CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 23 settembre 2021, n. 25901
Licenziamento disciplinare – Riapertura del procedimento – Comportamenti aggressivi, ostili e denigratori – Recidiva – CCNL
Fatti di causa
1. La Corte d’Appello di L’Aquila ha confermato la sentenza del Tribunale di Teramo che aveva annullato il licenziamento disciplinare irrogato dal Comune di Teramo nei riguardi di A.C., licenziamento che era conseguito alla condanna penale definitiva subita dalla medesima per calunnia nei confronti di superiori e colleghi della Polizia Municipale.
L’annullamento derivava dal fatto che, per quegli stessi fatti, era stato già irrogato precedente licenziamento che era ancora sub iudice, con esiti alterni (esso era stato annullato dal Tribunale Teramo con pronuncia poi riformata in appello e quindi annullata con rinvio da questa stessa S.C.). La Corte d’Appello, accertato in tali termini il bis in idem, riteneva che non potesse applicarsi al caso di specie l’art. 55 ter comma 3, d.lgs. 165/2001, in quanto norma eccezionale, al cui interno non ricadeva l’ipotesi di specie.
2. il Comune di Teramo ha proposto ricorso per cassazione con due motivi, resistiti da controricorso della C. ed entrambe le parti hanno altresì depositato memorie illustrative. Il Pubblico Ministero ha depositato memoria ai sensi dell’art. 23, co. 8-bis, d.l. 137/2020, conv. con mod. in L. 176/2020, con la quale ha insistito per l’accoglimento del ricorso.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso il Comune di Teramo afferma la violazione e falsa applicazione (art. 360 n. 3 c.p.c.) dell’art. 55-ter d. lgs. 165/2001 e dell’art. 653 c.p.p., in relazione all’art. 14 delle c.d. preleggi.
Secondo il Comune, l’assunto della Corte territoriale per cui la fattispecie non rientrerebbe tra quelle rispetto alle quali l’art. 55-ter d. lgs. 165/2001 consentirebbe la riapertura del procedimento disciplinare sarebbe errato e ciò in quanto l’art. 653, co.1, c.p.p. prevedendo l’efficacia di giudicato della sentenza penale definitiva nel giudizio disciplinare, consentirebbe la riapertura di quest’ultimo proprio al fine di adeguarne le determinazioni agli esiti del giudicato penale sopravvenuto. La riapertura del procedimento disciplinare, ai medesimi fini, dovrebbe essere poi ammessa, secondo il Comune ricorrente, anche qualora la prima sanzione già irrogata fosse stata dichiarata nulla, come era al momento dell’avvio del secondo procedimento, intervenuto allorquando il Tribunale di Teramo aveva dichiarato illegittimo il primo licenziamento, per quanto tale pronuncia fosse sub iudice per il reclamo proposto dall’ente. Tutto ciò in ragione di un’interpretazione logica non limitata da un’eccessiva considerazione del valore letterale delle espressioni normative.
Con il secondo motivo, analoghe considerazioni sono svolte sub specie dell’omesso esame di un fatto decisivo (art. 360 n. 5 c.p.c.) che consisterebbe appunto nella circostanza per cui, al momento dell’adozione del secondo licenziamento, il primo era stato già dichiarato nullo dal Tribunale, così come la Corte territoriale non aveva considerato come la nuova azione disciplinare si fondasse sull’illecito previsto dall’art. 3, co. 8, lett. e) del Contratto Collettivo di Lavoro (di seguito, CCNL) di comparto delle Regioni ed Autonomie Locali del 11.4.2008 (condanna in giudicato per un delitto che, pur non attenendo in via diretta al rapporto di lavoro, non ne consenta neanche provvisoriamente la prosecuzione per la sua specifica gravità) e non su quello di cui al primo licenziamento e riferibile all’art. 3, co. 7, lett. f) del medesimo CCNL (recidiva nel biennio … di atti e comportamenti aggressivi, ostili e denigratori e di forme di violenza morale o di persecuzione psicologica nei confronti di un collega al fine di procurargli un danno in ambito lavorativo o addirittura di escluderlo dal contesto lavorativo). Dovendosi altresì considerare, conclude il secondo motivo, il rischio, altrimenti sussistente, di rendere impunita la grave condotta posta in essere dalla dipendente nei riguardi dei suoi superiori, nonostante essa avesse manifestato solo successivamente concreta rilevanza nell’ambito anche di un processo penale.
