CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 25 agosto 2020, n. 17702
Cassa di Previdenza e Assistenza Forense – Sanzione amministrativa pecuniaria per omessa comunicazione dei redditi professionali – Previa contestazione dell’addebito – Disciplina di rango secondario non può derogare alla fonte normativa primaria quale la L. n. 689/1981
Fatti di causa
Con sentenza depositata 1’11.8.2014, la Corte d’appello di Perugia ha confermato la pronuncia di primo grado che aveva dichiarato l’illegittimità della sanzione amministrativa pecuniaria irrogata dalla Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenza Forense all’avv. L. N. per omessa comunicazione dei redditi professionali.
La Corte territoriale, in particolare, ha ritenuto, sulla scorta delle sentenze nn. 9725 del 2000 e 13545 del 2008 di questa Corte di legittimità, che la Cassa non potesse irrogare alcuna sanzione senza previa contestazione dell’addebito, giusta il procedimento di cui alla legge n. 689/1981, e che nessuna rilevanza in contrario poteva avere l’avvenuta adozione, da parte sua, di una diversa regolamentazione della materia delle sanzioni, giusta il disposto dell’art. 4, comma 6-bis, d.l. n. 79/1997 (conv. Con l. n. 140/1997), giacché tale disciplina di rango secondario non avrebbe potuto comunque derogare alla fonte normativa primaria di cui alla legge n. 689/1981, cit. Avverso tali statuizioni ha ricorso per cassazione la Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenza Forense, deducendo un unico e articolato motivo di censura, poi ulteriormente illustrato con memoria. L’avv. L. N. ha resistito con controricorso.
Ragioni della decisione
Con l’unico motivo di censura, la Cassa ricorrente denuncia falsa applicazione dell’art. 2, d.lgs. n. 509/1994, dell’art. 4, comma 6-bis, d.l. n. 79/1997 (conv. con l. n. 140/1997), e dell’art. 1, comma 763,1. n. 296/2006, per avere la Corte di merito ritenuto l’inefficacia della normativa regolamentare da essa adottata nella parte in cui aveva escluso l’applicabilità della legge n. 689/1981 alla materia delle sanzioni: a suo avviso, infatti, l’ampia delegificazione intervenuta in favore degli enti gestori di forme di previdenza obbligatorie per ciò che concerne l’adozione dei provvedimenti utili a salvaguardare l’equilibrio di bilancio e, più specificamente, l’attribuzione ad essi della potestà di adottare «deliberazioni in materia di regime sanzionatorio», siccome previsto dall’art. 4, comma 6-bis, d.l. n. 79/1997, cit., deporrebbero in favore della possibilità di tali enti di derogare alla disciplina di cui alla legge n. 689/1981, che sarebbe pertanto ormai inapplicabile alla materia delle sanzioni da essa irrogate. Il motivo è infondato, ancorché la motivazione della sentenza vada corretta.
E’ senz’altro vero che, in conseguenza dell’entrata in vigore del d.lgs. n. 509/1994, recante attuazione della delega conferita dall’art. 1, comma 32, l. n. 537/1993, in materia di trasformazione in persone giuridiche private di enti gestori di forme obbligatorie di previdenza e assistenza (tra i quali la Cassa Nazionale di Previdenza e Assistenza Forense), si è verificata una sostanziale delegificazione della disciplina relativa sia al rapporto contributivo, che tali enti intrattengono con i loro iscritti, sia al rapporto previdenziale, che concerne le prestazioni che essi sono tenuti a corrispondere ai beneficiari: la determinazione della relativa disciplina è stata infatti affidata dalla legge all’autonomia regolamentare degli enti, i quali, nel rispetto dei vincoli costituzionali ed entro i limiti delle loro attribuzioni, possono dettare disposizioni anche in deroga a disposizioni di legge precedenti (così, in particolare, Cass. n. 24202 del 2009 e, più recentemente, Cass. n. 5287 del 2018).
