CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 25 giugno 2020, n. 12640
Professionisti – Avvocati – Compensi professionali
Fatti di causa
1. Con atto di citazione del 25 marzo 2004 la società W.E. s.r.l. conveniva in giudizio l’avv. G.L., chiedendo al Tribunale di Milano di accertare che non era debitrice della somma di euro 1.273.538, liquidata in favore della convenuta dal Consiglio dell’ordine degli avvocati di Milano per compensi professionali, e altresì di dichiarare l’esistenza tra le parti di un accordo in base al quale i compensi per le prestazioni professionali rese dalla convenuta dovevano essere liquidati in base a una tariffa oraria o in base al valore della controversia, tenuto conto che le prestazioni – relative a un contenzioso insorto con l’Agenzia delle entrate scaturito da una verifica fiscale e dalla successiva contestazione di violazioni di disposizioni tributarie e poi chiuso con accordo transattivo – riguardavano un periodo di tempo circoscritto tra novembre 2002 e febbraio 2003. Successivamente, con diverso atto di citazione del 2 luglio 2004, la società W.E. proponeva opposizione al decreto n. 17994/2004, con cui il Tribunale di Milano le aveva ingiunto il pagamento della somma di euro 1.176.178,21 in favore dell’avv. L.. Costituendosi in giudizio, la convenuta eccepiva la nullità di entrambi gli atti introduttivi per carenza di idonea procura alle liti e chiedeva nel merito, oltre al rigetto delle avversarie pretese, l’accoglimento della propria domanda riconvenzionale di condanna della società attrice al pagamento in suo favore della somma di euro 2.674.962,60.
Disposta la riunione dei giudizi, si costituivano volontariamente lo Studio Legale Tributario E.Y. e lo Studio Legale A.T., che intervenivano per fare accertare che nel periodo marzo 2001-ottobre 2002 l’avv. L. aveva prestato la propria opera professionale in qualità di socia dello studio e che il suo corrispettivo, già saldato, era stato stabilito convenzionalmente in base al tariffa oraria.
Con sentenza n. 943/2009, il Tribunale di Milano accoglieva l’opposizione al decreto ingiuntivo, disponendone la revoca, e determinava il compenso spettante all’avv. L. nella somma di euro 180.117,70.
2. Avverso la sentenza proponeva appello principale G.L., chiedendo l’integrale riforma della pronuncia. W.E. s.r.l. proponeva a sua volta appello incidentale, chiedendo la rideterminazione del compenso dovuto sulla base di tariffa oraria.
Con sentenza 29 ottobre 2014, n. 3825, la Corte d’appello di Milano ha rigettato sia l’appello principale che quello incidentale, confermando la pronuncia impugnata.
3. Contro la sentenza ricorre per cassazione G.L..
Resiste con controricorso W.E. s.r.l.
Gli intimati Studio Associato Legale Tributario in liquidazione e Studio Legale Tributario non hanno proposto difese.
La ricorrente ha depositato memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c.
Ragioni della decisione
1. Il ricorso è articolato in cinque motivi.
a) Il primo motivo – rubricato “nullità della sentenza o del procedimento per violazione dell’art. 132 c.p.c. e 111 Cost., omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti” – è diviso in due sezioni: nella prima (pp. 10- 34) si lamenta che “l’estrema sintesi della motivazione della sentenza impugnata si risolve in una mera apparenza di motivazione che, sotto diverso profilo e sulla base del testo, è in ogni caso obiettivamente incomprensibile”; nella seconda (pp. 34-36) che la Corte d’appello avrebbe “totalmente omesso l’esame dei fatti storici risultanti dagli atti processuali di questo giudizio”, che se esaminati “avrebbero portato ad una diversa decisione sia in ordine al diverso valore della controversia e ai parametri per la liquidazione degli onorari che in ordine all’esistenza di un concorso tra professionisti e al criterio da impiegare per la valutazione e la ripartizione del compenso dovuto all’attività di ognuno”.