2. I due motivi, stante la loro connessione, possono essere esaminati congiuntamente.
3. In fatto è pacificamente accaduto che:
– A.C., dipendente del Comune di Teramo, è stata licenziata in via disciplinare, con provvedimento del 15.11.2013, per avere reiteratamente calunniato e leso l’onore e la dignità del Comandante della Polizia Municipale e di altri suoi superiori, eventi cagionati attraverso le infondate accuse contenute in una denuncia-querela per violenza sessuale proposta nei confronti del Comandante e di un superiore e per aggressione e minacce nei confronti di altro superiore, poi archiviata dal G.I.P. del locale Tribunale;
– la sanzione veniva riferita all’ipotesi di cui all’art. 3, co. 7, lett. f) del CCNL comparto Regioni ed Autonomie Locali del 11.4.2008, che la prevedeva nei casi di «recidiva nel biennio … di atti e comportamenti aggressivi, ostili e denigratori e di forme di violenza morale o di persecuzione psicologica nei confronti di un collega al fine di procurargli un danno in ambito lavorativo o addirittura di escluderlo dal contesto lavorativo»
– tale sanzione, impugnata in via giudiziale, è stata dapprima annullata dal Tribunale di Teramo con ordinanza n. 788/2014, confermata dalla successiva sentenza n. 473/2018, pubblicata il 19.6.2018;
– in data 13.8.2018 il Comune, avendo nel frattempo avuto contezza del fatto che, in esito alle infondate denunce della C., aveva avuto corso processo penale per calunnia, conclusosi con sentenza di condanna a carico della medesima, divenuta definitiva per effetto di rigetto del ricorso per cassazione, irrogava nuovo licenziamento, sul presupposto del ricorrere dell’ipotesi di cui all’art. 3, co. 8, lett. e) del menzionato CCNL, riguardante il caso della «condanna in giudicato per un delitto che, pur non attenendo in via diretta al rapporto di lavoro, non ne consenta neanche provvisoriamente la prosecuzione per la sua specifica gravità»;
– anche il secondo licenziamento veniva impugnato ed annullato dal Tribunale di Teramo, con sentenza poi confermata dalla Corte d’Appello nella pronuncia qui impugnata;
– nel frattempo, l’originaria pronuncia di annullamento del primo licenziamento del Tribunale di Teramo è stata dapprima riformata dalla Corte d’Appello di L’Aquila, la cui pronuncia è stata a propria volta cassata da questa S.C., con sentenza 16 luglio 2020, n. 15227, con successivo giudizio di rinvio nel quale, a quanto si apprende dalle difese finali, è stata confermata la pronuncia di rigetto dell’impugnativa del (primo) licenziamento.
4. Rispetto a quanto oggetto del contendere, va escluso che i due procedimenti disciplinari abbiano riguardo a illeciti differenti. Senza dubbio le due norme sanzionatorie hanno elementi specializzanti: la prima applica la sanzione del licenziamento nel caso in cui la condotta costituisca reiterazione di altri analoghi atti offensivi o denigratori; la seconda ipotesi disciplinare ha invece come specializzante l’elemento della condanna penale in giudicato.
Ciò non toglie tuttavia che il nucleo della condotta, in cui si esprime l’offensività a base delle due ipotesi, sia il medesimo e consista nel comportamento denigratorio verso i superiori.
Non vi è quindi dubbio che la condotta perseguita, riguardando i medesimi comportamenti denigratori, sia sempre la stessa e che pertanto il secondo licenziamento non possa dirsi riguardare un diverso fatto.
