CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 25 febbraio 2020, n. 4990

Tributi – Reddito d’impresa – Cessione immobili – Prezzi di vendita dichiarati considerevolmente inferiori a quelli medi – Onere di prova contraria a carico del contribuente. – Contenzioso tributario – Spese di lite – Determinazione – Superamento da parte del giudice dei limiti minimi e massimi della tariffa forense – Illegittimità

Fatti di causa

La società Artigiani D. di D.D. & C. s.n.c. ed i soci D.D., D.F., D.F., D.A. e D.N. proponevano ricorso avverso gli avvisi di accertamento con i quali l’Agenzia delle Entrate aveva proceduto alla rettifica del reddito d’impresa, ai sensi dell’art. 39 del d.P.R. n. 600 del 1973, per avere riscontrato maggiore imponibile derivante dalla vendita di sei unità immobiliari ed all’accertamento di maggior reddito ai fini Irpef a carico dei soci.

I ricorrenti eccepivano che gli elementi presuntivi offerti dall’Amministrazione finanziaria erano privi dei requisiti di gravità, precisione e concordanza richiesti dall’art. 39 del d.P.R. n. 600 del 1973 e che la differenza del prezzo di vendita relativo ai diversi immobili trovava giustificazione nel fatto che essi erano stati completati con materiali e finiture scelti dalle parti acquirenti, con conseguenti differenze di costo.

La Commissione tributaria provinciale rigettava i ricorsi, osservando che, sebbene i parametri dell’O.M.I. costituissero presunzioni semplici, dovevano considerarsi anche tutti gli altri elementi richiamati dall’Ufficio, quali l’incoerenza dei prezzi di vendita, la dichiarazione di prezzi più alti per le unità acquistate con il mutuo bancario e l’eccessivo maggior valore (oltre il 60 per cento) dell’appartamento venduto nel 2008.

La società ed i soci proponevano appello, che veniva notificato anche all’Istituto Nazionale della Previdenza sociale, eccependo la violazione degli artt. 39 del d.P.R. n. 600 del 1973 e 2729 cod. civ. e richiamando le argomentazioni difensive già fatte valere in primo grado.

La Commissione regionale dichiarava la carenza di legittimazione passiva dell’Istituto Nazionale della Previdenza sociale, condannando le parti appellanti al rimborso in suo favore delle spese di lite, e rigettava gli appelli proposti nei confronti della Agenzia delle entrate.

In particolare, osservava che l’Ufficio, avendo riscontrato che i prezzi di vendita dichiarati risultavano considerevolmente inferiori a quelli medi rilevati dall’Osservatorio del Mercato Immobiliare dell’Agenzia del Territorio, aveva evidenziato tale differenza anche attraverso il raffronto con i prezzi di vendita risultanti dagli annunci pubblicitari (riferiti ad immobili di tipologia e ubicazione analoga), con i diversi prezzi di vendita tra appartamenti facenti parte dello stesso fabbricato e con l’eccessiva plusvalenza dell’appartamento venduto quattro anni dopo ad un prezzo superiore al 58 per cento.

L’Amministrazione finanziaria, secondo i giudici d’appello, aveva dimostrato che le presunzioni avevano le caratteristiche previste dall’art. 2729 cod. civ., mentre le parti contribuenti non avevano offerto idonea prova contraria, ma si erano limitate a contestare l’operato dell’Amministrazione.

La società Artigiani D. di D.D. e C. s.n.c. ed i soci D.N., D.F., D.F., D.D. e D.A. ricorrono per la cassazione della sentenza di appello, con tre motivi.

La Agenzia delle Entrate ha depositato atto di costituzione e l’Inps resiste mediante controricorso.

In prossimità dell’udienza pubblica del 17 settembre 2018 le parti ricorrenti, dichiarando di avere aderito alla definizione agevolata di cui al d.l. n. 148 del 2017, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 172 del 2017, che prevedeva il pagamento rateale degli importi dovuti, hanno depositato istanza con la quale hanno chiesto il differimento della udienza, essendo prevista la scadenza del 30 settembre 2018 per il versamento dell’ultima rata ed il perfezionamento della procedura amministrativa.

