CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 23 giugno 2020, n. 12294
Tributi – Importazioni – Dichiarazione doganale infedele – Falsità del certificato di origine – Sanzioni
Fatti di causa
Dalla esposizione in fatto della sentenza impugnata si evince che: l’Agenzia delle dogane aveva emesso nei confronti di R.T. s.p.a. diversi avvisi di rettifica dell’accertamento e di irrogazione delle sanzioni, avendo verificato, relativamente a diverse operazioni di importazione di partite di cavi di acciaio, l’origine cinese e non coreana delle merci importate; avverso i suddetti avvisi la contribuente aveva proposto ricorso; la Commissione tributaria provinciale di Genova aveva accolto il ricorso limitatamente alla misura della sanzione, riducendola della metà;
avverso la suddetta pronuncia la contribuente aveva proposto appello principale e l’Agenzia delle dogane appello incidentale.
La Commissione tributaria regionale ha rigettato l’appello principale della contribuente e accolto quello incidentale dell’Agenzia delle dogane, in particolare ha ritenuto che: per quanto riguardava la legittimità della pretesa, l’ufficio doganale aveva assolto all’onere probatorio su di esso gravante, tenuto conto del fatto che la prova della falsità dei certificati di origine dei prodotti derivava dagli esiti dell’attività ispettiva dell’OLAF e dal rapporto del K. Customs service, cioè dell’autorità doganale coreana; la contribuente non aveva fornito alcuna prova contraria; per quanto riguardava la misura della sanzione, non poteva dirsi sussistente il requisito della buona fede della contribuente, non avendo provveduto a compiere alcun controllo preventivo per verificare l’origine della merce. Avverso la suddetta pronuncia ha proposto ricorso la contribuente affidato a dieci motivi di censura, notificato all’Agenzia delle entrate, cui ha resistito la suddetta Agenzia con controricorso.
La contribuente ha quindi notificato successivo ricorso all’Agenzia delle dogane, affidato a dieci motivi di censura.
L’Agenzia delle dogane ha resistito depositando controricorso.
La contribuente ha, altresì, depositato memoria.
Con ordinanza del 23 gennaio 2019 la Corte ha disposto il rinvio a nuovo ruolo, disponendo l’acquisizione dei fascicoli relativi alle fasi di merito.
La contribuente ha depositato ulteriore memoria.
Ragioni della decisione
1. Sulla inammissibilità del ricorso notificato all’Agenzia delle entrate
1.1. Preliminarmente va dichiarata l’inammissibilità del ricorso proposto nei confronti dell’Agenzia delle entrate, non essendo stata parte del giudizio di merito e quindi non legittimamente evocata in giudizio.
2. Sulla eccezione di inammissibilità del ricorso proposto nei confronti dell’Agenzia delle dogane
2.1. Va quindi esaminata l’eccezione di inammissibilità del ricorso proposta dall’Agenzia delle dogane fondata sulla considerazione che, avendo la contribuente utilmente proposto ricorso nei confronti dell’Agenzia delle entrate, sì sarebbe determinata la “consumazione” della impugnazione, non potendo quindi la contribuente notificare il medesimo ricorso nei confronti di altra parte.
L’eccezione è infondata.
La questione va esaminata alla luce dei principi inerenti la tempestività della proposizione del ricorso nei confronti della “giusta parte” del giudizio, laddove sia stato prima notificato il ricorso ad una parte priva di legittimazione passiva. Questa Corte (Cass. civ. Sez. V, 13 luglio 2017, n. 17309) ha affermato il seguente principio di diritto: «La notificazione di un’impugnazione equivale (sia per la parte notificante che per la parte destinataria) alla notificazione della sentenza stessa ai fini della decorrenza del termine breve per proporre altri tipi di impugnazioni, la cui tempestività va accertata non soltanto con riguardo al termine di un anno dal deposito della pronuncia impugnata, ma anche con riferimento a quello di cui all’art. 325 c.p.c., salva l’ipotesi di sospensione del termine di impugnazione, ove prevista dalla legge».
