CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 23 novembre 2021, n. 36362

Tributi – Accertamento – Reddito d’impresa – Costi per lavoro dipendente relativi a somme erogate a soci ed amministratori – Deducibilità – Esclusione

Fatti di causa

1. La Commissione tributaria regionale della Sardegna accoglieva parzialmente l’appello presentato dalla C.S.C. a r.l. avverso la sentenza della Commissione tributaria provinciale di Cagliari (n.129/2/2012), che aveva rigettato sia il ricorso presentato dalla società contro l’avviso di accertamento emesso nei suoi confronti, ai fini Ires, per l’anno 2006, sia i ricorsi presentati dal A.S. e V.R., soci ed amministratori della società, contro il silenzio rifiuto formatosi sulle rispettive istanze di rimborso Irpef, per il medesimo anno. In particolare, per quel che ancora qui rileva, il giudice d’appello annullava il rilievo n. 8 dell’avviso di accertamento, dichiarando inerenti e deducibili i compensi da lavoro corrisposti dalla società ai soci S. e R.

Per la Commissione regionale sussisteva il requisito della inerenza dei costi, trattandosi di compensi erogati dalla società ai soci per le operazioni di ordinaria e straordinaria amministrazione prestate a favore della società di appartenenza.

2. Avverso tale sentenza propone ricorso per cassazione l’Agenzia delle entrate.

3. La C.S.C. ha depositato “atto di costituzione e procura speciale”, al fine di “partecipare alla discussione orale ai sensi dell’art. 370 c.p.c.”.

4. Restano intimati i soci V.R. e A.S..

Ragioni della decisione

1. Anzitutto, si rileva che i difensori della società cooperativa resistente hanno rinunciato al mandato difensivo in data 20 luglio 2020, provvedendo anche alla comunicazione telematica della rinuncia alla società.

Tuttavia, per questa Corte, per effetto del principio della cosiddetta “perpetuatio” dell’ufficio di difensore (di cui è espressione l’art. 85 c.p.c.), nessuna efficacia può dispiegare, nell’ambito del giudizio di cassazione (oltretutto caratterizzato da uno svolgimento per impulso d’ufficio), la sopravvenuta rinuncia che il difensore del ricorrente abbia comunicato alla Corte prima dell’udienza di discussione già fissata (Cass., sez. 6-1, 8 novembre 2017, n. 26429; Cass., sez. 3, 14 ottobre 2021, n. 28004; Cass., sez. 6-1, 23 giugno 2020, n. 12249).

1.1. Con un unico motivo di impugnazione l’Agenzia delle entrate deduce la “violazione e falsa applicazione dell’art. 109, quinto comma, del d.P.R. n. 917 del 1986, nonché dell’art. 2697 c.c., in relazione all’art. 360 n. 3 c.p.c.”, in quanto l’Ufficio aveva contestato, da un lato, che risultava mancante il vincolo di subordinazione tra datore di lavoro e dipendente, godendo A.S. di autonomia decisionale, mentre V.R. era presidente del consiglio di amministrazione della società, non essendo quindi ammessa la contemporanea presenza dell’attività di lavoro subordinato; dall’altro che mancava il requisito della diversità delle mansioni tra il soggetto amministratore e il soggetto che assume la veste di lavoratore subordinato. Il giudice di appello, invece, si è limitato ad affermare l’inerenza dei costi, senza preoccuparsi della diversità o meno delle mansioni svolte nella duplice qualità di amministratori e lavoratori subordinati.

2. Il motivo è fondato.

2.1. Invero, pacifici sono i fatti di causa; l’Agenzia delle entrate ha recuperato a tassazione nei confronti della società le spese sostenute dalla stessa nei confronti dei soci ed amministratori V.R. e A.S., a titolo di lavoro subordinato, in assenza delle caratteristiche proprie di tale tipologia di rapporto, quali il potere direttivo, gerarchico e disciplinare.

In particolare, per l’Agenzia delle entrate, con riferimento al socio ed amministratore, componente del consiglio di amministrazione della società contribuente C.S.C., A.S., questi godeva di autonomia decisionale e, nello svolgimento delle sue mansioni, non rispondeva del suo operato ad alcuno superiore gerarchico.

Quanto a V.R., era presidente del consiglio di amministrazione, sicché essendo munito della rappresentanza generale della società, non era ammessa la contemporanea presenza dell’attività di lavoro subordinato, poiché il potere di rappresentanza equivaleva al potere di controllo, con la conseguente incompatibilità delle due cariche.

