CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 24 agosto 2018, n. 21079
Accertamento – Professionisti – Studi di settore – Scostamento – Registrazioni contabili – Inattendibilità
FATTI DI CAUSA
1. A seguito dell’utilizzo degli studi di settore, l’Agenzia delle entrate emetteva, con riferimento agli anni 2003 e 2004, un avviso di accertamento nei confronti di M.G.A., medico odontoiatra.
2. La Commissione tributaria provinciale accoglieva il ricorso.
3. La Commissione tributaria regionale accoglieva l’appello proposto dalla Agenzia delle entrate, evidenziando che l’utilizzo degli studi di settore liberava l’Agenzia dalla necessità di fornire la prova della inattendibilità della contabilità sulla base di presunzioni gravi, precise e concordanti, mentre il contribuente aveva l’onere di fornire la prova contraria, che le percentuali di scostamento rispetto ai dati forniti dagli studi di settore erano del 30,49 % per l’anno 2003 e del 26,19 % per l’anno 2004, che si era tenuto conto del principio di cassa, che l’attività svolta si mostrava come antieconomica.
4. Avverso tale sentenza proponeva ricorso per cassazione il contribuente.
5. Resisteva con controricorso l’Agenzia delle entrate.
RAGIONI DELLA DECISIONE
1. Con il primo motivo di impugnazione il ricorrente deduce “Nullità della sentenza per violazione degli articoli 36 d.lgs. 546/1992, 118 disp. att. c.p.c., 112 c.p.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 4, c.p.c.” in quanto la sentenza impugnata difetta dei requisiti minimi imposti dalla normativa, non recando l’illustrazione succinta delle motivazione della sentenza della commissione tributaria provinciale, non consentendo di comprendere i motivi dell’appello proposto dalla Agenzia delle entrate, essendo state indicate solo le “rubriche” dei due motivi.
1.1. Tale motivo è infondato.
L’art. 36 del d.lg. 546/1992 prevede che la sentenza debba indicare “…3)le richieste delle parti; 4) la succinta esposizione dei motivi in fatto e diritto”.
La sentenza della Commissione regionale rispecchia in pieno i predetti parametri, muovendo dal “fatto” , per poi svilupparsi attraverso l’esposizione delle ragioni della decisione, analiticamente esposte.
Nella sentenza è riportato l’esito del giudizio di primo grado e sono indicati i due motivi di impugnazione proposti dalla Agenzia delle entrate al giudice di appello (1.”infondatezza della decisione; violazione e falsa applicazione dell’art. 62 bis e sexies del d.l. n. 331/1993, convertito nella legge 427/1993 e successive modificazioni”.2.”Motivazione carente contraddittoria, nonché infondatezza della decisione ed errata valutazione dei fatti”).
Peraltro, l’omessa, inesatta o incompleta trascrizione delle conclusioni delle parti nell’epigrafe della sentenza ne determina la nullità solo quando tali conclusioni non siano state esaminate, di guisa che sia mancata in concreto una decisione su domande ed eccezioni ritualmente proposte, mentre, ove il loro esame risulti dalla motivazione, il vizio si risolve in una semplice imperfezione formale, irrilevante ai fini della validità della sentenza (Cass.Civ., 4 febbraio 2016, n. 2237; Cass.Civ., 9 maggio 2018, n. 11150).
Nella specie, la motivazione si diffonde per undici pagine proprio sui motivi di impugnazione, sulle controdeduzioni del contribuente, e sulle ragioni della decisione, nel pieno rispetto della disciplina formale e sostanziale di redazione della sentenza ai sensi dell’art. 36 del d.lgs. 546/1992.