Il motivo non può essere accolto. È infondato per quanto concerne la prima sezione: la motivazione della sentenza impugnata non è apparente, ma risponde pienamente al dettato di cui all’art. 132, comma 2, n. 4 c.p.c., che identifica il contenuto della medesima nella “concisa esposizione delle ragioni di fatto e di diritto della decisione” (cfr. al riguardo Cass., sez. un. 8038/2018, per cui “risulta denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali [..], esclusa qualunque rilevanza del semplice difetto di sufficienza della motivazione”). È poi inammissibile per quanto riguarda la seconda sezione, in cui si anticipano gli argomenti che stanno alla base dei successivi terzo e quarto motivo (infra, sub c e d), elencando una serie di “fatti storici” di cui sarebbe stato omesso l’esame (v. il riassunto alle pp. 34-36 del ricorso), senza formulare una censura che abbia una sua autonomia.
b) Il secondo motivo contesta “violazione degli artt. 1362 ss. c.c., 75, 77, 100, 115 c.p.c. e 2475-bis c.c. in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.”, per avere la Corte d’appello rigettato l’eccezione della ricorrente, già proposta al giudice di primo grado, di invalidità della procura alle liti conferita da W.E. s.r.l., stante la carenza di potere rappresentativo di carattere sostanziale in capo al firmatario della procura. Dall’art. 20 dello statuto della società risulterebbe infatti – a differenza di quanto affermato dai giudici di merito – che la rappresentanza legale della società in giudizio, con la relativa facoltà di nomina dei difensori, spetta unicamente al presidente del consiglio di amministrazione nonché, se nominati, ai consiglieri delegati e, in ogni caso, la procura rilasciata dal presidente del consiglio di amministratore specifica i poteri conferiti al procuratore, specificazione da cui non risulterebbe alcun potere istitorio.
Il motivo è infondato. Il giudice d’appello ha anzitutto confermato l’interpretazione fornita dal giudice di primo grado dell’art. 20 dello statuto della società W.: dall’art. 20, in base al quale “la rappresentanza legale della società spetta al presidente del consiglio di amministrazione, all’amministratore unico o ai coamministratori ed il consiglio può delegare l’uso della firma sociale ad uno o più membri del comitato esecutivo e può nominare direttori nonché procuratori ad negotia e mandatari in genere per determinati atti o categorie di atti, anche con facoltà di delega”, i giudici di merito hanno ricavato che lo statuto della società W. non pone limiti all’esercizio di tale facoltà di delega, anche da parte dell’amministratore unico e dei singoli amministratori, delega che può avere ad oggetto attività di natura sia sostanziale che processuale, con interpretazione plausibile che, come tale, non è censurabile da parte di questa Corte di legittimità. La procura, poi, in concreto conferita dal presidente del consiglio di amministrazione (nominato amministratore delegato e direttore generale con poteri di rappresentanza legale e amministrazione ordinaria e straordinaria e facoltà di sub-delega) al dirigente preposto alla direzione legale della società, è stata qualificata come delega generale a svolgere sia attività di carattere processuale che sostanziale, implicando le attività indicate nell’atto un generale potere di disposizione del diritto sostanziale. I giudici di merito, pertanto, hanno correttamente seguito l’orientamento di questa Corte per cui, nelle società di capitali, “il potere di rappresentanza spetta agli amministratori i quali possono conferirlo, in base allo statuto o alle determinazioni dell’organo deliberativo, anche a soggetti che siano preposti a un settore con poteri di rappresentanza sostanziale o inseriti con carattere sistematico nella gestione sociale o in un suo ramo” (Cass. 14455/2003), con la precisazione che, “premesso che non può essere attribuita la rappresentanza processuale quando non risulti conferita al medesimo soggetto anche la rappresentanza sostanziale in ordine al rapporto dedotto in giudizio, la procura che conferisca il potere di decidere, a nome della società, le modalità di definizione dei rapporti controversi – quindi anche se transigere, sottoporre la questione al giudice o agli arbitri, o resistere – non può essere interpretata quale conferimento di rappresentanza di ordine meramente processuale, atteso che l’anzidetto potere di scegliere ed attuare la migliore soluzione dei rapporti stessi rivela tipiche caratteristiche sostanziali e negoziali, comprendendo in sé, e precedendo logicamente, quello di costituirsi in giudizio” (Cass. 27284/2006) e “l’espressa attribuzione del potere di rappresentanza processuale (con relativa facoltà di nomina dei difensori) al capo dell’ufficio legale territoriale di una grande impresa implica il potere di questi di agire anche agli effetti sostanziali per i rapporti riferibili al settore aziendale di competenza indipendentemente dal conferimento di specifiche procure, in quanto il potere di rappresentanza sostanziale costituisce l’effetto naturale della collocazione del suddetto soggetto nell’organizzazione dell’impresa” (Cass. 15955/2001).
c) Il terzo motivo denuncia “violazione degli art. 10, 11, 112, 115, 167 c.p.c., dell’art. 2233, commi 1 e 2, c.c., dell’art. 10, comma 1, c.p.c. in relazione al d.m. 5 ottobre 1994, n. 585 e alle deliberazioni del Consiglio nazionale forense 12 giugno 1993 e 29 settembre 1194, in G.U. 24 ottobre 1994, n. 247, artt. 1, comma 2, e 5, comma 6, con riferimento all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.”, per avere la Corte d’appello confermato la determinazione dell’ammontare del compenso, operata dal primo giudice sulla base del valore delle sole imposte dovute dalla società, senza tenere conto che nel caso di specie, sin dai primi atti di accertamento, l’Amministrazione finanziaria ha fatto menzione delle sanzioni da irrogare in relazione a ciascuna violazione contestata, sanzioni che dunque dovevano concorrere alla determinazione del valore della pratica.