5. Il tema è dunque quello, centrale nel ricorso per cassazione proposto dal Comune, della possibilità o meno di riaprire il procedimento disciplinare qualora, rispetto ad un fatto già perseguito e potenzialmente tale da costituire reato, sopravvenga la condanna in sede penale non considerata nel precedente procedimento sanzionatorio che sia stato condotto a prescindere dal procedimento penale pendente.
5.1 Va intanto escluso che abbia rilevanza l’art. 653 c.p.p., cui pure fa riferimento la P.A. ricorrente.
Quella norma regola infatti gli effetti che il giudicato penale dispiega nel giudizio disciplinare, ma non impone di dare corso a giudizio disciplinare per quegli stessi fatti.
Il procedimento disciplinare mantiene come tale la sua autonomia e potrà risentire degli effetti del giudicato penale se l’azione disciplinare sia ancora non definita oppure solo se ed in quanto, come si vedrà di seguito, la definitività dell’accertamento penale sia posta, dalle leggi che regolano il procedimento disciplinare stesso, a fondamento di obblighi di riapertura.
5.2 In proposito, come è noto, la disciplina introdotta nel d.lgs. 165/2001 attraverso la c.d Riforma Brunetta (d. lgs. 150/2009) ha previsto, attraverso l’art. 55-ter, che il procedimento disciplinare prosegua nonostante la pendenza di procedimento penale sui medesimi fatti, salvo che la P.A. ritenga di disporre la sospensione nei casi di «particolare complessità dell’accertamento del fatto addebitato al dipendente e quando all’esito dell’istruttoria non dispone di elementi sufficienti a motivare l’irrogazione della sanzione».
Si è in tal modo rovesciato l’assetto risalente al d.p.r. 3/1957, in cui la pendenza di procedimento penale comportava la sospensione dell’azione disciplinare fino all’esito della decisione giudiziale sul reato.
5.3 In materia di rapporto di lavoro costituisce principio del tutto consolidato quello per cui il potere disciplinare non consenta di essere reiterato, per il medesimo fatto, una volta già esercitato mediante applicazione di una sanzione (Cass. 23 ottobre 2018, n. 26815) e ciò anche se la prima sanzione sia minore a quella poi risultata applicabile sulla base di ulteriori circostanze, anche se sopravvenute (Cass. 30 ottobre 2018, n. 27657, con riferimento proprio al sopravvenire di condanna penale), con la sola eccezione dell’annullamento della prima sanzione per ragioni procedurali o formali (Cass. 30 luglio 2019, n. 20519; Cass. 19 marzo 2013, n. 6773) e sempre, va precisato, che non siano maturate altre decadenze a carico della parte datoriale. La regola, per quanto formatosi in ambito di lavoro privato, non può non estendersi al settore del pubblico impiego privatizzato, in quanto soggetto alla medesima disciplina di fondo propria del contratto di lavoro (art. 2, co. 2, d. lgs. 165/2001) e comunque per il risalire di tale assetto ad evidenti ragioni di certezza nei rapporti giuridici.
Peraltro, nonostante l’autonomizzazione del procedimento disciplinare rispetto a quello penale, il legislatore del diritto del lavoro privatizzato ha previsto alcuni casi in cui l’eventuale conclusione del processo penale in senso difforme rispetto alle determinazioni assunte in sede disciplinare è destinata a determinare effetti anche su quest’ultimo piano, sebbene formalmente già definito.
Ciò accade, a favore dell’incolpato, qualora il processo penale si chiuda con sentenza irrevocabile di assoluzione che riconosce che il fatto addebitato al dipendente non sussiste o non costituisce illecito penale o che il dipendente medesimo non lo ha commesso (art. 55-ter, co.2 d. lgs. 165/2001), ipotesi in cui, su istanza dell’interessato, il procedimento disciplinare va riaperto al fine di adeguarne gli esiti alla sopravvenienza giudiziale, dovendosi a quel punto tenere conto altresì degli effetti di giudicato propri della pronuncia penale. L’azione disciplinare che la P.A. decida di proseguire nonostante la pendenza del processo penale resta quindi fisiologicamente condizionata, negli esiti, dalla definizione di quest’ultimo in senso favorevole all’incolpato. Di converso, se il procedimento disciplinare, pur iniziato, non viene definito per archiviazione, esso va ripreso allorquando sopravvenga sentenza penale irrevocabile di condanna per i medesimi fatti; analogamente il procedimento disciplinare va riaperto, se dalla sentenza irrevocabile di condanna risulta che il fatto addebitabile al dipendente in sede disciplinare comporta la sanzione del licenziamento, mentre ne è stata applicata una diversa (art. 55-ter, co.3 d. lgs. 165/2001).
