CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 23 settembre 2021, n. 25804
Tributi – Accertamento – Movimentazioni bancarie non giustificate – Presunzione di maggiori ricavi non dichiarati – Onere di prova contraria – Assoluzione nel processo penale – Irrilevanza
Fatti di causa
T.M. ha chiesto la cassazione della sentenza n. 2085/03/2014, depositata dalla Commissione tributaria regionale dell’Emilia-Romagna il 28 novembre 2014, con la quale, confermando la decisione di primo grado, era stato rigettato il ricorso introduttivo del contribuente avverso l’avviso di accertamento notificato dalla Agenzia delle entrate relativamente all’anno d’imposta 2006.
Ha rappresentato che all’esito di un accertamento bancario condotto ai sensi dell’art. 32 del d.P.R. 29 settembre 1997, n. 600, l’Amministrazione finanziaria aveva rideterminato il reddito 2006 del T., recuperando ad imponibile redditi non dichiarati. Erano stati inoltre disconosciuti costi ritenuti non deducibili. Contestando i maggiori ricavi dedotti dalle movimentazioni bancarie, era seguito il contenzioso dinanzi alla Commissione tributaria provinciale di Modena, che con sentenza n. 282/01/2011 aveva rigettato il ricorso introduttivo del contribuente. La Commissione tributaria regionale dell’Emilia-Romagna, con la decisione ora al vaglio della Corte, ha rigettato l’appello. Il giudice regionale ha ritenuto che l’esito del processo penale a carico del T., conclusosi con formula assolutiva, non poteva incidere sul processo tributario. Nel merito dell’accertamento poi ha ritenuto che le prove addotte dal contribuente non avevano offerto elementi di prova sufficienti a superare le presunzioni.
Il ricorrente ha censurato la decisione affidandosi a quattro motivi, cui ha resistito l’Agenzia delle entrate con controricorso.
Alla pubblica udienza del 29 aprile 2021 la causa è stata discussa e decisa sulla base degli atti difensivi delle parti.
Ragioni della decisione
Con il primo motivo, articolato in due sub-motivi, il ricorrente denuncia la violazione dell’art. 324 cod. proc. pen. e dell’art. 2909 cod. civ., perché nella pronuncia non sono stati riconosciuti gli effetti della sentenza penale di assoluzione dai reati fiscali contestati, nonché per inosservanza del principio del ne bis in idem;
con il secondo motivo lamenta la violazione dell’art. 32 del d.P.R. 600 del 1973, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ., per non aver escluso, nella sua qualità di lavoratore autonomo, l’efficacia presuntiva degli accertamenti bancari con riguardo alle operazioni di prelievo, così come dovuto a seguito della sentenza n. 228 del 6 ottobre 2014 pronunciata dalla Corte Costituzionale;
con il terzo si duole della violazione degli artt. 32 del d.P.R. n. 600 del 1973 e 51 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 cod.proc. civ., per non aver riconosciuto la sufficienza delle prove allegate a giustificazione delle operazioni di versamento e di prelievo dal conto corrente bancario;
con il quarto, in subordine, denuncia la violazione dell’art. 75, del d.P.R. 22 dicembre 1986, n. 917, e dell’art. 2, comma 6 bis del d.l. 26 aprile 1990, n. 90, conv in I. 165 del 1990, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3 cod. proc. civ., per non aver riconosciuto maggiori costi a fronte dei maggiori ricavi induttivamente accertati.
Esaminando il primo motivo, con esso il contribuente sostiene innanzitutto l’illegittimità della pronuncia impugnata perché il giudice regionale non avrebbe tenuto conto della sentenza penale con la quale, con la formula “il fatto non sussiste”, è stata esclusa la sua responsabilità in quella sede. Sostiene che quella pronuncia faceva stato per i fatti ivi accertati anche ai fini della controversia tributaria.