Pertanto, a fronte della ripresa fiscale n. 8, per “indebita deduzione di costi non inerenti”, per “stipendi e contributi”, per euro 195.368,26, quale quota indeducibile, riferita al saldo contabile di euro 536.200,76, veniva contestata alla società, ai fini Ires, l’erronea deducibilità della somma sopra riportata.

Pertanto, i due soci ed amministratori, oltre al compenso quali componenti del consiglio di amministrazione, e V.R., quale presidente del consiglio di amministrazione, hanno percepito dalla società anche compensi da lavoro dipendente. Nell’anno 2006 la società ha erogato compensi ai componenti del consiglio di amministrazione per un importo complessivo pari ad euro 41.320,50.

I due soci ed amministratori, dopo che la società da loro amministrata aveva ricevuto l’avviso di accertamento con riferimento all’Ires, per indeducibilità dei costi relativi al loro rapporto di lavoro, hanno chiesto il rimborso delle imposte versate per i loro rapporti di lavoro subordinato, ai fini Irpef. Avverso il silenzio dell’Agenzia hanno, quindi, presentato ricorso dinanzi alla Commissione tributaria, dolendosi della “doppia imposizione”, sia con riferimento alla indeducibilità dei costi da lavoro dipendente ai fini Ires, sia per il pagamento delle imposte relative al loro rapporto di lavoro, ai fini Irpef.

3. Il giudice d’appello ha accolto esclusivamente la ripresa fiscale n. 8, annullandola, relativa alla indebita deduzione di costi non inerenti, ritenendo, invece, sussistente l’inerenza. Per la Commissione regionale avevano errato sia la società che l’Agenzia, in quanto la società avrebbe dovuto inquadrare i compensi dei soci ed amministratori, non come retribuzioni per lavoro dipendente, ma come corrispettivi per lavoro autonomo, mentre l’Ufficio, pur potendo sanzionare e rettificare un assoggettamento fiscale di tali compensi non corretto, tuttavia non avrebbe potuto considerarli non inerenti, in quanto l’inerenza doveva essere riconosciuta in ragione del rapporto di dipendenza funzionale, intesa quale collaborazione tecnica fra il socio e la società di appartenenza.

4. La sentenza del giudice d’appello ha errato nell’applicazione dei principi giurisprudenziali di legittimità in materia, con riferimento alla possibilità del socio amministratore di svolgere anche, in parallelo, una attività di lavoro subordinato.

4.1. Invero, per questa Corte è del tutto compatibile la posizione di socio di società di capitali con quella di amministratore della stessa, tranne le ipotesi di amministratore unico, presidente del consiglio di amministratore o di socio “sovrano” (Cass., sez. 5, 28 aprile 2021, n. 11161).

Si è, dunque, affermato che la qualità di socio ed amministratore di una società di capitali composta da due soli soci, entrambi amministratori, è compatibile con la qualifica di lavoratore subordinato, anche a livello dirigenziale, ove il vincolo della subordinazione risulti da un concreto assoggettamento del socio – dirigente alle direttive ed al controllo dell’organo collegiale amministrativo formato dai medesimi due soci (Cass., sez. L, 21 maggio 2002, n. 7465; Cass., 21 gennaio 1993, n. 706; Cass., sez. L, 25 maggio 1991, n. 5944; Cass., sez. L, 13 novembre 1989, n. 4781).

La qualità di amministratore di una società di capitali è, dunque, compatibile con la qualifica di lavoratore subordinato della stessa, ove sia accertato in concreto lo svolgimento di mansioni diverse da quelle proprie della carica sociale rivestita, con l’assoggettamento ad effettivo potere di supremazia gerarchica e disciplinare (Cass., sez. L, 26 ottobre 1996, n. 9368; Cass., 25 maggio 1991, n. 5944; Cass., sez. L, 11 novembre 1993, n. 11119; anche Cass., sez. 5, 28 aprile 2021, n. 11161). Pertanto, potendo in astratto coesistere nella stessa persona la posizione di socio di una società e quella di lavoratore subordinato della medesima, pure un socio, componente del consiglio di amministrazione di una società, può essere legato a quest’ultima da un rapporto di lavoro subordinato, purché appunto risulti in concreto assoggettato ad un potere disciplinare e di controllo esercitato dagli altri componenti dell’organo cui egli appartiene; mentre, in mancanza di siffatto assoggettamento, l’osservanza di un determinato orario di lavoro e la percezione di una regolare retribuzione non sono sufficienti da sole a far ritenere la sussistenza del rapporto di lavoro subordinato (Cass., sez.L, 15 febbraio 1985, n. 1316).

