CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 24 settembre 2019, n. 23792
Gestione commercianti INPS – Contributi previdenziali c.d. a percentuale – Reddito di impresa rilevante ai fini contributivi
Ritenuto in fatto
1. Il Tribunale di Livorno accoglieva il ricorso proposto da G.M. e dichiarava non dovute le somme portate nell’avviso bonario notificato dall’Inps con il quale era stato richiesto alla M., iscritta alla gestione commercianti INPS e alla gestione separata in qualità di amministratore della B.M. s.r.l., il pagamento della somma di € 21.130,65 al titolo di contributi previdenziali c.d. a percentuale commisurati alla quota di partecipazione agli utili della S.F. Srl di cui la M. era socia, senza tuttavia aver svolto in essa alcuna attività lavorativa né avere ricoperto una carica.
2. La Corte d’appello di Firenze dichiarava inammissibile l’appello con ordinanza ai sensi degli artt. 348 bis e ter c.p.c..
3. Per la cassazione della sentenza del Tribunale l’INPS, anche quale mandatario della S.C.C.I. S.P.A. – Società di Cartolarizzazione dei Crediti I.N.P.S., ha proposto ricorso, affidato ad un unico motivo, cui G.M. ha resistito con controricorso.
Considerato in diritto
4. La controricorrente ha eccepito preliminarmente l’improcedibilità del ricorso per cassazione ex art. 369 I comma c.p.c., non essendo stata depositata unitamente al ricorso la copia dell’ordinanza ex art. 348 ter c.p.c. corredata dalla relativa comunicazione alle parti.
5. L’eccezione è infondata. Le Sezioni Unite di questa Corte, nell’arresto n. 25513 del 13/12/2016, hanno chiarito che nel caso in cui il ricorrente, pur non avendo prodotto l’ordinanza d’inammissibilità dell’appello resa ai sensi dell’art. 348 ter c.p.c., abbia comunque assolto l’onere di richiedere il fascicolo d’ufficio alla cancelleria del giudice a quo, il rilievo d’improcedibilità del ricorso ex art. 369 c.p.c., comma 2, c.p.c. è precluso se questa Corte rileva, nell’esercizio del proprio potere officioso, che l’impugnazione sia stata proposta nei sessanta giorni dalla comunicazione o notificazione ovvero, in mancanza dell’una e dell’altra, entro il termine cd. lungo di cui all’art. 327 c.p.c..
6. La produzione dell’ordinanza ex art. 348 ter c.p.c. comunicata o notificata alla parte si pone dunque in funzione strumentale al controllo della tempestività del ricorso, sicché, qualora il ricorrente abbia ritualmente chiesto l’acquisizione del fascicolo d’ufficio ex art. 369 u. c. c.p.c. ed il ricorso risulti comunque tempestivo, non può ritenersi maturata né improcedibilità né inammissibilità per tardività.
7. Nel caso, non è stata necessaria l’acquisizione del fascicolo d’ufficio, pur ritualmente richiesto dall’INPS, onde verificare la tempestività del ricorso, in quanto questo è stato notificato in data 15.6.2018, a meno di 60 gg. dalla data della pronuncia e deposito dell’ordinanza della Corte d’appello, del 19.4.2018, il che ha reso ultronea ogni indagine in ordine alla data della sua comunicazione, certamente successiva al deposito.
8. Con l’unico motivo di ricorso l’INPS deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 3 bis della l. 14 novembre 1992 n. 438, di conversione con modificazioni del d.l. 19 settembre 1992 n. 384 e in connessione con questo della I. 2 agosto 1990 n. 233. Sostiene che l’approdo al quale sono pervenuti i giudici di merito sarebbe frutto di un’erronea ricostruzione in quanto la normativa richiamata distinguerebbe tra imposizione fiscale e imposizione previdenziale, al fine di assicurare un ampio spettro di commisurazione dei contributi previdenziali, coerentemente con la gestione solidaristica del sistema, producendo un effetto positivo sulla posizione del soggetto interessato anche ai fini pensionistici.