E’ però altrettanto vero che la potestà di adottare delibere contenenti disposizioni derogatorie alle norme di legge vigenti è stata attribuita agli enti in questione al fine precipuo di assicurare l’equilibrio di bilancio nell’arco di tempo prescritto dal legislatore (così, in particolare, l’art. 2, comma 2, d.lgs. n. 509/1994, e l’art. 1, comma 763, l. n. 296/2006): prova ne sia che questa Corte di legittimità ne ha ricavato un principio tendenziale di tipicità degli atti che a tanto possono provvedere, identificandoli sostanzialmente in provvedimenti di variazione delle aliquote contributive e di riparametrazione dei coefficienti di rendimento o di ogni altro criterio di determinazione del trattamento pensionistico, salvo il rispetto del principio del pro rata (così, espressamente, Cass. n. 24202 del 2009, cit.), ed escludendo, per contro, che la potestà derogatoria si estenda ad es. all’imposizione di una trattenuta (anche sub specie di contributo di solidarietà) su trattamenti che siano già stati determinati in base ai criteri ad essi applicabili, atteso che tali atti darebbero luogo a un prelievo inquadrabile nel genus delle prestazioni patrimoniali ex art. 23 Cost., la cui imposizione è riservata invece al legislatore (così, da ult., Cass. n. 31875 del 2018).
E’ precisamente in questo quadro che va esaminata la questione posta dall’odierna ricorrente, che – come anzidetto – eccepisce l’inapplicabilità della legge n. 689/1981 alla sanzione amministrativa oggetto del presente giudizio.
Va subito rilevato che, rispetto ad essa, non risulta in alcun modo decisivo il richiamo ai precedenti di questa Corte nn. 9725 del 2000 e 13545 del 2008, con i quali è stata affermata la perdurante vigenza della legge n. 689/1981: trattasi infatti di fattispecie in cui l’irrogazione delle sanzioni da parte della Cassa si era avuta in relazione ad illeciti verificatisi prima dell’emanazione dell’art. 4, comma 6-bis, d.l. n. 79/1997 (conv. con l. n. 140/1997), secondo il quale, «nell’ambito del potere di adozione di provvedimenti, conferito dall’articolo 2, comma 2, del decreto legislativo 30 giugno 1994, n. 509, possono essere adottate dagli enti privatizzati di cui al medesimo decreto legislativo deliberazioni in materia di regime sanzionatorio e di condono per inadempienze contributive, da assoggettare ad approvazione ministeriale ai sensi dell’articolo 3, comma 2, del citato decreto legislativo».
Del pari non risulta decisivo il richiamo dei principi enunciati da Cass. n. 13545 del 2008 da parte di Cass. nn. 17258 del 2018 e 27509 del 2019, dal momento che ciò che in tali fattispecie era in discussione era piuttosto la natura amministrativa o meno delle sanzioni irrogate dalla Cassa odierna ricorrente, ai fini dell’applicabilità del termine quinquennale di prescrizione, che invece qui non è oggetto di doglianza alcuna.
Rilevante, piuttosto, è l’individuazione della latitudine della potestà attribuita agli enti privatizzati da parte dell’art. 4, comma 6-bis, d.l. n. 79/1997, dianzi cit.: reputa infatti il Collegio che, essendo stato il potere di adottare «deliberazioni in materia di regime sanzionatorio» attribuito «nell’ambito del potere di adozione di provvedimenti, conferito dall’articolo 2, comma 2, del decreto legislativo 30 giugno 1994, n. 509», ossia allo scopo di «assicurare l’equilibrio di bilancio mediante l’adozione di provvedimenti coerenti alle indicazioni risultanti dal bilancio tecnico da redigersi con periodicità almeno triennale», la potestà in esame debba necessariamente circoscriversi alla commisurazione delle sanzioni irrogabili in relazione alle varie tipologie di illecito, restando invece ad essa estranea, per ciò che qui rileva, la possibilità di derogare alle disposizioni imperative del procedimento individuato al Capo I, sez. II, della legge n. 689/1981.