Tutto ciò è senza dubbio effetto della diversa posizione della P.A. nell’ordinamento e del principio di buon andamento che ne governa l’operato (art. 97 Cost.), declinato dal legislatore, nelle norme sopra citate, in senso parzialmente divergente dalla regola del ne bis in idem, al fine di consentire l’adeguamento dell’assetto negoziale, in melius o in peius, nei casi previsti, alla statuizione assunta in sede giudiziaria penale e ciò in una sorta di raccordo finale tra autonomia disciplinare e interconnessione con le decisioni penali, rispetto ad un settore la cui funzione pubblica non tollera eccessivi scostamenti rispetto alla piena valutazione delle ricadute sul rapporto dei fatti muniti di rilevanza penalistica.
La sopra menzionata portata generale del principio del ne bis in idem e la previsione espressa e specifica delle ipotesi divergenti rispetto ad esso escludono altresì che le deroghe possano essere oggetto di interpretazione estensiva o di applicazione oltre i casi da esse previsti (art. 14 disp. prel. c.c.).
Pertanto, non può ritenersi ammessa l’attivazione di un secondo procedimento disciplinare, per lo stesso fatto, se non nei casi espressamente ammessi dall’art. 55-ter. D’altra parte, l’ipotesi dell’archiviazione in sede disciplinare, che non osta alla riapertura del procedimento se sopravvenga condanna penale irrevocabile, esprime un caso in cui non vi è stato esercizio di potere disciplinare, perché il relativo procedimento è stato aperto, ma poi chiuso senza applicazione di sanzione; esso quindi è ben diverso dal caso in cui il potere disciplinare sia stato pienamente esercitato con l’applicazione della sanzione e se ne pretenda la reiterazione, per il medesimo fatto ma sul presupposto anche dell’intervenuta condanna giudiziale, per il solo sopravvenire della pronuncia penale.
Analogamente, la previsione della riapertura del procedimento disciplinare chiuso con sanzione conservativa, nel caso di fatti tali da comportare il licenziamento accertati in sede penale, è ipotesi espressamente regolata proprio per la sua divergenza, a tutela dell’interesse pubblico, rispetto al principio generale di consumazione del potere disciplinare e comunque si fonda su vicenda in cui la rilevanza disciplinare del comportamento del lavoratore è stata già accertata nel primo procedimento e si tratta soltanto di rimodulare eventualmente la sanzione in ragione del sopravvenuto accertamento penale.
Quindi, non solo il Comune di Teramo non avrebbe potuto aprire un nuovo procedimento disciplinare, per i medesimi fatti, per l’essere stato il licenziamento (provvisoriamente) annullato dalla sentenza di primo grado, ma neppure ciò avrebbe potuto fare se anche quell’annullamento fosse divenuto definitivo, perché neanche tale ipotesi è prevista come caso di possibile riedizione del potere disciplinare per il medesimo fatto, prevalendo a quel punto, tra le parti, il giudicato formatosi sul rapporto di lavoro in essere e sull’inidoneità ad incidere su di esso dell’azione disciplinare.
6. Le considerazioni svolte sono assorbenti di ogni altro profilo agitato tra le parti e comportano il rigetto del ricorso, cui segue la regolazione secondo soccombenza delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento in favore della controparte delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in euro 5.000,00 per compensi ed euro 200,00 per esborsi, oltre spese generali in misura del 15 % ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater del d.p.r. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per I versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13, se dovuto.
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