9. La questione sottoposta al vaglio di questa Corte attiene al fatto se il lavoratore autonomo, iscritto alla gestione previdenziale in quanto svolgente un’attività lavorativa per la quale sussistono i requisiti per il sorgere della tutela previdenziale obbligatoria, debba parametrare o meno il proprio obbligo contributivo a tutti i redditi percepiti nell’anno di riferimento, tenendo conto anche di quelli da partecipazione a società di capitali nella quale egli non svolge attività lavorativa.
10. Allo scopo occorre premettere che l’art. 3 bis del d.l. 19 settembre 1992, n. 384, convertito con modificazioni dalla I. 14 novembre 1992 n. 438, ha previsto che «A decorrere dall’anno 1993, l’ammontare del contributo annuo dovuto per i soggetti di cui all’art. 1, L. 2 agosto 1990, n. 233, è rapportato alla totalità dei redditi d’impresa denunciati ai fini IRPEF per l’anno al quale i contributi stessi si riferiscono».
11. La disciplina previgente era contenuta nell’art. 1 della l. 02/08/1990, n. 233, che prevedeva al primo comma che «A decorrere dal 1° luglio 1990 l’ammontare del contributo annuo dovuto per i soggetti iscritti alle gestioni dei contributi e delle prestazioni previdenziali degli artigiani e degli esercenti attività commerciali, titolari, coadiuvanti e coadiutori, è pari al 12 per cento del reddito annuo derivante dalla attività di impresa che dà titolo all’iscrizione alla gestione, dichiarato ai fini Irpef, relativo all’anno precedente».
12. Con la nuova disposizione rileva “la totalità” dei redditi d’impresa denunciati ai fini IRPEF, non parlandosi più della sola attività che dà titolo all’iscrizione alla gestione ex art. 1 della l. n. 233 del 1990. Il legislatore ha dunque scelto di distinguere tra elementi sui quali si radica, quale fatto giuridico strutturale, il sorgere della tutela previdenziale in capo al lavoratore autonomo ed elementi ulteriori rispetto ad essi, in relazione ai quali si individua comunque la misura della contribuzione previdenziale dovuta.
13. La differente formulazione della norma realizza chiaramente un ampliamento della base imponibile contributiva, secondo un mutamento normativo che il legislatore ha inteso perseguire, in connessione con il processo di armonizzazione della base imponibile contributiva a quella valevole in ambito tributario.
14. Al fine di individuare quale sia il reddito di impresa rilevante ai fini contributivi, occorre quindi per coerenza di sistema fare riferimento alle norme fiscali, e dunque in primo luogo al testo unico delle imposte sui redditi, D.P.R. 22/12/1986, n. 917.
15. Il suddetto D.P.R. contiene distinte disposizioni onde qualificare i redditi d’impresa rispetto ai redditi di capitale: i primi, a mente dell’art. 55 (nel testo post riforma del 2004) sono quelli che derivano dall’esercizio di attività imprenditoriale, mentre l’art. 44 lettera e) (nel testo post riforma del 2004) ricomprende tra i redditi di capitale gli utili da partecipazione alle società soggette ad IRPEG (ora IRES).
16. Poiché la normativa previdenziale individua, come base imponibile sulla quale calcolare i contributi, la totalità dei redditi d’impresa così come definita dalla disciplina fiscale e considerato che secondo il testo unico delle imposte sui redditi gli utili derivanti dalla mera partecipazione a società di capitali, senza prestazione di attività lavorativa, sono inclusi tra i redditi di capitale, ne consegue che questi ultimi non concorrono a costituire la base imponibile ai fini contributivi INPS.
17. La soluzione che qui viene adottata è del tutto coerente con l’impostazione del sistema come delineata dall’art. 38 II comma della Costituzione, che prevede che la tutela previdenziale spetti ai lavoratori, non a coloro che si limitino ad investire i propri capitali a scopo di utile.