Questa Corte ha rinviato la causa a nuovo ruolo al fine di consentire la definizione della pratica di agevolazione fiscale della lite.

Motivi della decisione

1. Va, preliminarmente, rilevato che le parti ricorrenti non hanno dimostrato, mediante la produzione di idonea documentazione, di avere provveduto alla definizione della pratica di agevolazione fiscale della lite.

La documentazione allegata all’istanza di differimento depositata in prossimità dell’udienza pubblica del 17 settembre 2018 – quietanze di pagamento e comunicazioni delle somme dovute da parte di Equitalia s.p.a. – non consente di chiarire se la definizione agevolata si riferisca agli avvisi di accertamento oggetto di impugnazione e manca la prova dell’integrale pagamento degli importi quantificati dall’Ente impositore.

Non potendo considerarsi cessata la materia del contendere, deve, quindi, procedersi all’esame dei motivi di ricorso.

2. Con il primo motivo i ricorrenti deducono <<omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per la decisione: insussistenza, erroneità ed illogicità delle argomentazioni addotte dalla Commissione tributaria regionale circa l’applicazione degli artt. 39 d.P.R. n. 600 del 1973, 2697 e 2729 cod. civ. ed alla valutazione degli elementi probatori forniti dai contribuenti in appello al fine di provare la regolarità delle operazioni effettuate>> e lamentano che la sentenza impugnata è carente, illogica e contraddittoria laddove qualifica come <<gravi, precise e concordanti» le presunzioni fornite dall’Amministrazione.

Sostengono che i giudici di appello non hanno spiegato le ragioni per cui hanno valutato sufficienti elementi quali la differenza dei prezzi praticati dalla società rispetto ai valori medi dell’Osservatorio del Mercato Immobiliare, la differenza dei prezzi praticati dalla società rispetto a quelli presenti in alcuni annunci pubblicitari relativi alla medesima zona e l’eccessiva plusvalenza generata dalla successiva vendita di una delle sei unità immobiliari oggetto dell’accertamento, né hanno chiarito per quali motivi gli elementi probatori offerti dai contribuenti non siano stati ritenuti idonei a contestare la legittimità dell’operato dell’Ufficio.

2.1. La censura è infondata.

2.2. Secondo il costante orientamento giurisprudenziale di questa Corte, <<in tema di prova per presunzioni, il giudice, posto che deve esercitare la sua discrezionalità nell’apprezzamento e nella ricostruzione dei fatti in modo da rendere chiaramente apprezzabile il criterio logico posto a base della selezione delle risultanze probatorie e del proprio convincimento, è tenuto a seguire un procedimento che si articola necessariamente in due momenti valutativi: in primo luogo, occorre una valutazione analitica degli elementi indiziari per scartare quelli intrinsecamente privi di rilevanza e conservare, invece, quelli che, presi singolarmente, presentino una positività parziale o almeno potenziale di efficacia probatoria; successivamente, è doverosa una valutazione complessiva di tutti gli elementi presuntivi isolati per accertare se essi siano concordanti e se la loro combinazione sia in grado di fornire una valida prova presuntiva, che magari non potrebbe dirsi raggiunta con certezza considerando atomisticamente uno o alcuni di essi. Ne consegue che deve ritenersi censurabile in sede di legittimità la decisione in cui il giudice si sia limitato a negare valore indiziario agli elementi acquisiti in giudizio senza accertare se essi, quand’anche singolarmente sforniti di valenza indiziaria, non fossero in grado di acquisirla ove valutati nella loro sintesi, nel senso che ognuno avrebbe potuto rafforzare e trarre vigore dall’altro in un rapporto di vicendevole completamento>> (Cass. n. 9108 del 6/6/2012; Cass. n. 17183 del 26/8/2015; Cass, sez. 6-5, ord. n. 5374 del 2/3/2017) e secondo crismi di ragionevole probabilità e non necessariamente di certezza (Cass. n. 4306 del 23/2/2010).

2.3. La sentenza impugnata risulta avere fatto corretta applicazione di tali principi di diritto, avendo specificamente indicato e valutato, secondo le modalità sopra descritte, il materiale indiziario sulla base del quale ha espresso il proprio giudizio di merito.