Nell’individuare, sulla scorta della giurisprudenza costituzionale, il perimetro di legittimità dell’esercizio dei poteri sanzionatori attribuiti alla pubblica amministrazione e ai soggetti che ad essa, a tal fine, debbono ritenersi equiparati, questa Corte di legittimità ha avuto infatti modo di precisare che, essendo la materia soggetta alla riserva relativa di legge di cui all’art. 23 Cost. (così già Cass. nn. 4364 del 1992, 7570 del 1993, 1113 del 1995), è bensì possibile che i precetti individuati dalla legge siano eterointegrati da disposizioni di rango secondario, in virtù delle particolari tecnicalità della dimensione in cui esse sono destinate ad operare (Cass. n. 17602 del 2003), ma non è in alcun modo possibile né che, in assenza di una legge che deroghi all’art. 1, l. n. 689/1981, si introducano sanzioni amministrative mediante fonti secondarie (così Cass. n. 12367 del 1999), né che la normazione secondaria non preveda garanzie in grado di escludere che la discrezionalità attribuita alla pubblica amministrazione e agli enti ad essa equiparati si trasformi in arbitrio (v. in tal senso Cass. nn. 16498 e 17602 del 2003, nonché Cass. S.U. n. 18262 del 2004).
Tra queste garanzie, ad avviso del Collegio, particolare rilievo assumono quelle dettate dagli artt. 13 e 14, l. n. 689/1981, in tema di accertamento e preventiva contestazione dell’addebito, dovendo qui ribadirsi, come già rilevato da Cass. nn. 9725 del 2000 e 13545 del 2008, cit., tanto l’estensione dei principi regolatori della materia delle sanzioni amministrative anche alle sanzioni irrogate dagli enti gestori di forme di previdenza obbligatorie (s’intende, nei limiti di cui all’art. 12, l. n. 689/1981), quanto, soprattutto, il principio secondo cui l’estensione del sistema dell’esecuzione esattoriale ad altre prestazioni imposte dalla legge non implica di per sé che l’ente che se ne assume creditore possa far valere la sua pretesa sanzionatoria manifestandola al debitore per la prima volta attraverso il ruolo ed i conseguenti atti dell’esattore, essendo pur sempre necessario che, ove le somme che si tratta di riscuotere non risultino da una precedente dichiarazione del debitore stesso, vi sia stato in precedenza un procedimento specificamente preordinato al loro accertamento, in cui sia consentito alla parte di avere contezza della violazione che le si attribuisce e di prospettare all’ente gli eventuali errori in cui sia incorso nel ritenere consumata la violazione. E’ dunque alla stregua delle anzidette considerazioni che può senz’altro affermarsi che, non essendo stato autonomamente disciplinato da parte dell’art. 18, l. n. 576/1980 (nel testo risultante dalla modifica apportata dall’art. 9, l. n. 141/1992), il modo di applicazione della sanzione amministrativa pecuniaria prevista per l’omessa o infedele comunicazione, devono al riguardo essere osservate le norme imperative che riguardano l’accertamento e la contestazione della violazione (artt. 13 e 14, l. n. 689/1981); ed essendo stato nel caso di specie accertato che è stata omessa la preventiva contestazione dell’addebito (così la sentenza impugnata, pag. 3), la quale omissione – a norma dell’art. 14, ult. co., l. n. 689/1981 – comporta l’estinzione della sanzione, il motivo di censura si rivela affatto infondato.
Il ricorso, pertanto, va rigettato. La complessità e novità della questione giustificano la compensazione tra le parti del presente giudizio di legittimità. Tenuto conto del rigetto del ricorso, sussistono invece i presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, previsto per il ricorso.
P.Q.M.
rigetta il ricorso. Compensa le spese.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. n. 115/2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.
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