Inoltre, alla stregua del generale rinvio materiale alle norme del c.p.c. compatibili contenuto nell’art. 1, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992, è applicabile al rito tributario, così come disciplinato dal citato decreto, il principio desumibile dalle norme di cui agli artt. 132, comma 2, n. 4, c.p.c. e 118 disp. att. c.p.c. (come novellati entrambi dalla I. n. 69 del 2009), secondo il quale la mancata esposizione dei fatti rilevanti della causa, ovvero la mancanza o l’estrema concisione delle ragioni giuridiche della decisione, determinano la nullità della sentenza soltanto ove rendano impossibile l’individuazione del “thema decidendum” e delle ragioni poste a fondamento del dispositivo (Cass. Civ., 18 aprile 2017, n. 9745).
Nel caso in esame, il thema decidendum è particolarmente chiaro.
2. Con il secondo motivo di impugnazione il ricorrente si duole della “violazione e/o falsa applicazione degli artt. 32 e 39 comma 1 lettera . d) del d.p.r. 600/1973; 62 bis e sexies del d.l. n. 331/1993, come convertito nella legge 427/1993; 50 del d.p.r. n. 917/1986; 10 della legge n. 146/1998; 5 del d.lgs. n. 218/1997; 1 comma 252 della legge n. 244/2007; 2729 c.c., il tutto in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 c.p.c.” in quanto la sentenza della Commissione regionale ha accolto l’appello dell’Agenzia, basandosi sugli studi di settore “senza allegare…alcun riscontro fattuale, anche solo indiziario, dell’effettiva esistenza dei presunti maggiori redditi del contribuente…tutto ciò anche in puntuale violazione dell’art. 1, comma 252, della legge n. 244/2007…” Nè è stata data la dimostrazione della sussistenza di uno scostamento “grave” tra i redditi dichiarati e quelli indicati dagli studi di settore. Non si è tenuto conto, poi, delle puntuali contestazioni del contribuente.
2.1. Tale motivo è infondato.
Invero, la procedura di accertamento tributario standardizzato mediante l’applicazione dei parametri o degli studi di settore costituisce un sistema di presunzioni semplici, la cui gravità, precisione e concordanza non è “ex lege” determinata dallo scostamento del reddito dichiarato rispetto agli “standards” in sé considerati – meri strumenti di ricostruzione per elaborazione statistica della normale redditività – ma nasce solo in esito al contraddittorio da attivare obbligatoriamente, pena la nullità dell’accertamento, con il contribuente (Cass.Civ., Sez.Un., 18 dicembre 2009, n. 26635). In tale sede, quest’ultimo ha l’onere di provare, senza limitazione alcuna di mezzi e di contenuto, la sussistenza di condizioni che giustificano l’esclusione dell’impresa dall’area dei soggetti cui possono essere applicati gli “standards” o la specifica realtà dell’attività economica nel periodo di tempo in esame, mentre la motivazione dell’atto di accertamento non può esaurirsi nel rilievo dello scostamento, ma deve essere integrata con la dimostrazione dell’applicabilità in concreto dello “standard” prescelto e con le ragioni per le quali sono state disattese le contestazioni sollevate dal contribuente (Cass.Civ., 18 dicembre 2017, n. 30370; Cass.Civ., 7 giugno 2017, n. 14091). L’esito del contraddittorio, tuttavia, non condiziona l’impugnabilità dell’accertamento, potendo il giudice tributario liberamente valutare tanto l’applicabilità degli “standards” al caso concreto, da dimostrarsi dall’ente impositore, quanto la controprova offerta dal contribuente che, al riguardo, non è vincolato alle eccezioni sollevate nella fase del procedimento amministrativo e dispone della più ampia facoltà, incluso il ricorso a presunzioni semplici, anche se non abbia risposto all’invito al contraddittorio in sede amministrativa, restando inerte. In tal caso, però, egli assume le conseguenze di questo suo comportamento, in quanto l’Ufficio può motivare l’accertamento sulla sola base dell’applicazione degli “standards”, dando conto deM’impossibilità di costituire il contraddittorio con il contribuente, nonostante il rituale invito, ed il giudice può valutare, nel quadro probatorio, la mancata risposta all’invito (Cass.Civ., 20 settembre 2017, n. 21754).
