CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 23 maggio 2019, n. 14055
Licenziamento collettivo – Accordo sindacale – Trasformazione dei rapporti di lavoro a part-time – Possibilità di adibire personale anche a mansioni inferiori – Rifiuto di aderire alle proposte formulate
Fatti di causa
1. La Corte di appello di Catania ha confermato la sentenza del Tribunale della stessa città che aveva rigettato l’opposizione di F. R. e confermato la legittimità del licenziamento intimatole in data 7 maggio 2012 dalla datrice di lavoro A. s.p.a. all’esito della procedura di mobilità definita in data 4 aprile 2012.
2. Il giudice del reclamo ha accertato in fatto che, per effetto della chiusura del punto vendita presso la stazione di Catania, la società aveva avviato una procedura di licenziamento collettivo di nove lavoratori a tempo indeterminato nella Provincia, due con profilo di barista/pizzeria, uno con profilo di impiegato amministrativo/quattro con profilo di barista e due con profilo di barista cassiere. Nella comunicazione preventiva si era quindi indicata, tra gli altri, anche un’unità con profilo di impiegato amministrativo. A seguito di mancato accordo aziendale la procedura era proseguita avanti all’ufficio provinciale del lavoro di Catania e il 4 aprile 2012 era stato raggiunto un accordo in sede sindacale con il quale le parti, al fine di evitare i licenziamenti avevano convenuto la trasformazione dei rapporti di lavoro a part-time (con riduzione annuale del 12,50%) con possibilità di adibire personale anche a mansioni inferiori, ferma la prevalenza delle mansioni proprie di inquadramento. Solo con riguardo agli impiegati amministrativi era prevista la possibilità di adibirli stabilmente a mansioni inferiori, fermo restando l’inquadramento e la retribuzione in godimento e la possibilità di restituire alle mansioni spettanti in caso di mutamento del mercato. Inoltre la società si era riservata, per il caso di mancato raggiungimento della riduzione dell’orario stabilità a 240 ore conseguente alla mancata accettazione delle modifiche concordate, la possibilità di individuare gli esuberi tenendo conto delle esigenze organizzative e produttive ed attribuendo un punteggio aggiuntivo ai lavoratori più anziani ed a quelli con maggiori carichi di famiglia. A fronte di tale accordo, tuttavia, la R. non accettò le modifiche proposte mentre l’altra impiegata amministrativa consentì sia al part-time che all’adibizione a mansioni diverse anche inferiori. Tanto premesso il giudice di appello ha osservato che la comunicazione preventiva aveva riguardato da subito l’unità amministrativa e che l’accordo aveva dato atto che a Catania ne era necessaria una sola sicché l’altra doveva essere adibita a mansioni inferiori (fermo l’inquadramento e la retribuzione). Ha quindi evidenziato che il controllo demandato al giudice era limitato al rispetto della procedura e che non potevano essere sindacate le ragioni che la società datrice aveva posto a fondamento delle scelte operate. Ha ritenuto irrilevante, ai fini della validità della procedura, la circostanza che per alcuni lavoratori fosse stato conservato un regime di tempo pieno.
Ha accertato che la R. aveva rifiutato sia la proposta di trasformazione del contratto in part-time con adibizione alle mansioni di cassiera sia quella di assegnazione in una sede di una città diversa ad uguali mansioni rispetto a quelle già rivestite. Nel rilevare che la R. non aveva in nessun modo censurato le modalità di individuazione dell’impiegata amministrativa da demansionare, il giudice di appello ha evidenziato che la lavoratrice si era resa disponibile solo a modificare il suo rapporto da tempo pieno a part-time e, così, aveva rifiutato, di fatto, entrambe le proposte che le erano state formulate.
3. Per la cassazione della sentenza ricorre F. R. che articola cinque motivi ai quali resiste la L. F. S. s.r.l. già A. s.p.a. che ha depositato memoria illustrativa ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ..
RAGIONI DELLA DECISIONE
4. Con il primo motivo di ricorso è denunciata la violazione, in relazione all’art. 360 primo comma n. 3 cod. proc. civ., dell’art. 5 della legge n. 223 del 23 luglio 1991.