18. Diversamente, per i soci di società di persone opera il principio della trasparenza fiscale, in forza del quale i redditi delle società in nome collettivo e in accomandita semplice, da qualsiasi fonte provengano e quale che sia l’oggetto sociale, sono considerati redditi di impresa e sono determinati unitariamente secondo le norme relative a tali redditi (art. 6 comma 3 del testo post riforma del 2004 del D.P.R. n. 917 del 2016).
19. Ed è proprio il diverso regime dettato per le società di persone da cui deriva il principio, affermato da questa Corte nella sentenza n. 29779 del 2017, secondo il quale ai fini della determinazione dei contributi dovuti dagli artigiani ed esercenti attività commerciali, vanno computati anche i redditi percepiti in qualità di socio accomandante, seppure diversi dal reddito che trova causa nel rapporto di lavoro oggetto della posizione previdenziale.
20. La Corte Costituzionale, nella sentenza n. 354 del 7 novembre 2001, ha ben distinto tra la posizione dei soci (non lavoratori) delle società di capitali e quelli delle società di persone, ove ha ritenuto non fondata, in riferimento all’art. 3 cost., la questione di legittimità costituzionale dell’art. 3 bis d.l. 19 settembre 1992 n. 384, conv., con modif., in l. 14 novembre 1992 n. 438, il quale, sottoponendo a contribuzione INPS i redditi denunciati ai fini IRPEF dal socio accomandante di società in accomandita semplice, introdurrebbe una ingiustificata disparità di trattamento tra socio accomandante di società in accomandita semplice e socio di società di capitali. Ha infatti rilevato che nell’ambito delle società in accomandita semplice (e in quelle in nome collettivo) assume preminente rilievo, a differenza delle società di capitali, l’elemento personale, in virtù di un collegamento inteso non come semplice apporto di ciascuno al capitale sociale, bensì quale legame tra più persone, in vista dello svolgimento di un’attività produttiva riferibile nei risultati a tutti coloro che hanno posto in essere il vincolo sociale, ivi compreso il socio accomandante; né la scelta del legislatore può ritenersi affetta da irragionevolezza, in quanto all’onere contributivo si correla un vantaggio in termini di prestazioni previdenziali ai sensi dell’art. 5 I. 2 agosto 1990 n. 233, in base al quale la misura dei trattamenti è rapportata al reddito annuo di impresa.
21. E’ vero che la Consulta nel richiamato arresto ha rilevato che dall’art. 38, comma 2, Cost., non si desume un’intima e indefettibile correlazione tra contribuzione e reddito di lavoro e che anzi, le più recenti riforme in materia evidenziano sia il passaggio ad una più ampia accezione di base contributiva imponibile, tale da ricomprendere non solo il corrispettivo dell’attività di lavoro, ma anche altre attribuzioni economiche che nella attività stessa rinvengono soltanto mera occasione, sia la convergenza, pur nella rispettiva autonomia di regimi, tra disciplina fiscale e disciplina previdenziale quanto alla definizione della base imponibile.
22. Tale tendenza all’ampliamento della base contributiva deve però di necessita essere contenuto entro i limiti delineati dal legislatore, non potendo giungersi ad estendere in via analogica la portata delle relative previsioni, tra l’altro, come avverrebbe accogliendo la tesi dell’INPS, disattendendo proprio il voluto parallelismo tra disciplina fiscale e disciplina previdenziale.
23. Segue coerente il rigetto del ricorso.
24. Le spese, liquidate come da dispositivo, seguono la soccombenza.
25. Sussistono i presupposti per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, previsto dall’art. 13, comma 1 quater, del d.P.R. 30 maggio 2002 n. 115, introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso. Condanna la parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità, che liquida in complessivi € 3.500,00 per compensi professionali, oltre ad € 200,00 per esborsi, rimborso delle spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.lgs. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
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