Inoltre, si è affermato che i parametri o studi di settore previsti dall’art. 3, commi da 181 a 187, legge 28 dicembre 1995, n. 549, rappresentando la risultante dell’estrapolazione statistica di una pluralità di dati settoriali acquisiti su campioni di contribuenti e dalle relative dichiarazioni, rivelano valori che, quando eccedono il dichiarato, integrano il presupposto per il legittimo esercizio da parte dell’Ufficio dell’accertamento analitico-induttivo, ex art. 39, primo comma, lett. d, del d.P.R. 29 settembre 1973, n. 600, che deve essere necessariamente svolto in contraddittorio con il contribuente, sul quale, nella fase amministrativa e, soprattutto, in quella contenziosa, incombe l’onere di allegare e provare, senza limitazioni di mezzi e di contenuto, la sussistenza di circostanze di fatto tali da allontanare la sua attività dal modello normale al quale i parametri fanno riferimento, sì da giustificare un reddito inferiore a quello che sarebbe stato normale secondo la procedura di accertamento tributario standardizzato, mentre all’ente impositore fa carico la dimostrazione dell’applicabilità dello “standard” prescelto al caso concreto oggetto di accertamento (Cass.Civ., 20 febbraio 2015, n.3415).
Nella specie, quindi, la Commissione regionale non è incorsa in alcuna violazione di legge, in quanto, una volta che si è verificato lo scostamento tra i dati rinvenienti dagli studi di settore ed i redditi dichiarati, anche all’esito del contraddittorio, senza che il contribuente allegasse e documentasse elementi che portavano a disattendere tale scostamento, alcun altro ulteriore onere probatorio incorreva in capo alla Agenzia delle entrate.
La Commissione regionale ha evidenziato in motivazione proprio tali circostanze, affermando che il dato fornito dagli studi di settore ha il valore di una presunzione relativa, senza che l’ufficio sia costretto a fornire altre dimostrazioni in ordine alla motivazione della sua pretesa, mentre il contribuente ha l’onere di attivarsi per dimostrare o l’impossibilità di utilizzare le presunzioni nella fattispecie esaminata oppure l’inaffidabilità del risultato ottenuto attraverso le presunzioni.
Peraltro, la Commissione ha tenuto conto anche della “grave incongruenza” fra i dati forniti dagli studi di settore e gli elementi reddituali dichiarati dal contribuente.
Invero, per giurisprudenza di legittimità (Cass.Civ., 17 dicembre 2014, n. 26481), l’accertamento induttivo fondato sul mero divario, a prescindere dalla sua gravità, tra quanto dichiarato dal contribuente e quanto risultante dagli studi di settore è legittimo solo a decorrere dal 1° gennaio 2007, in base all’art. 1, comma 23, della legge 27 dicembre 2006, n. 296, che non ha portata retroattiva, trattandosi di norma innovativa e non interpretativa, in quanto, con l’aggiunta di un inciso, ha soppresso il riferimento alle “gravi incongruenze”, prima operato tramite il rinvio recettizio all’art. 62 sexies, comma 3, del d.l. 30 agosto 1993, n. 331, convertito, con modificazioni, nella legge 29 ottobre 1993, n. 427.
Nella specie, la “grave incongruenza” risulta proprio dalle significative percentuali di scostamento relative ai due anni (30,49 % nel 2003 e 26,19 % nel 2004). Inoltre, l’art. 1 comma 252 della legge 244/2007, che ha modificato l’art. 1 comma 14 della legge 296/2006, è successivo ai fatti di causa, essendo in contestazione gli anni 2003 e 2004 (“Ai fini dell’accertamento l’Agenzia delle entrate ha l’onere di motivare e fornire elementi di prova per avvalorare l’attribuzione dei maggiori ricavi o compensi derivanti dall’applicazione degli indicatori di normalità economica di cui al presente comma, approvati con decreto del Ministro dell’Economia e delle Finanze 20 marzo 2007”).