4.1. La ricorrente deduce che erroneamente la Corte territoriale avrebbe ritenuto legittimo il licenziamento e corretta la procedura di messa in mobilità, di individuazione della platea dei lavoratori da licenziare e dei criteri di scelta adottati.
Espone la R. di aver lavorato all’interno del punto vendita dell’Aeroporto di Catania che non era stato interessato dalla crisi e che, anzi, aveva registrato una espansione del fatturato. Sostiene che la procedura avrebbe dovuto interessare solo l’unità produttiva in crisi, sita presso la stazione ferroviaria, e che diversamente sarebbe mancato, e perciò mancava, il necessario nesso di causalità diretta tra la crisi ed il ridimensionamento del personale. Sottolinea che dei nove lavoratori coinvolti era stata licenziata solo la R. e che, non a caso, nella lettera di licenziamento si era fatto riferimento anche ad un giustificato motivo oggettivo. Sostiene quindi che non sussistevano i presupposti per il licenziamento collettivo e che era onere del datore di lavoro provare il motivo per il quale la scelta era caduta sui dipendenti dei punti vendita dell’aeroporto.
5. Il motivo è prima ancora che infondato inammissibile in quanto ripropone a questa Corte censure che investono la ricostruzione dei fatti, già esaminate dal giudice di merito, senza precisare in che modo la norma denunciata sarebbe stata in concreto violata. Il giudice di appello si è attenuto ai principi ripetutamente affermati da questa Corte che, in tema di licenziamento collettivo per riduzione di personale, ha più volte ribadito che qualora il progetto di ristrutturazione si riferisca in modo esclusivo ad un’unità produttiva, le esigenze di cui all’art. 5, comma 1, della l. n. 223 del 1991, riferite al complesso aziendale, possono costituire criterio esclusivo nella determinazione della platea dei lavoratori da licenziare, sempre che il datore indichi nella comunicazione ex art. 4, comma 3, della l. n. 223 citata, sia le ragioni che limitino i licenziamenti ai dipendenti dell’unità o settore in questione, sia le ragioni per cui non ritenga di ovviarvi con il trasferimento ad unità produttive vicine, ciò al fine di consentire alle organizzazioni sindacali di verificare l’effettiva necessità dei programmati licenziamenti (cfr. Cass. 22/02/2019 n. 5373, 12/09/2018 n. 22178, 09/03/2015 n. 4678 e 12/01/2015 n. 203). Tanto premesso nel caso in esame la Corte di appello ha accertato che l’esigenza organizzativa che aveva determinato la ristrutturazione aziendale, pur scaturita dalla chiusura del punto vendita sito presso la Stazione di Catania, aveva da subito comportato l’esigenza di ridurre le unità amministrative in servizio nella provincia. Ha inoltre evidenziato che tali ragioni erano state esplicitate sin dalla comunicazione ex art. 4 con la quale si era aperta la procedura e che su tali premesse era stato raggiunto poi l’accordo con le organizzazioni sindacali. Si tratta, per quanto detto, di ricostruzione che non incorre nella violazione di legge denunciata con la quale si pretenderebbe una diversa e non consentita ricostruzione dei fatti accertati per arrivare a dimostrare l’assenza di una nesso di causalità tra il licenziamento impugnato e la crisi aziendale che invece è stato positivamente accertato dai giudici di merito e non può qui essere rivisto.
6. Il secondo motivo di ricorso, con il quale viene censurata la sentenza per avere, in violazione dell’art. 4 comma 11, degli artt. 5 e 24 della legge n. 223 del 1991 e degli artt. 1175 e 1375 Cod. Civ., erroneamente escluso l’esistenza di una discriminazione in danno della R. è inammissibile.
6.1. Deduce la ricorrente che la Corte di appello non avrebbe tenuto conto del fatto che a tutti i lavoratori interessati dalla riorganizzazione aziendale era stata proposta una piccola riduzione di orario e la mera possibilità di essere adibiti a mansioni inferiori mentre alla R. era stata offerta solo una posizione lavorativa che comportava il suo demansionamento. Rammenta di aver inutilmente chiesto di provare con dei testi una serie di circostanze che avrebbero palesato l’insussistenza dei presupposti della procedura e, conseguentemente, la discriminatorietà del comportamento tenuto nei suoi confronti.