Sotto l’aspetto appena evidenziato il motivo è inammissibile per difetto di autosufficienza. Se è vero infatti che la giurisprudenza di questa Corte ha affermato che la sentenza penale irrevocabile di assoluzione dal reato tributario, emessa con la formula “perché il fatto non sussiste”, non spiega automaticamente efficacia di giudicato nel processo tributario, ancorché i fatti accertati in sede penale siano gli stessi per i quali l’Amministrazione finanziaria ha promosso l’accertamento nei confronti del contribuente, ma può essere presa in considerazione come possibile fonte di prova dal giudice tributario, il quale, nell’esercizio dei propri poteri di valutazione, deve verificarne la rilevanza nell’ambito specifico in cui detta decisione è destinata ad operare (Cass., 22/05/2015, n. 10578; 27/06/2019, n. 17258), e se ciò implica che è compito del giudice di merito valutare nell’ambito del processo tributario la rilevanza dei fatti accertati in sede penale, doveva essere onere del ricorrente indicare quali fossero quei fatti ed in che misura essi potevano incidere sulla presente controversia. Il motivo resta invece del tutto generico, privo di contenuto e riferimenti circoscritti, limitandosi ad affermazioni di principio incapaci di far comprendere se e in quale misura fossero stati accertati fatti utili nella controversia fiscale.
Con il medesimo motivo il ricorrente denuncia inoltre la violazione del principio del ne bis in idem, lamentando in particolare l’illegittimità della decisione per non aver tenuto conto della sovrapposizione e del cumulo delle sanzioni penali e fiscali. Anche tale profilo del motivo è inammissibile. Lo è innanzitutto perché tutta la giurisprudenza invocata dalla difesa nulla ha a che vedere con la parte dell’atto impositivo impugnato afferente l’accertamento ed il recupero d’imposta. Quanto poi alla parte dell’atto impositivo destinato alla comminazione delle sanzioni, a parte che i principi maturati in materia e le condizioni imposte anche dalla giurisprudenza euro-unitaria, al fine di preservare il contribuente dalla doppia sanzione, richiedono una serie di presupposti qui inesistenti (a partire dai cd. “criteri Engel” enunciati dalla Corte EDU), nel caso di specie non vi è stata alcuna condanna in sede penale e per conseguenza non è stata applicata alcuna sanzione penale, sicché l’odierna controversia esula dall’ipotesi del cumulo delle sanzioni.
Con il secondo motivo il T. critica la decisione per non aver tenuto conto che a seguito dell’intervento della Corte Costituzionale, con sentenza n. 228/2014, è stata parzialmente esclusa per i lavoratori autonomi la presunzione di riconducibilità al reddito di tutte le operazioni bancarie di prelievo e versamento. Il motivo è infondato.
È vero che la Corte Costituzionale ha riconosciuto l’illegittimità costituzionale dell’art. 32 co. 1, n. 2, secondo periodo, d.P.R. n. 600/1973, come modificato dall’art. 1, co. 402, lett. a), l. n. 311/2004, limitatamente alle parole ««o compensi» per violazione degli artt. 3 e 53 Cost. In particolare ha ritenuto che l’ambito operativo della presunzione relativa alla riconducibilità a reddito d’impresa dei versamenti e dei prelievi dai conti correnti, non giustificati, estesa dalla l. n. 311/2004 anche ai lavoratori autonomi, fosse lesiva del principio di ragionevolezza e della capacità contributiva, essendo arbitrario ipotizzare che i prelievi ingiustificati da conti correnti bancari effettuati da un lavoratore autonomo siano destinati ad un investimento nell’ambito della propria attività professionale, e che questo sia a sua volta produttivo di un reddito. Ed è vero dunque che ha affermato che resta invariata la presunzione legale posta dall’art. 32 cit. solo con riferimento ai versamenti effettuati su un conto corrente dal professionista o lavoratore autonomo, così che questi è onerato di provare in modo analitico l’estraneità di tali movimenti ai fatti imponibili, essendo venuta meno l’equiparazione logica tra attività imprenditoriale e professionale limitatamente ai prelevamenti sui conti correnti (Cass., 9/08/2016, n. 16697; 30/03/2018, n. 795).