3. Con il terzo motivo di impugnazione il ricorrente deduce “Insufficiente e /o contraddittoria motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c.” non avendo tenuto conto la Commissione regionale delle giustificazioni fornite dal contribuente in relazione allo scostamento dei dati. In particolare, non è stato adeguatamente approfondita la circostanza per cui il contribuente svolge anche lavoro dipendente, sicché è comprensibile che una parte dei proventi dall’attività privata venga reinvestita in beni strumentali all’esercizio della libera professione. Nè sussiste la pretesa antieconomicità della attività di lavoro autonomo.
3.1. Tale motivo è inammissibile.
Invero, la Commissione tributaria regionale chiede di effettuare una nuova valutazione di merito sugli elementi fattuali già compiutamente esaminati dal giudice di merito, non consentita in questa sede.
La Commissione regionale, con congrua, analitica e diffusa motivazione ha chiarito che la percentuale di scostamento tra i ricavi dichiarati e quelli risultanti dagli studi di settore era molto elevata (il 30.49 % nel 2003, quindi € 104.892,00 dichiarati a fronte di € 136.870,00 derivanti dagli studi di settore; il 26,19 % nel 2004, quindi € 144.153,00 dichiarati a fronte di € 181.905,00 derivanti dagli studi di settore).
Del tutto generica era, poi, l’affermazione del contribuente, per cui l’entità dei ricavi non era ancorata a presupposti oggettivi, in quanto i dati erano stati dichiarati proprio dalla parte e solo elaborati ai fini della determinazione del reddito tramite studi di settore.
La antieconomicità derivava, poi, dalla circostanza che, a fronte di investimenti per € 42.995,00 e costi per € 78.076,00 nel 2003, il contribuente aveva ottenuto ricavi per € 104.892,00. Allo stesso modo nel 2004, il contribuente, a fronte di investimenti per € 71.962,00 e costi per € 112.257,00, aveva avuto ricavi pari ad € 144.153,00.
La Commissione ha anche affrontato il tema del rapporto di lavoro subordinato, rilevando che il reddito percepito, a tale titolo, pari ad € 42.989,28, al lordo delle ritenute fiscali per il 2003 e ad € 43.588,66 per il 2004, poteva confrontarsi con i redditi da attività professionale pari ad € 26.116,00 e € 31.896.0, in quanto “nel rapporto di lavoro dipendente il contribuente ha usufruito di ferie pagate, accantonamento della quota annua di fine rapporto…”, non essendo, peraltro, consono un acquisto di beni in leasing per € 29.770.0, a fronte di redditi di € 32.000,00 circa al massimo.
4. Con il quarto motivo il ricorrente deduce “insufficiente e/o contraddittoria motivazione su un fatto controverso e decisivo per il giudizio, in relazione all’art. 360, comma 1, n. 5 c.p.c.” in quanto la Commissione non ha tenuto conto del “principio di cassa”. La Commissione si è limitata, sul punto, ad affermare che “l’Ufficio ha considerato” il principio di cassa.
4.1. Tale motivo è infondato.
Invero, la Commissione regionale ha analiticamente risposto alle doglianze del contribuente anche su tale aspetto, evidenziando che “l’Ufficio ha considerato [il principio di cassa] e comunque trattandosi di presunzione l’Ufficio non deve certamente, dimostrare che il maggior compenso accertato risultava effettivamente incassato e non deve indicare nominativi dei soggetti nei confronti dei quali sarebbero state eseguite prestazioni a nero…”
Tale motivazione risulta pienamente esaustiva e coerente.
5. Le spese del giudizio di legittimità vanno poste a carico del ricorrente e si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
Condanna il ricorrente a rimborsare in favore della Agenzia delle entrate le spese del giudizio di legittimità che si liquidano in complessivi € 4.000,00, oltre spese prenotate a debito.
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