CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 23 luglio 2021, n. 21214
Professionista – Avvocato – Assistenza legale per la fase di predisposizione del bando di gara e per quella di aggiudicazione – Compenso – Determinazione
Fatti di causa
La società S.R. a P.A. s.r.I., con citazione notificata il 18.06.2010, conveniva dinanzi al Tribunale di Catania la Società A.C. s.p.a. (SAC) deducendo che, alla fine degli anni ’90, la A.S.A.C. s.r.l. – attuale SAC s.p.a.- aveva bandito una gara di evidenza pubblica per la progettazione e direzione dei lavori della nuova aerostazione.
Aveva conferito l’incarico all’avv. N. D. per ricevere assistenza legale per la fase di predisposizione del bando di gara e per quella di aggiudicazione. Aggiungeva che il professionista era stato rimunerato per la consulenza fornita, relativamente alla gara per l’affidamento della progettazione e direzione dei lavori, mentre non aveva ricevuto alcun compenso per l’assistenza prestata ai fini della predisposizione del bando di gara, per la partecipazione al seggio di gara e per la redazione del contratto di appalto.
Il 7.9.2001 l’avv. D. aveva trasmesso alla SAC la sua parcella di importo pari a £ 860.890.000 cui era seguita la nota del 9.1.2002 della società committente che invitata l’avvocato a ridurre l’importo richiesto. L’avvocato aveva quindi ridotto la parcella del 25% richiedendo € 333.405. Ciò nonostante la SAC aveva corrisposto la minore somma pari ad € 210.000 relativamente alla quale l’avvocato aveva emesso la fattura n. 129 del 26.4.2002 per “pagamento in conto proposta di parcella assistenza e stipula procedura gara aerostazione”.
A causa delle criticità nei rapporti tra conferente e professionista, quest’ultimo aveva rinunciato ai restanti incarichi conferitigli dalla SAC e nell’ottobre del 2004 aveva trasmesso alla SAC una nuova parcella di importo pari a € 1.057.611.500 relativa alle suddette prestazioni professionali. Da ciò era scaturita una lunga interlocuzione in cui era stato coinvolto anche il Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Catania, che aveva consentito una rinnovata disponibilità dell’avv. D. a svolgere altre attività per conto della SAC, confermando, comunque, la percentuale di sconto (25%) della parcella proposta. Il 20.3.2007 l’avv. D. aveva ceduto il proprio credito professionale alla società attrice che aveva agito in giudizio chiedendo che la SAC fosse condannata al pagamento della somma pari ad € 822.656,92, oltre interessi moratori di cui all’art. 5 Dlgs 231/02, dall’ 1.11.2005, a saldo dell’attività di assistenza legale svolta dal creditore cedente a favore della società SAC.
Si costituiva la SAC che contestava la fondatezza della domanda e ne chiedeva il rigetto.
Il Tribunale di Catania, con sentenza del 30 giugno 2014, in parziale accoglimento della domanda, condannava la SAC al pagamento della somma pari ad € 135.780,35 oltre a interessi legali dal 18.6.2010 al soddisfo.
Avverso tale sentenza la società S.R. a P.A. proponeva appello lamentandone l’erroneità e chiedendo l’accoglimento integrale della domanda proposta in primo grado. La SAC, costituitasi in giudizio, eccepiva preliminarmente l’inammissibilità dell’appello ex art. 348 bis c.p.c.; nel merito, lamentava l’infondatezza della impugnazione.
Proponeva appello incidentale sostenendo l’erroneità della sentenza laddove statuiva che la somma di € 210.000 sarebbe stata pagata a titolo di acconto sul maggior compenso pattuito in € 333.405,05; l’appellante incidentale sosteneva che l’importo di € 210.000 era stato oggetto di un nuovo accordo definitivo sul compenso del professionista. La SAC chiedeva, pertanto, la riforma della sentenza appellata e la condanna dell’appellante alla restituzione di quanto ricevuto in esecuzione della stessa. Rilevava, inoltre, un errore di calcolo nella determinazione, in primo grado, della somma spettante alla parte attrice.
