CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 24 maggio 2021, n. 14180
Licenziamento – Violazione del principio di buona fede e dei criteri legali di scelta – Fungibilità della posizione lavorativa del lavoratore con quella di altri dipendenti rimasti in servizio
Svolgimento del processo
Con sentenza del 23.5.2018 il Tribunale di Lucca, in parziale accoglimento dell’opposizione proposta ex art. 1 comma 51 L. n.92/12 da F. D. contro T. s.p.a., ha dichiarato illegittimo il licenziamento intimato al lavoratore ex lege n.223/91 con lettera del 15.6.15 e, applicato il V comma dell’art. 18 L. 300/1970 (come modificato dalla L. n.92/12), ha dichiarato risolto il rapporto lavorativo condannando la società a risarcire il danno cagionato al D. dal licenziamento, nella misura di 12 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.
Più specificamente il giudice della fase sommaria, ritenne inammissibile la censura del D. relativa alla dedotta insussistenza della ragione oggettiva del recesso ed infondata quella avente ad oggetto la violazione del principio di buona fede e dei criteri legali di scelta (formulata in ricorso sotto il profilo della fungibilità della posizione lavorativa dell’attore con quella di altri dipendenti rimasti in servizio, con cui, secondo la prospettazione del lavoratore, egli non sarebbe stato comparato e che avrebbero avuto minore anzianità e minori carichi di famiglia).
In sede di opposizione il Tribunale ha invece affermato essere tempestiva, per quanto proposta solo in sede di opposizione, l’eccezione di illegittimità del recesso per violazione del disposto del comma 9 dell’art. 4 della L.n. 223/91.
L’eccezione era poi ritenuta fondata in quanto, anche assunta l’effettiva trasmissione della comunicazione prevista dalla norma appena citata ai soggetti che ne erano destinatari necessari, in ogni caso la missiva depositata dalla società non aveva il contenuto previsto dal comma 9 dell’art.4, non contenendo alcuna indicazione in ordine alle modalità con cui erano stati applicati i criteri di scelta.
Da ciò derivavano le conseguenze sanzionatorie previste dal 5 comma dell’art. 18, come richiamato dal terzo comma dell’art. 5 L. 223/1991, controvertendosi della violazione delle procedure previste dall’art. 4 comma 12 della L. n.223/91.
Entrambe le parti hanno impugnato la decisione.
Nel suo reclamo la società censurava la pronuncia del Tribunale reiterando l’eccezione di inammissibilità, in sede di opposizione, della questione della violazione del comma 9 dell’art.4 L.223/1991, integrante, secondo la reclamante, una mutatio libelli, ritenendola comunque nel merito infondata.
Secondo la prospettazione della società, infatti, la comunicazione conclusiva della procedura prevista dalla norma appena citata non aveva alcuna utilità sostanziale, ma si risolveva piuttosto in un’irrilevante formalità, almeno per aziende, come T., non rientranti nell’ambito di applicazione della Cassa Integrazione Guadagni.
Peraltro le organizzazioni sindacali avevano avuto compiuta conoscenza dei criteri di scelta, avendo partecipato al’intera procedura di consultazione prevista dalla L. 223/91.
Con sentenza depositata il 24.12.18, la Corte d’appello di Firenze, in parziale riforma della sentenza impugnata, annullava il licenziamento e condannava T. s.p.a. a reintegrare D. F. nel posto di lavoro ed al risarcimento del danno nella misura di dodici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, con accessori di legge, oltre al pagamento delle spese del doppio grado. Per la cassazione di tale sentenza propone ricorso la T., affidato a quattro motivi, mentre il D. ha depositato delega ai soli fini della discussione orale.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo la ricorrente denuncia la violazione e/o falsa applicazione degli artt. 1, co.51, della L.n.92/12; 6 L. n. 604/66 novellato; degli artt. 414, 167 e 183 c.p.c., in relazione al regime di decadenze relative al rapporto tra la fase sommaria e la fase di opposizione e del divieto di mutatio libelli.