6.2. Va tuttavia rilevato che la Corte territoriale ha puntualmente verificato il rispetto della procedura e la mancanza di elementi che, anche in via presuntiva, deponessero nel senso della avvenuta discriminazione. Ha verificato che l’altra impiegata amministrativa aveva accettato la proposta di riduzione dell’orario con contestuale possibilità di mutamento delle mansioni ed adibizione a mansioni inferiori, accertando che, al contrario, la ricorrente si era limitata ad aderire ad una mera riduzione dell’orario. In sostanza il giudice di appello, in esito ad un’accurata ricostruzione dei fatti, ha accertato che diversamente dagli altri lavoratori pure coinvolti nella riorganizzazione la R. non aveva aderito alle proposte formulate quali risultanti dall’accordo ed ha ritenuto, in esito ad una valutazione di detti fatti e nell’esercizio del potere di ricostruzione della fattispecie che gli è proprio, che tale condotta complessivamente valutata integrava un rifiuto di aderire alle proposte formulate e legittimava la risoluzione del rapporto di lavoro.
7. Il terzo motivo di ricorso – con il quale è dedotta la violazione degli artt. 115, 116, 202 e 420 Cod. Proc. Civ. per non essere state, immotivatamente, ammesse le prove articolate che, ad avviso della ricorrente, avrebbero dimostrato la denunciata discriminazione – è generico poiché non riproduce il contenuto della prova testimoniale articolata, non ammessa ed asseritamente concludente e decisiva al fine di pervenire a soluzioni diverse da quelle raggiunte nell’impugnata sentenza (cfr. Cass. 19/03/2007 n. 6440 e tra le altre più recentemente Cass. 30/07/2010 n. 17915, 31/07/2012 n. 13677 e 13/11/2017 n. 26763).
8. Del pari è infondato il quarto motivo con il quale è denunciata la violazione dell’art. 3 della legge n. 604 del 1966 ed il vizio di motivazione ai sensi dell’art. 360 primo comma nn. 3 e 5 cod. proc. civ.. Va premesso che la censura – con la quale ci si duole della irritualità del licenziamento nato come licenziamento collettivo e poi intimato alla sola R. in relazione alla necessità di procedere alla riduzione di personale – nella sostanza ribadisce tautologicamente ed in maniera estremamente generica che, per effetto di tale doppia motivazione, il provvedimento che risolve il rapporto sarebbe irrituale e perciò illegittimo in quanto totalmente immotivato ma non considera che, come ritenuto da questa Corte, l’esigenza, derivante da ragioni inerenti all’attività produttiva, di ridurre di una o più unità il numero dei dipendenti dell’azienda, se non dà luogo ad una ipotesi di licenziamento collettivo, regolata dalla legge 23 luglio 1991, n. 223 (la cui applicabilità è riservata a fattispecie specificamente individuate), può di per sè concretare un giustificato motivo obiettivo di licenziamento individuale, la cui legittimità dipende, tuttavia, dalla ulteriore condizione della comprovata impossibilità di utilizzare “aliunde” il lavoratore licenziato, ovvero dal rispetto delle regole di correttezza di cui all’art. 1175 cod. civ. nella scelta del lavoratore licenziato fra più lavoratori occupati in posizione di piena fungibilità (cfr. Cass. 11/06/2004 n. 11124) e la Corte di appello ha accertato che era stata offerta la prova della sussistenza delle circostanze di fatto da cui era sorta l’esigenza di ridurre il personale e del tentativo di ricollocare la lavoratrice.
9. L’ultimo motivo di ricorso che investe la statuizione sulle spese non può essere accolto da un canto perché essendo stata confermata l’integrale soccombenza della lavoratrice non sussistono ragioni per mutare la statuizione conforme ai principi dettati dall’art. 91 cod. proc. civ..
10. In conclusione il ricorso deve essere rigettato. Le spese del giudizio, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza. Ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater del D.P.R. n. 115 del 2002 va dato atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dell’art. 13 comma 1-bis del citato D.P.R..
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità che si liquidano in € 4.500,00 per compensi professionali, € 200,00 per esborsi, 15% per spese forfetarie oltre agli accessori dovuti per legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater del D.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma dell’art. 13 comma 1-bis del citato D.P.R..
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