La Corte d’Appello, con sentenza del 16 novembre 2018, rilevava che, sia l’appello principale che quello incidentale censuravano la sentenza di primo grado laddove il giudice di prime cure aveva ritenuto che tra l’avv. D. e la SAC vi era stato un accordo per la determinazione del compenso professionale in € 333.405, spettante al primo per l’assistenza legale prestata.
In particolare, secondo l’appellante nessun accordo vi sarebbe stato tra l’avv. D. e la SAC relativamente al compenso professionale spettante al primo fino al 7.9.2001.
La SAC, appellante incidentale, sosteneva che la somma pari ad € 210.000 era stata pagata all’avv. D. sulla base di un accordo verbale intervenuto con il professionista e a tacitazione di tutte le pretese creditorie.
La Corte d’Appello riteneva fondata la ricostruzione oggetto dell’appello incidentale della SAC, sulla base del tenore delle dichiarazioni testimonianze di cui il primo giudice non aveva tenuto conto. In particolare, il teste G.S. (già vicepresidente della SAC) aveva riferito di essere intervenuto personalmente per ottenere la riduzione del compenso e che in seguito alla trattativa intercorsa con l’avvocato, era stato verbalmente concordato il pagamento della complessiva somma, a saldo, pari ad € 210.000. Anche le dichiarazioni rese dai testi Vito B. (già presidente SAC) e M.M. confermavano quanto affermato dal teste S.
In particolare, il B. confermava l’accordo verbale per la riduzione del compenso, non rispettato dal professionista. La sussistenza del suddetto accordo trovava riscontro, secondo la Corte, nel contenuto della determinazione del 16.4.2002.
Sulla base di quanto esposto la Corte d’Appello accoglieva l’appello incidentale e rigettava quello principale.
Avverso tale decisione propone ricorso per Cassazione la società S.R. a P.A. s.r.l. affidandosi ad undici motivi, illustrati da memoria.
Resiste con controricorso, illustrato da memoria, la Società A.C. s.p.a. (SAC).
Ragioni della decisione
Con il primo motivo si deduce la nullità della sentenza o del procedimento, in relazione agli artt. 115, primo comma e 167 primo comma c.p.c. (ex art. 360 comma 1 n.4 c.p.c.) laddove la sentenza ha ritenuto sussistente un accordo tra la SAC ed il D. in merito ai compensi dovuti, sebbene la SAC non avesse contestato la circostanza secondo cui nessun accordo sarebbe intercorso tra le parti.
Il motivo è, innanzitutto, inammissibile e, comunque, infondato.
E’ inammissibile in quanto la ricorrente nei precedenti gradi di giudizio non ha mai dedotto che la SAC non avrebbe contestato l’inesistenza di un accordo tra l’Avv. D. e la SAC. Trattasi, pertanto, di una eccezione nuova, che comporta l’inammissibilità di questo motivo di ricorso.
Il motivo è comunque infondato. Il principio di non contestazione richiede la specifica indicazione di un fatto storico da parte dell’attore e la non contestazione specifica di tale elemento da parte del convenuto. Nel caso di specie, dal contenuto dell’atto di citazione, trascritto alle pagine 13-15, del ricorso non emerge la specifica allegazione di un fatto, eventualmente negativo, poiché l’esposizione dei fatti principali riguarda l’originaria richiesta di una parcella determinata sulla base delle tariffe degli avvocati, successivamente ridotta ad euro 333.000, applicando uno sconto del 25%, nei termini indicati nella cd prefattura.
Nell’esposizione del fatto si fa presente che la riduzione accordata sarebbe stata revocata nel caso di mancato pagamento nei termini e si prosegue esponendo l’inutile tentativo di mediazione svoltosi davanti al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Catania.
Pertanto, a fronte della mancata allegazione specifica di un fatto negativo diventa irrilevante l’esame della comparsa di costituzione la quale, nei termini trascritti dalla ricorrente (pagine 15 e seguenti) consiste in una contestazione sui criteri di determinazione della parcella, con specifico riferimento all’indebita variazione degli importi richiesti rispetto a quelli inizialmente comunicati per iscritto. Vi è poi un riferimento (circostanza non contestata) al fatto che, a fronte della richiesta dell’importo di euro 333.000, la committente aveva corrisposto il minore imposto di euro 210.000.