Lamenta l’inammissibilità della questione inerente la comunicazione ex art. 4 co.9, non proposta nella fase sommaria ma solo in quella di opposizione.
Il motivo è infondato in quanto nel rito cd. Fornero, il giudizio di primo grado è unico a struttura bifasica, con una prima fase ad istruttoria sommaria, diretta ad assicurare una più rapida tutela al lavoratore, ed una seconda fase, a cognizione piena, che della precedente costituisce una prosecuzione, sicché non costituisce domanda nuova, inammissibile per mutamento della “causa petendi”, la deduzione di ulteriori motivi di invalidità del recesso ove fondata sui medesimi fatti costitutivi (cfr. da ultimo Cass. n. 9548/19; cfr. altresì Cass. ord. n. 14976/20).
2. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia la violazione del principio di prevalenza della sostanza sulla forma e dell’art. 12 preleggi in relazione agli adempimenti previsti in ordine alla comunicazione ex art. 4, commi 9 e 12, L. n. 223/91, rilevando che la comunicazione ex art.9 rileva più per gli enti pubblici del lavoro e le OO.SS. anziché per il singolo lavoratore.
Il motivo è infondato. Questa Corte ha già osservato che la questione se la specifica indicazione dell’applicazione dei criteri di scelta sia diretta solo ai sindacati ed all’ufficio regionale del lavoro ed alla Commissione regionale per l’impiego (Cass. n. 4970 del 08/03/2006) ovvero anche ai lavoratori (che ricevono contezza dei relativi dati e la possibilità di controllo per il tramite delle associazioni sindacali, Cass. n. 1722 del 23/01/2009), è stata più volte risolta da questa Corte nel senso che la procedura disciplinata dall’art. 4 della legge n. 223 del 1991 assegna al sindacato, a fronte dell’esercizio del potere imprenditoriale, un ruolo di tutela dell’interesse del lavoratore alla conservazione del posto di lavoro nell’ambito del più generale controllo su eventi che incidano, in maniera non marginale, sull’assetto occupazionale; poiché la tutela di un tale interesse è subordinata alla informazione, da parte dell’imprenditore, da cui risulti la impraticabilità di rimedi alternativi ai licenziamenti, consegue che il lavoratore è legittimato a far valere l’incompletezza della informazione, Cass. 9.9.03 n. 13196.
3. Con terzo motivo la società ricorrente denuncia, ex art. 360 c.p.c. n.5, una omessa, e/o tautologica motivazione sull’esame di un fatto decisivo della controversia, omettendo di considerare che le modalità di applicazione del criterio di scelta erano state già indicate nel verbale di chiusura della procedura di mobilità e nella lettera di licenziamento, omettendo inoltre di considerare il fatto che al lavoratore fosse stato applicato l’unico criterio di scelta pattuito (quello delle esigenze tecnico produttive ed organizzative con soppressione del settore e del ruolo di responsabile “qualità”) che non consentiva margini discrezionali di scelta, anche da un punto di vista soggettivo trattandosi dell’unica risorsa impiegata nel settore oggetto di soppressione.
La censura è infondata.
Occorre infatti ribadire, come sopra evidenziato, che le modalità di applicazione dei criteri di scelta (ancorché unico) debbono essere comunicate dal datore di lavoro preventivamente e non certo dopo i licenziamenti o contestualmente ad essi.
4. Con il quarto motivo la ricorrente denuncia la violazione, erronea o falsa applicazione del regime di tutela (indennitaria/risarcitoria anziché reintegratoria, come disposto in sentenza) di cui alla L. n.92/12, che ha innovato l’art. 5 L.n.223/91, nel periodo ove prevede che in caso di violazione delle procedure indicate all’articolo 4, comma 12, si applica il regime di cui al terzo periodo del settimo comma del predetto articolo 18 (attuale 5° comma, che prevede solo una tutela indennitaria). In ogni caso, prosegue la società, quand’anche si volesse assumere il carattere essenziale della comunicazione ex art. 4 co. 9 della legge 223/1991, la condanna alla reintegra, statuita dalla Corte d’Appello, non troverebbe alcun concreto fondamento normativo.