Si evince dagli atti, e la circostanza non è in contestazione, che i ricorsi introduttivi del giudizio di primo grado erano stati proposti in data antecedente al 4 luglio 2009, data a partire dalla quale è stata modificato il termine “lungo” di impugnazione di cui all’art. 327 cod. proc. civ.
Questa Corte (Cass. civ., 27 luglio 2018, n. 19979), invero, ha precisato che, in tema di impugnazioni nel processo tributario, la modifica dell’art. 327 cod. proc. civ., introdotta dall’art. 46 della legge n. 69 del 2009 (che ha sostituito con il termine di decadenza di sei mesi dalla pubblicazione della sentenza l’originario termine annuale), è applicabile, ai sensi dell’art. 58, comma 1, ai soli giudizi instaurati dopo la sua entrata in vigore e, quindi, dal 4 luglio 2009, restando irrilevante il momento dell’instaurazione di una successiva fase o di un successivo grado di giudizio.
Pertanto, tenuto conto che la sentenza è stata depositata in data 11 ottobre 2013, il suddetto termine andava a scadere il 26 novembre 2014, per cui la notifica del primo ricorso (notificato all’Agenzia delle entrate il 10 aprile 2014) era da considerarsi tempestivo.
Facendo, quindi, applicazione del principio di diritto sopra segnalato, la notifica del suddetto ricorso ha avuto l’effetto di rendere effettiva la conoscenza, da parte del notificante, della pubblicazione della sentenza, con la conseguenza che, dal momento della notifica, ha iniziato a decorrere per il medesimo il termine “breve” per la notifica del ricorso di cui all’art. 325, comma secondo, cod. proc. civ.
Poiché il ricorso è stato notificato all’Agenzia delle dogane in data 3 giugno 2014, quindi entro il termine del 9 giugno 2014, lo stesso è stata tempestivo, sicché è priva di fondamento l’eccezione in esame.
3. Sui motivi di ricorso
3.1 Sul primo motivo di ricorso
Con il primo motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 3, cod. proc. civ., per violazione del principio comunitario dell’obbligatoria instaurazione del contraddittorio preventivo.
Il motivo è infondato.
Va, in primo luogo, osservato che la questione della violazione del contraddittorio preventivo non risulta proposta dalla ricorrente nel rispetto del principio di specificità, non risultando che la stessa era stata prospettata nei precedenti gradi di giudizio.
Va comunque ribadito il principio secondo cui, in materia di accertamento di tributi doganali, non costituisce violazione dello Statuto dei diritti del contribuente l’emissione dell’avviso di accertamento suppletivo prima della scadenza del termine di sessanta giorni previsto dalla L. 27 luglio 2002, n. 212, art. 12, comma 7, per la presentazione di osservazioni e richieste dopo il rilascio del processo verbale di chiusura delle operazioni da parte dell’organo impositore.
Infatti, la normativa sul riordino degli istituti doganali di cui al D.Lgs. 8 novembre 1990, n. 374, prevede una serie di garanzie peculiari per il contribuente (contestazione, osservazioni, reclami, controversia), sicché il sistema, complessivamente previsto, da un lato è pienamente rispettoso dei criteri dettati dallo Statuto del contribuente in virtù del principio di leale collaborazione tra amministrazione delle dogane e contribuente medesimo (Cass. 13890/08), dall’altro dà corretta esecuzione al principio comunitario secondo cui l’importo dei dazi deve essere comunicato al debitore secondo modalità appropriate e contabilizzato “non appena possibile” (art. 221 CDC; v. la novella della cit. “ex lege” n. 27 del 2012, art. 12).
Va evidenziato che, proprio con riferimento all’Iva sull’importazione, cui ha fatto riferimento la contribuente nella memoria per sostenere l’argomento relativo alla violazione del contraddittorio preventivo, la suddetta linea interpretativa, secondo questa Corte (Cass. civ. Sez. V, 6 luglio 2016, n. 13770; conf. Cass. civ. 12333/01, 24451/2013) vale anche per le contestazioni circa l’origine della merce (v. art. 65 TULD) e per le connesse violazioni in materia di Iva ( artt. 70, decreto legislativo e art. 34, T.U.L.D.).