Con il secondo motivo si assume la violazione dell’art. 2384 comma 1 c.c. e dei principi in tema di rappresentanza delle S.p.a. (ex art. 360 comma 1, n.3 c.p.c.) laddove la Corte d’Appello ha ritenuto inefficace l’accordo stipulato dal D. con lo S., perché quest’ultimo sarebbe stato privo del potere di rappresentare la SAC.
Preliminarmente, rileva questa Corte che non si pone un problema di inammissibilità del motivo per novità della questione, come eccepito dalla controricorrente, in quanto il tema del difetto o del superamento del potere rappresentativo, da parte del preteso rappresentato e della conseguente inefficacia del contratto, integra una mera difesa, atteso che la sussistenza del potere rappresentativo in capo a chi ha speso il nome altrui è un elemento costitutivo della pretesa del terzo nei confronti del rappresentato, sicché il giudice deve tener conto della sua assenza, risultante dagli atti, anche in mancanza di una specifica richiesta di parte (Cass. n. 11377/2015).
Il motivo è, però, infondato, in quanto la determinazione del 16.04.2002 dimostra che il Consiglio di Amministrazione della SAC aveva riconosciuto il potere di rappresentanza al dott. S.. E, quindi, nell’ambito di una valutazione d’ufficio dell’elemento costitutivo della pretesa azionata nei confronti del rappresentato, la decisione del giudice di appello appare corretta.
Con il terzo motivo si lamenta la violazione dell’art. 2697 c.c. (ex art. 360 comma 1, n.3 e 4 c.p.c). Secondo la ricorrente la Corte territoriale avrebbe violato il principio dell’onere della prova avendo ritenuto integrata l’esistenza del potere al dott. S. senza che la SAC avesse assolto all’onere di prova di cui all’art. 2697 c.c.
Il motivo è infondato, atteso che la decisione della Corte d’Appello si basa su una valutazione del materiale probatorio che non è suscettibile di sindacato in sede di legittimità ove congruamente motivata. Nel caso di specie la Corte territoriale ha preso in esame il contenuto delle dichiarazioni rese dai testi esclusi in primo grado e, principalmente, le analitiche indicazioni fornite dal teste G.S., concordanti con quelle degli altri testi escussi. Ha ritenuto che la ricostruzione evincibile dalla prova testimoniale trovava conferma nell’analogo accordo contestualmente raggiunto con l’altro professionista, il notaio S., che aveva presentato, unitamente all’avvocato, la propria parcella dei compensi. Anche tale professionista si sarebbe accordato per l’importo ridotto riferito a tutta l’attività svolta. La natura di pagamento “a saldo e stralcio di quanto dovuto” troverebbe ulteriore conforto nel contenuto della determinazione del 16 aprile 2002, a firma anche del vicepresidente S., che fa esplicito riferimento all’invito “raccolto”, sia dall’avvocato D., che dal notaio S.
Appare, pertanto, assolutamente ragionevole l’argomentazione della Corte secondo cui “le superiori risultanze convergono quindi nel provare la fondatezza dell’assunto della società appellante (incidentale) in ordine al fatto che tra la stessa e l’avvocato D., nell’aprile del 2002, era intervenuto un accordo sulla determinazione in complessivi euro 210.000 del compenso spettante al professionista”.
Con il quarto e il quinto motivo, strettamente connessi, si deduce la violazione degli artt. 167 e 183 c.p.c. (ex art. 360 comma 1, n.4 c.p.c.) e dei principi in materia di diritto di difesa (ex art. 360 comma, n.4 c.p.c.). La ricorrente sostiene che la sentenza impugnata sarebbe viziata in quanto il fatto relativo all’esistenza dell’accordo sulla riduzione dei compensi richiesti dall’Avv. D. sarebbe entrato irritualmente nel processo, pregiudicando il diritto di difesa della parte ricorrente.