In particolare, la Commissione regionale, dopo avere precisato che il reddito dichiarato è stato rettificato con accertamento analitico-induttivo previsto dall’art. 39, comma 1, lett. d), d.P.R. n. 600 del 1973, ha rilevato che l’Amministrazione, <<…partendo dal fatto che i prezzi di vendita dichiarati erano considerevolmente inferiori a quelli medi rilevati dall’Osservatorio del Mercato Immobiliare dell’Agenzia del Territorio, con riferimento alla tipologia degli immobili compravenduti, alla zona omogenea in cui erano ubicati ed alla data di stipulazione degli atti, ha evidenziato tale differenza anche attraverso il raffronto con i prezzi di vendita rilevati dagli annunci immobiliari (riferiti a immobili di tipologia e ubicazione analoga), con l’incoerenza dei prezzi di vendita tra appartamenti facenti parte dello stesso fabbricato (differenza di prezzo di oltre il 20%) e con l’eccessiva plusvalenza dell’appartamento venduto quattro anni dopo ad un prezzo superiore al 58% >>.

Ha, inoltre, escluso che la società contribuente ed i soci avessero provato con idonea documentazione le ragioni addotte per spiegare la rilevata discrasia tra i prezzi di vendita praticati ed il valore di mercato delle unità immobiliari oggetto di compravendita, non giustificabile con l’utilizzo di materiali diversi e con la realizzazione di finiture diverse.

Il giudice di appello non si è quindi limitato a negare valore indiziario a singoli elementi acquisiti in giudizio, ma ha proceduto ad una valutazione complessiva delle risultanze istruttorie, addivenendo al convincimento che gli elementi posti dall’Agenzia delle Entrate a fondamento degli atti impositivi integrassero presunzioni dotate dei requisiti di gravità, precisione e concordanza, in conformità a quanto previsto dall’art. 2729 cod. civ., ed escludendo al contempo che le argomentazioni difensive dei contribuenti potessero confutare la legittimità dell’operato dell’Ufficio.

Il prospettato vizio di motivazione non è, dunque, ravvisabile, in quanto i ricorrenti, riproponendo deduzioni difensive già fatte valere in grado di appello e, quindi, già sottoposte all’esame del giudice di merito, non hanno indicato alcun <<fatto>>, dedotto e non adeguatamente valutato nella sentenza impugnata, idoneo a giustificare una decisione diversa da quella assunta, ma si sono limitati a denunciare in blocco la valutazione compiuta dai giudici e a proporne una diversa.

Risulta, infatti, integrato il vizio di omessa o insufficiente motivazione, di cui all’art. 360, comma 1, n. 5, cod. proc. civ., solo quando, dal compendio giustificativo sviluppato a supporto della decisione, emerga la totale obliterazione di elementi che potrebbero condurre ad una diversa soluzione o sia evincibile un’obiettiva carenza dell’iter logico-argomentativo che ha portato il giudice a regolare la vicenda al suo esame in base alla regola concretamente applicata, mentre, a sua volta, il vizio di contraddittorietà si rende ravvisabile solo in presenza di argomentazioni contrastanti e tali da non permettere di comprendere la ratio decidendi posta a fondamento della decisione adottata (Cass. n. 12967 del 24/05/2018).

Questa Corte ha chiarito che il vizio di omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione di cui all’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., nel testo applicabile ratione temporis, deve essere articolato mediante l’esposizione chiara del fatto controverso, in relazione al quale la motivazione si assume omessa o contraddittoria, fornendo elementi in ordine al carattere decisivo di tale fatto, che non deve attenere a mera questione o punto, dovendosi configurare in senso storico o normativo e potendo rilevare solo come fatto principale ex art. 2697 cod. civ. (costitutivo, modificativo, impeditivo o estintivo) o anche fatto secondario (Cass. n. 29883 del 2017).