Peraltro, fermo restando che l’ordinamento interno di questa Corte prevede un sistema che garantisce la tutela del contraddittorio preventivo nel caso di contestazione relative ai dazi e Iva sull’importazione, non è comunque stato specificato, nel motivo di ricorso in esame, nella prospettiva della c.d. prova di resistenza, quale sia stata la concreta lesione al diritto di difesa subita dalla contribuente, avendo la stessa, in sede di articolazione del motivo, solo fatto generico riferimento alla violazione del principio del contraddittorio preventivo, senza ulteriori argomenti in merito alla suddetta concreta lesione.
3.2. Con il secondo motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 3), cod. proc. civ., per violazione dei principi di riparto dell’onere della prova, di cui all’art. 2697, cod. civ., nonché per violazione del regolamento Cee n. 1073/1999, per avere ritenuto che l’Agenzia delle dogane aveva assolto al proprio onere di provare il fondamento della pretesa impositiva facendo riferimento ad una lettera di accompagnamento con la quale l’OLAF aveva trasmesso all’ufficio antifrode italiano una comunicazione ricevuta dall’autorità doganale coreana relativa ad un’indagine interna compiuta nei confronti di alcuni esportatori locali, dunque non avente valore di relazione conseguente ad una attività ispettiva volta ad accertare la reale provenienza della merce importata.
Il motivo è fondato per quanto di ragione.
La pronuncia censurata ha tenuto conto degli elementi di prova fondanti la presunzione, di cui alla pretesa impositiva, di legittimità del recupero a posteriori in quanto l’importazione della merce era avvenuta sulla base di certificati falsi, in particolare ha fatto riferimento ad un documento OLAF con il quale è stata trasmessa la nota del K. Customs Service e, correlativamente, ha ritenuto che parte ricorrente non avesse provveduto ad assolvere all’onere, su di essa gravante, di fornire la prova contraria.
Va precisato che, secondo questa Corte (Cass. civ., 23 novembre 2018, n. 30374), in tema di tributi doganali, gli accertamenti compiuti dagli organi esecutivi dell’OLAF (Commissione per la lotta antifrode), ai sensi del Reg. n. 1073 del 1999, quando vi sia motivo di dubitare dell’autenticità della documentazione relativa all’origine (luogo dove la merce è stata realizzata) e/o alla provenienza (luogo dal quale essa giunge, o dove è stata oggetto di lavorazione o trasformazione) della merce importata, per la loro formazione e per il valore di atti pubblici ad essi attribuibile (artt. 2699 – 2700 c.c.) hanno piena valenza probatoria nei procedimenti amministrativi e giudiziari; ne discende che gli stessi (allegati o richiamati) ben possono essere posti, anche da soli, a fondamento degli avvisi di accertamento per il recupero dei dazi sui quali siano state riconosciute esenzioni o riduzioni, spettando al contribuente che ne contesti il fondamento fornire la prova contraria in ordine alla sussistenza delle condizioni di applicabilità del regime agevolativo (Cass. 4997/09, 23985/08; n. 5892/2013; Cass. n. 4997/2009; da ultimo, n. 13770/2016; Cass. n. 10118/2017, n. 11441/18).
Va considerato, infatti, che, non solo il Reg. CE n. 1073 del 1999, art. 9, comma 1, riconosce efficacia probatoria privilegiata ai fatti accaduti in presenza degli ispettori, e l’art. 9, comma 2, stabilisce l’equipollenza della relazione redatta al termine delle indagini a quella redatta dagli ispettori amministrativi dello Stato membro, ma l’art. 9, comma 3 e l’art. 10, comma 1, prevedendo la trasmissione alle autorità degli Stati membri interessati, rispettivamente, di “ogni documento utile” acquisito e la comunicazione di “qualsiasi informazione” ottenuta nel corso delle indagini, inducono a ritenere l’utilizzabilità anche di altre fonti di prova emergenti dalle indagini svolte dall’organismo antifrode, e quindi anche dei verbali delle operazioni di missione (cfr. Cass. 13496/12, 5400/12, 4022/12).
