroga.
4.1. Il motivo è infondato.
In tema di verifiche tributarie, la violazione del termine di permanenza degli operatori dell’Amministrazione finanziaria presso la sede del contribuente, previsto dall’art. 12, quinto comma, l. n. 212 del 2000, non determina la sopravvenuta carenza del potere di accertamento ispettivo, né l’invalidità degli atti compiuti o l’inutilizzabilità delle prove raccolte, atteso che nessuna di tali sanzioni è stata prevista dal legislatore, la cui scelta risulta razionalmente giustificata dal mancato coinvolgimento di diritti del contribuente costituzionalmente tutelati (cfr. Cass., ord., 27 aprile 2017, n. 10481; Cass. 27 gennaio 2017, n. 2055; Cass. 15 aprile 2015, n. 7584).
Correttamente, pertanto, la Commissione regionale, pur riconoscendo il mancato rispetto del termine di trenta giorni e l’assenza di proroga, ha escluso l’invalidità dell’atto impositivo emesso all’esito della verifica.
5. Con il secondo motivo del ricorso incidentale si censura la sentenza di appello per violazione dell’art. 112 c.p.c., in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, c.p., per aver omesso di pronunciarsi sul motivo di gravame incidentale avente ad oggetto la nullità/illegittimità parziale dell’avviso di accertamento a causa del mancato riscontro alla memoria presentata dalla società ai sensi dell’art. 12, settimo comma, l. n. 212 del 2000.
5.1. Il motivo è infondato.
Pur rispondendo al vero che la Corte territoriale non si è pronunciata sul motivo di ricorso avente ad oggetto la nullità dell’atto impositivo per mancato riscontro della memoria presentata ai sensi dell’art. 12, settimo comma, l. n. 212 del 2000, reiterato con l’appello incidentale, ciò non giustifica l’accoglimento del motivo, in considerazione dell’infondatezza della doglianza.
In proposito, si rammenta che, alla luce dei principi di economia processuale e di ragionevole durata del processo come costituzionalizzato nell’art. 111, comma 2, Cost., nonché di una lettura costituzionalmente orientata dell’attuale art. 384 c.p.c. ispirata a tali principi, una volta verificata l’omessa pronuncia su un motivo di gravame, la Suprema Corte può omettere la cassazione con rinvio della sentenza impugnata e decidere la causa nel merito allorquando la questione di diritto posta con quel motivo risulti infondata, di modo che la statuizione da rendere viene a confermare il dispositivo della sentenza di appello (determinando l’inutilità di un ritorno della causa in fase di merito), sempre che si tratti di questione che non richiede ulteriori accertamenti di fatto (cfr. Cass., ord., 19 aprile 2018, n. 9693; Cass. 28 giugno 2017, n. 16171; Cass., sez. un., 2 febbraio 2017, n. 2731);
Orbene, è principio consolidato, cui questo Collegio intende prestare adesione, quello per cui l’avviso di accertamento che non menzioni le osservazioni del contribuente ex art. 12, settimo comma, l. n. 212 del 2000, è valido, atteso che, da un lato, la nullità consegue solo alle irregolarità per le quali sia espressamente prevista dalla legge oppure da cui derivi una lesione di specifici diritti o garanzie tale da impedire la produzione di ogni effetto e, dall’altro lato, l’Amministrazione ha l’obbligo di valutare tali osservazioni, ma non di esplicitare detta valutazione nell’atto impositivo (cfr. Cass., ord., 31 marzo 2017, n. 8378; Cass. 24 febbraio 2016, n. 3583).
6. Con l’ultimo motivo del ricorso incidentale, proposto in via subordinata, la contribuente allega l’illegittimità della pena pecuniaria per errore incolpevole sul fatto e/o sul diritto.
6.1. Il motivo è inammissibile per difetto di soccombenza della parte sulla questione, ritenuta, implicitamente, assorbita dal giudice di appello.
7. La sentenza impugnata va, dunque, cassata in relazione ai motivi accolti, con rinvio alla Commissione tributaria regionale della Lombardia, in diversa composizione, che provvederà anche all’esame delle questioni ritenute assorbite dal giudice di appello, nonché al regolamento delle spese.
P.Q.M.
Accoglie il secondo e terzo motivo del ricorso principale e rigetta il restante; rigetta il primo e il secondo motivo del ricorso incidentale e dichiara inammissibile il restante; cassa la sentenza impugnata con riferimento ai motivi accolti e rinvia, anche per le spese, alla Commissione tributaria regionale della Lombardia, in diversa composizione.
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