Il rapporto organico che lega il socio o l’amministratore ad una società di capitali non esclude la configurabilità di un rapporto di lavoro subordinato a contenuto dirigenziale tra il primo e la seconda (Cass., sez L., 3 dicembre 1998, n. 12283).

Solo, quindi, nel caso di amministratore unico di società di capitali datrice di lavoro non è configurabile il vincolo di subordinazione perché mancherebbe la soggezione del prestatore ad un potere sovraordinato di controllo e disciplina, escluso dalla immedesimazione in unico soggetto della veste di esecutore della volontà sociale e di quella di unico organo competente ad esprimerla (Cass., sez. L, 29 maggio 1998, n. 5352; Cass., sez. L, 5 aprile 1990, n. 2823; anche Cass., sez. 5, 28 aprile 2021, n. 11161).

4.2.Le medesime considerazioni valgono anche in caso di pagamento dei contributi previdenziali, in quanto si è affermato che, qualora il socio amministratore di una società a responsabilità limitata partecipi al lavoro aziendale con carattere di abitualità e prevalenza, ha l’obbligo di iscrizione alla gestione commercianti, mentre, qualora si limiti ad esercitare l’attività di amministratore, deve essere iscritto alla sola gestione separata, operando le due attività su piani giuridici differenti; ciò in quanto la prima è diretta alla concreta realizzazione dello scopo sociale, attraverso il concorso dell’opera prestata dai soci e dagli altri lavoratori, e la seconda alla esecuzione del contratto di società sulla base di una relazione di immedesimazione organica volta, a seconda della concreta delega, alla partecipazione alle attività di gestione, di impulso e di rappresentanza (Cass., sez. L, 2 maggio 2018, n. 10426; con richiamo a Cass., sez.un., n. 17076/2011; Cass., sez. 6-L, 3 aprile 2017, n. 8613; Cass., sez, L, 17 gennaio 2008, n. 854; Cass., sez.un., 12 febbraio 2010, n. 3240). Si è, infatti, osservato che occorre distinguere tra prestazione di lavoro ed attività di amministratore, anche quando la prima attività si esplichi al livello più elevato dell’organizzazione e della direzione. Si tratta di due attività che rimangono su piani giuridici differenti, dal momento che l’attività di amministratore si basa su una relazione di immedesimazione organica o al limite di mandato ex art. 2260 c.c.; sicché comporta, a seconda della concreta delega, la partecipazione ad un’attività di gestione, l’espletamento di un’attività di impulso e di rappresentanza che è rivolta ad eseguire il contratto di società assicurando il funzionamento dell’organismo sociale e, sotto certi aspetti, sua stessa esistenza. L’attività lavorativa, invece, è rivolta alla concreta realizzazione dello scopo sociale, al suo raggiungimento operativo, attraverso il concorso dell’opera prestata a favore della società dai soci e dagli altri lavoratori subordinati o autonomi.

4.3. Si è, poi, ritenuto che, in tema di imposte sui redditi e con riferimento alla determinazione del reddito d’impresa, l’art. 62 del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917 (vigente fino al 31 dicembre 2003, ora art. 60 del Tuir), il quale esclude l’ammissibilità di deduzioni a titolo di compenso per il lavoro prestato o l’opera svolta dall’imprenditore, limitando la deducibilità delle spese per prestazioni di lavoro a quelle sostenute per lavoro dipendente e per compensi spettanti agli amministratori di società di persone, non consente di dedurre dall’imponibile il compenso per il lavoro prestato e l’opera svolta dall’amministratore unico di società di capitali; la posizione di quest’ultimo è infatti equiparabile, sotto il profilo giuridico, a quella dell’imprenditore, non essendo individuabile, in relazione alla sua attività gestoria, la formazione di una volontà imprenditoriale distinta da quella della società, e non ricorrendo quindi l’assoggettamento all’altrui potere direttivo, di controllo e disciplinare, che costituisce il requisito tipico della subordinazione (Cass., sez. 5, 13 novembre 2006, n. 24188).