I motivi sono infondati in quanto l’accertamento dell’esistenza dell’accordo è il risultato di una valutazione del materiale probatorio, nei termini già indicati con riferimento al terzo motivo, non sindacabile e congruamente motivata. Con il sesto e il settimo motivo, anch’essi strettamente connessi, si assume la violazione degli artt. 115 e 116 c.p.c. poiché, secondo la ricorrente, il giudice d’appello non avrebbe valutato correttamente le prove raccolte.
Entrambi i motivi sono inammissibili. Infatti come osservato sul punto da questa Corte “l’eventuale cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle prove non legali da parte del giudice di merito non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione, non essendo inquadrabile nel paradigma dell’art. 360, comma 1, n. 5), cod. proc. civ. (che attribuisce rilievo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e presenti carattere decisivo per il giudizio), né in quello del precedente n. 4), disposizione che – dà rilievo unicamente all’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante” (Cass. Sez 3, 10 giugno 2016, n. 11892). Per quanto attiene, specificamente, alla violazione dell’art. 116 cod. proc. civ. (che sancisce -per il tramite dell’art. 132, n. 4 cod. proc. civ. il principio della libera valutazione delle prove, salva diversa previsione legale) tale evenienza ricorre solo quando il giudice di merito disattenda tale principio in assenza di una deroga normativamente prevista, ovvero, all’opposto, valuti secondo prudente apprezzamento una prova o risultanza probatoria soggetta ad un diverso regime” (Cass. Sez. VI, ordinanza del 31/08/2020, n. 18092).
Tale fattispecie non ricorre nel caso in esame, dovendosi, al contrario, ribadire che la Corte territoriale ha proceduto alla libera e ragionevole valutazione delle prove a sua disposizione in piena osservanza di quanto consentito dall’art. 116 c.p.c.
Con l’ottavo e il nono motivo, strettamente connessi, si lamenta, rispettivamente, la violazione dell’art. 167 c.p.c. (ex art. 360 comma 1, n.4 c.p.c.) e dell’art. 2697 c.c. (ex art. 360 comma 1 n.3 e 4 c.p.c.). In particolare, secondo la ricorrente, la sentenza sarebbe errata, in quanto tra il professionista e la SAC non sarebbe stato stipulato un accordo, ma da parte del creditore D. vi sarebbe stata una remissione ex art. 1236 c.c.
Entrambi i motivi sono inammissibili in quanto si prospetta in sede di giudizio di legittimità una nuova ricostruzione dei fatti e una diversa interpretazione dei documenti forniti.
Infine, non ricorre la violazione dell’art. 2697 c.c. in quanto eventuali errori concernenti la valutazione della prova, riguardano la violazione della norma che regola il riparto dell’onere probatorio ex art. 2697 c.c. atteso che “la violazione dell’art. 2697 c.c. si configura se il giudice di merito applica la regola di giudizio fondata sull’onere della prova in modo erroneo, cioè attribuendo l’onus probandi a una parte diversa da quella che ne era onerata secondo le regole di scomposizione della fattispecie basate sulla differenza fra fatti costituivi ed eccezioni, mentre detta violazione non si può ravvisare nella mera circostanza che il giudice abbia valutato le prove proposte dalle parti attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, essendo tale attività consentita dal paradigma dell’art. 116 c.p.c., che non a caso è rubricato alla “valutazione delle prove” (Cass. SU, n. 16598 del 05/08/2016, in motivazione).
Con il decimo motivo si deduce la violazione dell’art. 1967 c.c. (ex art. 360 comma 1, n.3 e 4 c.p.c.). Secondo la ricorrente, infatti, l’accordo intervenuto tra le parti costituirebbe una transazione. Anche tale motivo è inammissibile poiché, solo in sede di legittimità, viene prospettata una nuova ricostruzione dei fatti, avendo parte ricorrente omesso di dimostrare di avere sottoposto ai giudici di merito tale questione attraverso la trascrizione, allegazione o localizzazione dei relativi scritti difensivi ovvero dei corrispondenti motivi di appello.