Tali arresti giurisprudenziali, in considerazione del rinvio, operato in modo espresso ed inequívoco, dalla normativa eurounitaria alla normativa interna circa le regole di valutazione degli atti ispettivi dell’OLAF e la loro efficacia probatoria, devono peraltro essere coordinati con l’elaborazione giurisprudenziale di legittimità che appunto concerne gli analoghi atti dell’istruttoria tributaria regolata dal diritto nazionale e, sotto tale profilo, va evidenziato che, senza dubbio, l’atto che, per la sua tipologia, quale caratterizzata dalle forme procedimentali, più si avvicina ai rapporti dell’OLAF è il processo verbale di constatazione.
In tale contesto, si è, quindi, precisato, che (Cass. civ., 21 marzo 2019, n. 7993; Cass. civ., 24 novembre 2017, n. 28060) «In tema di accertamenti tributari, il processo verbale di constatazione assume un valore probatorio diverso a seconda della natura dei fatti da esso attestati, potendosi distinguere al riguardo un triplice livello di attendibilità: a) il verbale è assistito da fede privilegiata, ai sensi dell’art. 2700 c.c., relativamente ai fatti attestati dal pubblico ufficiale come da lui compiuti o avvenuti in sua presenza o che abbia potuto conoscere senza alcun margine di apprezzamento o di percezione sensoriale, nonché quanto alla provenienza del documento dallo stesso pubblico ufficiale ed alle dichiarazioni a lui rese; b) quanto alla veridicità sostanziale delle dichiarazioni a lui rese dalle parti o da terzi – e dunque anche del contenuto di documenti formati dalla stessa parte e/o da terzi – esso fa fede fino a prova contraria, che può essere fornita qualora la specifica indicazione delle fonti di conoscenza consenta al giudice ed alle parti l’eventuale controllo e valutazione del contenuto delle dichiarazioni; c) in mancanza della indicazione specifica dei soggetti le cui dichiarazioni vengono riportate nel verbale, esso costituisce comunque elemento di prova, che il giudice deve in ogni caso valutare, in concorso con gli altri elementi, potendo essere disatteso solo in caso di sua motivata intrinseca inattendibilità o di contrasto con altri elementi acquisiti nel giudizio, attesa la certezza, fino a querela di falso, che quei documenti sono comunque stati esaminati dall’agente verificatore».
Poste tali premesse in diritto, la ricorrente segnala e riproduce nel ricorso (vd. pag. 15 e 21 del ricorso) che il documento dell’OLAF, preso e valorizzato dal giudice del gravame, consisteva nella trasmissione di una mera comunicazione dell’autorità doganale della Repubblica di Corea relativa ad una indagine interna compiuta da queste ultime su alcuni esportatori locali, senza verificare se il suo contenuto fosse tale da configurare una relazione conseguente ad una attività ispettiva attivata dall’OLAF e senza, inoltre, accertare se la comunicazione dell’autorità doganale coreana recasse indicazioni specifiche e supportate da elementi di riscontro probatorio.
Tali considerazioni sono riscontrabili sulla base di quanto specificato dalla ricorrente nel ricorso, in quanto, come detto, l’atto su cui il giudice del gravame ha fondato la valenza probatoria della pretesa fatta valere dall’amministrazione doganale consiste in una lettera di trasmissione di una comunicazione ricevuta dall’OLAF da parte dell’autorità doganale coreana, in ordine al quale il giudice del gravame non ha provveduto ad una valutazione concreta del contenuto, alla luce della diversa valenza probatorio secondo i principi di diritto sopra indicati, in particolare se alla stessa debba attribuirsi un valore probatorio tale da comportare lo spostamento sul contribuente di fornire la prova contraria ovvero di mero elemento indiziario, da valutare alla luce di ulteriori elementi considerati nel loro complesso quadro indiziario.
Sotto tale profilo, la pronuncia censurata risulta violare i principi sopra indicati, sia con riferimento all’art. 2697, cod. civ., che del regolamento Cee n. 1073/1999.