Si è anche chiarito che, in tema di rapporto di lavoro alle dipendenze di una società di capitali, come non sussiste alcuna incompatibilità di principio tra la qualità di componente (non unico) dell’organo di gestione e quella di lavoratore subordinato alle dipendenze della società, allo stesso modo non vi sono ostacoli alla configurabilità di un siffatto rapporto fra la società e il socio titolare della maggioranza del capitale sociale, neppure quando la percentuale del capitale detenuto corrisponda a quella minima prevista per la validità delle deliberazioni dell’assemblea, attesa la sostanziale estraneità dell’organo assembleare all’esercizio del potere gestorio; ferma restando, comunque, la non configurabilità di un rapporto di lavoro con la società quando il socio (a prescindere dalla percentuale di capitale posseduto e dalla formale investitura a componente dell’organo amministrativo) abbia di fatto assunto, nell’ambito della società, l’effettiva ed esclusiva titolarità dei poteri di gestione (Cass., sez. L, 17 novembre 2004, n. 21759).

La qualità di socio, anche “maggioritario”, di una società di capitali, non è, allora, di per sé di ostacolo alla sussistenza di un rapporto di lavoro subordinato tra socio e società, allorché possa in concreto ravvisarsi il vincolo di subordinazione, almeno potenziale, tra il socio medesimo e l’organo societario preposto all’amministrazione, vincolo che in generale è da escludere unicamente nelle ipotesi di socio “amministratore unico”, o di socio “unico azionista” o di “socio sovrano” (Cass., sez. L, 19 maggio 1987, n. 4586).

5. Pertanto, nella specie, poiché V.R. ricopriva l’incarico di presidente del consiglio di amministrazione della società, va del tutto esclusa, limitatamente alla sua posizione, la possibilità di svolgere un’attività di lavoro subordinato in favore della stessa società.

Inoltre, con riferimento al socio A.S., anche componente del consiglio di amministrazione, il giudice d’appello avrebbe dovuto verificare in concreto l’esistenza di un parallelo rapporto di lavoro subordinato, fondato sulla esistenza o meno del potere direttivo, gerarchico e disciplinare nei suoi confronti. Inoltre, per questa Corte la qualità di amministratore di una società di capitali è compatibile con la qualifica di lavoratore subordinato della medesima solo ove sia accertata l’attribuzione di mansioni diverse dalle funzioni proprie della carica sociale rivestita. Nell’ipotesi in cui la suddetta diversità non sussista e si verifichi l’attribuzione soltanto delle funzioni proprie del rapporto organico la nullità del rapporto di lavoro avente ad oggetto tali funzioni non esclude il diritto al compenso eventualmente pattuito in favore degli amministratori della società (Cass., sez. L, 12 gennaio 2002, n. 329), con la ulteriore precisazione che, in caso di svolgimento di mansioni identiche, quindi quelle proprie della carica di amministratore, non vi è alcuna possibilità di deducibilità dei costi da attività di lavoro subordinato (Cass., 11 novembre 1993, n. 11119). il giudice del rinvio, dunque, dovrà anche accertare se le prestazioni lavorative espletate da A.S. siano diverse o meno dall’attività svolta quale componente del consiglio di amministrazione.

6. La sentenza impugnata deve, quindi, essere cassata, con rinvio alla Commissione tributaria regionale della Sardegna, in diversa composizione, che si adeguerà al seguente principio di diritto : “In tema di imposte sui redditi sussiste l’assoluta incompatibilità tra la qualità di lavoratore dipendente di una società di capitali e la carica di presidenza del consiglio di amministrazione o di amministratore unico della stessa, in quanto il cumulo nella stessa persona dei poteri di rappresentanza dell’ente sociale, di direzione, di controllo e di disciplina rende impossibile quella diversificazione delle parti del rapporto di lavoro e delle relative distinte attribuzioni che è necessaria perché sia riscontrabile l’essenziale ed indefettibile elemento della subordinazione, con conseguente indeducibilità dal reddito della società del relativo costo da lavoro dipendente. La compatibilità della qualità di socio amministratore, membro del consiglio di amministrazione di una società di capitali, con quella di lavoratore dipendente della stessa società, ai fini della deducibilità del relativo costo dal reddito di impresa, non deve essere verificata solo in via formale, con riferimento esclusivo allo statuto e alle delibere societarie, occorrendo invece accertare in concreto la sussistenza o meno del vincolo di subordinazione gerarchica, del potere direttivo e di quello disciplinare e, in particolare, lo svolgimento di mansioni diverse da quelle proprie della carica sociale rivestita“, e provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

Accoglie il ricorso; cassa la sentenza impugnata, con rinvio alla Commissione tributaria regionale della Sardegna, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.