Con l’undicesimo motivo si lamenta la violazione dell’art. 58 del R.D.L. 27 novembre 1933 n.1578, dell’art. 24 della L. 13.6.1942 n.794 e dell’art.4 del D.M. 5 ottobre 1994 n.585 (ex art 360 comma 1 n.3 c.p.c.). Il giudice di appello avrebbe erroneamente determinato la misura del compenso prescindendo dalle tariffe professionali sulla base del falso presupposto dell’esistenza di un accordo verbale sulla determinazione complessiva del compenso. Tale accordo sarebbe comunque nullo perché inferiore ai minimi tariffari e costituirebbe violazione del principio di inderogabilità degli stessi. La questione sarebbe stata sottoposta all’attenzione della Corte catanese anche in sede di memoria di replica, ribadendo che “gli onorari minimi stabiliti per le prestazioni degli avvocati sono inderogabili. Ogni convenzione contraria e nulla”.
A prescindere dalla novità della questione (introdotta in sede di memoria di replica, di cui si trascrive un passaggio scarsamente significativo) e dalla violazione dell’art. 366 n. 6 c.p.c, il motivo è infondato poiché il criterio relativo alla determinazione tariffaria costituisce un parametro residuale rispetto a quello della determinazione pattizia del compenso. Questa Corte (Cass. N. 7904/2020; Cass. 21482/2018; Cass. 24/06/2013, n. 15786), ha affermato il condivisibile principio secondo cui il compenso per prestazioni professionali va determinato in base alla tariffa e adeguato all’importanza dell’opera solo nel caso in cui esso non sia stato liberamente pattuito, in quanto l’art. 2233 c.c. pone una garanzia di carattere preferenziale tra i vari criteri di determinazione del compenso, attribuendo rilevanza, in primo luogo alla convenzione che sia intervenuta fra le parti e poi, solo in mancanza di quest’ultima, e in ordine successivo, alle tariffe e agli usi e, infine, alla determinazione del giudice, mentre non operano i criteri di cui all’art. 36 Cost., comma 1, applicabili solo ai rapporti di lavoro subordinato. Il motivo è, altresì, infondato, poiché l’attività professionale cui si riferisce la pretesa fatta valere dalla società cessionaria, odierna ricorrente, non rientra tra quelle specificamente disciplinate dalle tariffe. “Le tariffe professionali degli avvocati sono applicabili solo per quelle attività tecniche, o comunque collegate con prestazioni di carattere tecnico, che siano considerate nella tariffa, oggettivamente proprie della professione legale in quanto specificamente riferite alla consulenza o assistenza delle parti in affari giudiziari o extragiudiziari, e non possono essere, pertanto, applicate, solo perché rese da un professionista iscritto all’albo, alle prestazioni svolte nell’ambito di una commissione mista, i cui atti siano imputabili esclusivamente all’organo collegiale” (Cass., Sez. II, sentenza 11/05/2016, n. 9659; Cass. Sez. 1, Sentenza n. 2966 del 10/02/2014; Cass. Sez. 1, Sentenza n. 27919 del 13/12/2013). E’ dunque corretta la decisione della Corte territoriale laddove ha ritenuto insussistenti le violazioni prospettate dalla ricorrente nel presente motivo di ricorso proprio in ragione del fatto che il compenso era riferibile all’attività svolta quale componente della commissione del seggio di gara e tale profilo non è adeguatamente contrastato in questa sede.
Ne consegue che il ricorso deve essere rigettato; le spese del presente giudizio di cassazione – liquidate nella misura indicata in dispositivo – seguono la soccombenza. Va dato atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, se dovuto, da parte del ricorrente, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. 30 maggio 2002 n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, in misura pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13 (Cass., sez. un., 20/02/2020, n. 4315), evidenziandosi che il presupposto dell’insorgenza di tale obbligo non è collegato alla condanna alle spese, ma al fatto oggettivo del rigetto integrale o della definizione in rito, negativa per l’impugnante, del gravame (v. Cass. 13 maggio 2014, n. 10306).
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese in favore della controricorrente, liquidandole in € 10.200,00 per compensi, oltre alle spese forfettarie nella misura del 15 per cento, agli esborsi liquidati in euro 200,00 ed agli accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 -quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 -bis dello stesso art. 13, se dovuto.
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