Sennonché, come ha evidenziato nel controricorso l’Agenzia delle entrate, il T. non è un lavoratore autonomo ma proprio un imprenditore, in contabilità ordinaria, circostanza in alcun modo contestata dal contribuente, che pertanto non può invocare la declaratoria di parziale incostituzionalità della disciplina. Inammissibile è anche il terzo motivo. Il ricorrente sostiene che il giudice d’appello, erroneamente interpretando l’art. 32 del d.P.R. 600 del 1973, abbia mal governato le prove allegate, in particolare abbia negato valore alle dichiarazioni di terzi prodotte dal ricorrente a dimostrazione della provenienza dei versamenti sul proprio conto corrente (la genitrice e la sorella). Nella pronuncia il giudice regionale, partendo dai principi formulati dalla giurisprudenza di legittimità in merito alla rilevanza indiziaria delle testimonianze scritte, ha tuttavia rilevato che «pur ritenendo ammissibili le dichiarazioni introdotte dal contribuente, esse non appaiono idonee a fornire la prova contraria tale da dimostrare, in modo oggettivo e determinato, la natura e l’origine delle movimentazioni bancarie e superare la presunzione legale relativamente alle operazioni di accredito e di addebito. Fra l’altro, perché si tratta di dichiarazioni di terzi legati a vincoli familiari, prive di data e provenienza certa, comunque senza ulteriore riscontro probatorio». Si tratta, come evidente, di una valutazione in fatto, non censurabile neppure sul piano logico, atteso che la commissione ha ritenuto quelle dichiarazioni inattendibili sotto un triplice profilo, la provenienza da familiari, l’assenza di data certa e, soprattutto, la mancanza di ulteriori riscontri probatori. Ha ritenuto dunque che la valenza indiziaria delle dichiarazioni non era sufficiente a superare il dato oggettivo delle operazioni bancarie e delle presunzioni ad esse riconducibili. L’iter logico seguito dal giudice regionale è conforme ai principi, dispensati da questa Corte, secondo cui nel contenzioso tributario al contribuente, al pari che all’Amministrazione finanziaria, deve essere riconosciuta la possibilità d’introdurre nel giudizio innanzi alle commissioni tributarie dichiarazioni rese da terzi in sede extra processuale. Ciò in attuazione dei principi del giusto processo e della parità delle parti di cui all’art. 111 Cost. e 6 CEDU.
Ad esse va riconosciuto valore probatorio, trovando collocazione tra gli elementi indiziari, che, come tali tuttavia devono essere valutati dal giudice nel contesto probatorio emergente dagli atti (Cass., 30/09/2011, n. 20028; 19/10/2015, n. 21153; 27/05/2020, n. 9903). A tal fine pertanto resta in capo al giudice tributario il “poteredovere” di valutare l’attendibilità del contenuto delle dichiarazioni, nell’alveo della corretta applicazione del principio della libera valutazione delle prove, e dunque l’obbligo di confrontare le dichiarazioni acquisite, al fine di riscontrare la credibilità dei dichiaranti in base ad elementi soggettivi ed oggettivi, quali la loro qualità e vicinanza alle parti, così come la congruenza delle dichiarazioni alla luce di eventuali ulteriori elementi allegati al processo (cfr. Cass., 27/02/2020, n. 5340). Questo è quello che ha fatto il giudice d’appello, dandone atto in sentenza sia pur sinteticamente. Dalla motivazione della pronuncia impugnata emerge infatti che le dichiarazioni non siano state ignorate, ma valutate, e le critiche mosse dalla difesa del ricorrente in realtà sollecitano una rivalutazione di merito, che è inibita in sede di legittimità.
Infondato infine è il quarto motivo, con il quale il T. si duole perché la Commissione non ha riconosciuto i maggiori costi a fronte dei maggiori ricavi induttivamente accertati. La giurisprudenza di legittimità ha chiarito che l’Amministrazione finanziaria deve ricostruire il reddito del contribuente tenendo conto anche delle componenti negative, emerse dagli accertamenti compiuti ovvero, in difetto, determinate induttivamente. Ciò al fine di evitare che, in contrasto con il principio della capacità contributiva di cui all’art. 53 Cost., venga sottoposto a tassazione il profitto lordo, anziché quello netto. Tuttavia ciò afferisce all’accertamento induttivo cd. Puro (Cass., 20/01/2017, n. 1506 ; 23/10/2018, n. 26748; vedi anche 4/02/2021, n. 2581).
Nell’ipotesi oggetto di controversia l’accertamento, condotto anche ai sensi dell’art. 32 del d.P.R. 600 cit., non rientrava in quello induttivo puro, ma in quello cd. Analitico induttivo, per il quale il principio appena enunciato non trova applicazione.
Il ricorso va dunque rigettato. Le spese del giudizio di legittimità seguono la soccombenza e vanno liquidate in favore dell’Agenzia delle entrate nella misura specificata in dispositivo.
P.Q.M.
rigetta il ricorso ; condanna il T. alla rifusione in favore dell’Agenzia delle spese legali sostenute nel giudizio di legittimità, che si liquidano in € 7.300,00 per competenze, oltre spese prenotate a debito. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, nella misura pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis del medesimo articolo 13, se dovuto.