Peraltro, va ribadito che la deduzione di un vizio di motivazione della sentenza impugnata con ricorso per cassazione conferisce al giudice di legittimità, non il potere di riesaminare il merito della intera vicenda processuale sottoposta al suo vaglio, ma la sola facoltà di controllo, sotto il profilo della correttezza giuridica e della coerenza logico – formale, delle argomentazioni svolte dal giudice del merito, al quale spetta, in via esclusiva, il compito di individuare le fonti del proprio convincimento, di assumere e valutare le prove, di controllarne l’attendibilità e la concludenza, di scegliere, tra le complessive risultanze del processo, quelle ritenute maggiormente idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi, dando così liberamente prevalenza all’uno o all’altro dei mezzi di prova acquisiti, salvo i casi tassativamente previsti dalla legge. Ne consegue che il preteso vizio di motivazione, sotto il profilo della omissione, insufficienza, contraddittorietà della medesima, può legittimamente dirsi sussistente solo quando, nel ragionamento del giudice di merito, sia rinvenibile traccia evidente del mancato (o insufficiente) esame di punti decisivi della controversia, prospettati dalle parti o rilevabili di ufficio, ovvero quando esista insanabile contrasto tra le argomentazioni complessivamente adottate, tale da non consentire l’identificazione del procedimento logico – giuridico posto a base della decisione (Cass. n. 19547 del 4/8/2017).

Il motivo è, quindi, infondato, in quanto, anche sotto le mentite spoglie di violazione di legge, le censure afferiscono esclusivamente al merito della controversia, già compiutamente valutato, senza vizi logici e giuridici, dai giudici di merito.

3. Con il secondo motivo i ricorrenti denunciano << violazione e falsa applicazione di norme di diritto (art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.): carenza di interesse ad agire, erronea qualificazione di parte processuale in capo a I.N.P.S. – Istituto Nazionale della Previdenza Sociale – e conseguente erronea liquidazione delle spese di lite in suo favore; violazione degli artt. 91 e 100 cod. proc. civ. e 10 d.lgs. n. 546/1992>>.

Assumono che la decisione impugnata ha erroneamente qualificato come terzo chiamato in causa l’Istituto Nazionale di Previdenza Sociale, accogliendo la eccezione di carenza di legittimazione passiva e liquidando in suo favore, a titolo di spese processuali, la somma di euro 4.230,00, oltre accessori di legge, non considerando che l’Inps non è stato destinatario di un atto di chiamata in causa e di una domanda giudiziale, né risulta menzionato quale parte del giudizio di appello nel ricorso notificato in data 7 aprile 2011, con conseguente inammissibilità della sua costituzione in giudizio.

Precisano che gli avvisi di accertamento oggetto di impugnazione riguardano anche somme asseritamente dovute all’Inps in misura maggiore rispetto a quanto versato a titolo di contributi previdenziali e che, per tale motivo, essi hanno provveduto ad inoltrare, per conoscenza, all’Ente previdenziale una copia del ricorso in appello, e ciò nell’ambito delle trattative intercorse dalle parti finalizzate a ripristinare l’operatività del DURC, necessario per lo svolgimento dell’attività.

3.1. L’Inps nel controricorso ha fatto presente che gli odierni ricorrenti hanno notificato il ricorso in appello all’Istituto e che, di conseguenza, l’effetto processuale di tale notifica non poteva che essere quello di evocarlo in giudizio.

3.2. Il motivo è infondato.

Sebbene l’Inps non sia stato destinatario di una domanda, è pacifico che l’atto di appello gli è stato notificato a mezzo lettera raccomandata e che, di conseguenza, del tutto legittimamente l’Istituto, quale destinatario della notifica, ha ritenuto di costituirsi in giudizio mediante deposito di comparsa di costituzione.

La Commissione regionale, rilevando che l’Istituto non era stato parte del giudizio di primo grado, ha accolto l’eccezione preliminare dallo stesso proposta e condannato la parte appellante al rimborso delle spese di lite sostenute dall’istituto previdenziale.

La decisione impugnata non ha, dunque, qualificato l’Inps quale terzo chiamato in causa, ma ha piuttosto dichiarato la sua carenza di legittimazione passiva per non essere stato parte del giudizio di primo grado e va, pertanto, esente dalle censure ad essa rivolte.