3. Con il terzo motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 4), cod. proc. civ., per omessa pronuncia sul motivo di appello con il quale parte ricorrente aveva contestato la considerazione del giudice di primo grado che aveva ritenuto che la falsità dei certificati era dimostrata dalla circostanza che la documentazione prodotta dalla medesima doveva indurre a ritenere che la merce era stata prodotta da altro soggetto, anch’esso coreano, rispetto alla fornitrice.
4. Con il quarto motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi deH’art. 360, comma primo, n. 3), cod. proc. civ., per violazione e falsa applicazione dell’art. 132 cod. proc. civ., e dell’art. 36 del decreto legislativo n. 546/1992, per avere aderito alla decisione del giudice di primo grado.
5. Con il quinto motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 3), cod. proc. civ., per violazione e falsa applicazione del Reg. Cee n. 384/2005 e n. 1858/2005, per avere non correttamente ritenuto legittima la pretesa, con applicazione del dazio antidumping, nonostante che, nella fattispecie, le importazioni non erano state effettuate a prezzi “predatori”, ma di mercato, senza quindi comportare effetti discorsivi delle condizioni di libero mercato nell’ambito comunitario.
I motivi sono assorbiti dalle considerazioni espresse con riferimento al secondo motivo di ricorso.
6. Con il sesto motivo di ricorso si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 5), cod. proc. civ., per omesso esame di un fatto decisivo per la controversia, non avendo tenuto conto del fatto che, sulla base della documentazione prodotta dalla medesima contribuente, la Camera di commercio coreana aveva confermato la genuinità dei certificati di origine, almeno con riferimento alle operazioni compiute dal primo gennaio 2007.
II motivo è fondato.
Sulla questione relativa all’onere di prova della ricorrente il giudice del gravame si è limitato ad affermare che la stessa non aveva fornito prova contraria.
Con il presente motivo parte ricorrente lamenta la mancata considerazione della documentazione prodotta, in particolare che la stessa autorità coreana che aveva emesso i certificati di origine aveva, quantomeno per l’anno 2007, certificato la genuinità degli stessi.
Si tratta di fatto controverso certamente decisivo ai fini della decisione e sussumibile nell’ambito della nova disciplina di cui all’art. 360, comma primo, n. 59, cod. proc. civ., avendo il giudice del gravame del tutto omesso di esaminare la rilevanza della prova contraria addotta dalla ricorrente.
7. Con il settimo motivo si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 3), cod. proc. civ., per violazione e falsa applicazione dell’art. 220, comma 2, lett. b), del Reg. Cee n. 2193/1999, per avere escluso nella fattispecie la buona fede della ricorrente.
8. Con l’ottavo motivo si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 3), cod. proc. civ., per violazione e falsa applicazione dell’art. 5, comma 1, e dell’art. 6, comma 1, decreto legislativo n. 472/1997, per avere ritenuto applicabile la sanzione nonostante il fatto che nessun comportamento colposo poteva essere attribuito alla ricorrente, stante la sua condotta di buona fede.
9. Con il nono motivo si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 3), cod. proc. civ., per violazione e falsa applicazione dei principi comunitari di proporzionalità delle sanzioni e del diritto di difesa.
10. Con il decimo motivo si censura la sentenza ai sensi dell’art. 360, comma primo, n. 3), cod. proc. civ., per violazione e falsa applicazione dell’art. 1 del Protocollo della Convenzione europea sui diritti dell’uomo.
I motivi sono assorbiti dalle considerazioni espresse con riferimento al secondo motivo di ricorso.
In conclusione, è infondato il primo motivo, sono fondati il secondo e sesto motivo, assorbiti i restanti, con conseguente cassazione della sentenza e rinvio alla Commissione tributaria regionale anche per la liquidazione delle spese di lite del presente giudizio.
P.Q.M.
Accoglie il secondo e sesto motivo di ricorso, infondato il primo e assorbiti i restanti, cassa la sentenza e rinvia alla Commissione tributaria regionale della Liguria, in diversa composizione, anche per la liquidazione delle spese di lite del presente giudizio.
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