Il motivo è infondato.
Questa Corte ha in materia già osservato (cfr. Cass. n. 2587/18) che la non corrispondenza al modello legale della comunicazione di cui all’art. 4, comma 9, della l. n. 223 del 1991, costituisce violazione delle procedure e dà luogo alla tutela indennitaria (ex art. 18, comma 7, terzo periodo, della l. n. 300 del 1970), quantificabile tra dodici e ventiquattro mensilità, previa dichiarazione di risoluzione del rapporto alla data del licenziamento; viceversa, la violazione dei criteri di scelta, illegittimi per violazione di legge ovvero illegittimamente applicati in difformità dalle previsioni legali o collettive, dà luogo all’annullamento del licenziamento, con condanna alla reintegrazione nel posto di lavoro e al pagamento di un’indennità risarcitoria in misura non superiore alle dodici mensilità (ex art. 18, comma 4, della legge citata).
Sostanzialmente nel medesimo senso: Cass. n. 19010/18 (in tema di licenziamenti collettivi, quando la comunicazione ex art. 4, comma 9, l. n. 223 del 1991 carente sotto il profilo formale delle indicazioni relative alle modalità di applicazione dei criteri di scelta si sia risolta nell’accertata illegittima applicazione di tali criteri vi è annullamento del licenziamento, con condanna alla reintegrazione nel posto di lavoro e al pagamento di un’indennità risarcitoria in misura non superiore alle dodici mensilità ai sensi dell’art. 18, comma 4, st.lav. come risultante dall’art. 1, comma 42, della l. n. 92 del 2012).
In sostanza la sola violazione del criterio formale della comunicazione dà luogo alla tutela indennitaria (ex art. 18, comma 7), mentre laddove risulti violato il criterio sostanziale della scelta dei licenziandi consegue l’annullamento del licenziamento, con condanna alla reintegrazione nel posto di lavoro e al pagamento di un’indennità risarcitoria in misura non superiore alle dodici mensilità (ex art. 18, comma 4).
Nella specie è pacifico, come accertato anche dalla Corte di merito (pag. 8 sentenza), che la società, nella comunicazione finale della procedura (di cui all’art. 4, co.9 L. n.223/91), omise qualsiasi indicazione circa le modalità con cui erano stati applicati i criteri di scelta.
Deve allora qui chiarirsi che il precipitato logico del principio sopra menzionato comporta che la totale mancanza di indicazione dei criteri di scelta e delle modalità di applicazione di essi non può che risolversi nella illegittimità dei licenziamenti, confluendo in tal caso la violazione formale in una sostanziale, trasformando in sostanza il licenziamento collettivo, soggetto alla rigorosa procedura di controllo prevista dalla legge, in un licenziamento ad nutum, ove solo resta irrilevante la ragione del recesso, non potendo i soggetti destinatari della comunicazione, e neppure il giudice, minimamente valutare la correttezza e legittimità del recesso, anche sotto il profilo discriminatorio, perché la selezione dei lavoratori da licenziare potrebbe essere arbitrariamente effettuata senza il rispetto dei criteri di oggettività e trasparenza (Cass. n.23041/18).
5. Il ricorso deve essere pertanto rigettato.
Le spese di lite, limitate alla sola discussione orale, seguono la soccombenza e si liquidano come da dispositivo.
P.Q.M.
rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, che liquida in €.200,00 per esborsi, €.3.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali nella misura del 15%, I.V.A. e c.p.a. Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. n. 115/02, nel testo risultante dalla L. 24.12.12 n. 228, la Corte dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso, a norma del comma 1 bis dello stesso art.13, se dovuto.
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