4. Con il terzo motivo – rubricato: <<violazione e falsa applicazione di norme di diritto: liquidazione delle spese in violazione dell’art. 91 cod. proc. civ., dell’allora vigente tariffario forense (d.m. 127/2004) e dell’art. 15, comma 2-bis, d.lgs. n. 546 del 1992 (art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.) ed omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione circa un fatto controverso e decisivo per la decisione, anche in relazione all’art. 5, comma 2, d.m. n. 127 del 2004 (art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ.)>> – lamentano che la liquidazione della somma di euro 18.324,00 in favore dell’Agenzia delle Entrate, tenuto conto del valore della controversia, pari ad euro 254.551,67, e non ad euro 354.551,67 erroneamente richiamato in sentenza, è superiore ai massimi previsti dalla Tariffa forense allora vigente, decurtati del 20 per cento, ai sensi dell’art. 15, comma 2-bis, d.lgs. n. 546 del 1992.

4.1. Il motivo è fondato.

4.2. Occorre rammentare che questa Corte ha chiarito che il superamento da parte del giudice dei limiti minimi e massimi della tariffa forense nella liquidazione delle spese giudiziali configura un vizio in iudicando e pertanto, per l’ammissibilità della censura è necessario che nel ricorso per cassazione siano specificati i singoli conteggi contestati e le corrispondenti voci della tariffa professionale violate al fine di consentire alla Corte il controllo di legittimità senza dover espletare una inammissibile indagine sugli atti di causa (Cass. n. 270 del 11/1/2016; Cass. n. 10409 del 20/5/2016; Cass. n. 22983 del 29/10/2014; Cass. n. 3651 del 16/2/2007).

Nel caso di specie la censura formulata non risulta generica ed è pertanto ammissibile, considerato che i ricorrenti, pur in assenza di una specificazione da parte del giudice di merito delle singoli voci della tariffa in concreto liquidate, hanno indicato il valore della causa e lo scaglione di riferimento e, al fine di dimostrare il superamento degli importi massimi previsti nel tariffario forense, hanno elaborato un prospetto riassuntivo, sia con riguardo agli onorari sia con riguardo ai diritti, nel quale sono state puntualmente indicate le singole prestazioni svolte e, in relazione a ciascuna di esse, l’importo minimo e quello massimo previsto nella tariffa; hanno inoltre sviluppato un doppio calcolo degli onorari e delle competenze applicando nel primo caso il raddoppio delle voci di onorario, ai sensi dell’art. 5, comma 2, d.m. n. 127 del 2004, secondo cui <<nelle cause di particolare importanza per le questioni giuridiche trattate, la liquidazione degli onorari a carico del soccombente può arrivare fino al doppio dei massimi stabiliti>>, sebbene non vi sia alcun riferimento a tale disposizione normativa in sentenza, mentre nel secondo hanno escluso l’applicabilità del raddoppio.

4.3. Tanto premesso, secondo il consolidato orientamento di questa Corte, in tema di spese processuali, il giudice, nel pronunciare la condanna della parte soccombente al rimborso delle spese e degli onorari, in favore della controparte, deve liquidarne l’ammontare separatamente, con la conseguente illegittimità della mera indicazione dell’importo complessivo e della mancata specificazione degli onorari e delle spese, in quanto non consente il controllo sulla correttezza della liquidazione, anche in ordine al rispetto delle relative tabelle (Cass., sez. 5, n. 6338 del 10/03/2008; Cass. n. 24890 del 25/11/2011; Cass., sez. 6-5, ord. n. 19623 del 30/9/2016).

La Commissione regionale non risulta essersi conformata a tale orientamento, poiché ha liquidato in via cumulativa le spese giudiziali, omettendo di specificare il valore della controversia, le singole voci riconosciute e le tariffe forensi in concreto applicate, in violazione dell’obbligo di motivazione, e, pertanto, la sentenza sul punto deve essere cassata.

5. In conclusione, vanno rigettati il primo ed il secondo motivo di ricorso e, in accoglimento del terzo motivo di ricorso, la sentenza impugnata va cassata con rinvio della causa alla Commissione tributaria regionale del Veneto, in diversa composizione, cui va demandata anche la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.

P.Q.M.

Rigetta il primo ed il secondo motivo di ricorso ed accoglie il terzo motivo; cassa la sentenza impugnata in relazione alla censura accolta e rinvia la causa alla Commissione tributaria regionale del Veneto, in diversa composizione, cui demanda anche la liquidazione delle spese del giudizio di legittimità.