Il motivo è infondato. Il giudice d’appello – come quello di primo grado – ha correttamente applicato la norma specificamente dettata “per l’assistenza in pratiche in materia tributaria” dal comma 6 dell’art. 5 delle tariffe forense (d.m. 585/1994, Regolamento recante approvazione della delibera del Consiglio nazionale forense in data 12 giugno 1993, che stabilisce i criteri per la determinazione degli onorari, dei diritti e delle indennità spettanti agli avvocati ed ai procuratori legali per le prestazioni giudiziali, in materia civile e penale, e stragiudiziali), per il quale “si ha riguardo al valore dell’imposta, tassa o contributo richiesti con il limite di un quinquennio in caso di oneri poliennali”. I giudici di merito hanno conseguentemente ritenuto che il valore da considerare fosse quello relativo alla maggiori imposte richieste a seguito del verbale di accertamento.
d) Il quarto motivo denuncia “violazione e falsa interpretazione degli artt. 112 e 115 c.p.c., 2697, 2729 e 2233 c.c. in relazione al d. m. 5 ottobre 1994, n. 585 e alle deliberazioni del Consiglio nazionale forense 12 giugno 1993 e 29 settembre 1194, in G.U. 24 ottobre 1994, n. 247”, per non avere la Corte d’appello posto a fondamento della propria decisione le prove acquisite e i fatti pacifici e non contestati dalla controparte, omettendo ogni tipo di verifica circa l’attività realmente svolta da ciascun professionista (oltre alla ricorrente, il prof. T. e il dott. B.) in relazione al compenso riconosciuto.
Il motivo non può essere accolto. La ricorrente, riproponendo le doglianze già fatte valere innanzi al giudice d’appello e da questa respinte, chiede a questa Corte di valutare gli elementi di fatto che hanno portato i giudici di merito a ritenere che la transazione conclusa con l’Amministrazione finanziaria sia stata il frutto non della sola attività della ricorrente, ma della collaborazione con altri due professionisti, e che l’attività svolta dalla medesima nel periodo di tempo considerato sia consistita nella semplice continuazione dell’attività precedentemente svolta, valutazione degli elementi di fatto che non può, ove sia – come nel caso in esame – motivata, essere censurata in sede di legittimità.
e) Con il quinto motivo si denuncia “violazione o falsa applicazione degli artt. 100, 105, 112, 167, 268 c.p.c., in relazione all’art. 360, comma 1, n. 3, c.p.c.”, per non avere la Corte d’appello motivato circa le eccezioni sollevate dalla ricorrente di improponibilità e/o inammissibilità delle domande proposte dai terzi intervenuti perché tardive, nonché di inammissibilità dell’intervento stesso per carenza di interesse.
Il motivo non può essere accolto. La ricorrente contesta che il giudice d’appello, nel confermare la sentenza di primo grado “dichiarando assorbito ogni ulteriore motivo d’appello”, abbia confermato il rigetto delle eccezioni di inammissibilità delle domande proposte dai terzi intervenuti e del loro stesso intervento senza motivare sul punto. Tale contestazione viene però effettuata non sotto il profilo del vizio in procedendo, ma erroneamente richiamando la violazione o falsa applicazione delle disposizioni in materia di intervento. In realtà, non è comunque ravvisabile il vizio denunciato, in quanto il giudice d’appello, nel confermare la decisione di primo grado, ha fatto sua la motivazione del Tribunale, che aveva qualificato l’intervento – intervento che, a differenza di quanto sostiene la ricorrente, è proponibile sino all’udienza di precisazione delle conclusioni, art. 268, comma 1 c.p.c. – come meramente adesivo rispetto alla posizione fatta valere da W., senza la proposizione di autonome domande (così che non è prospettabile un eventuale problema della loro tardività) e il cui interesse era stato identificato nella “equivocità delle richieste e delle argomentazioni” fatte valere dalla ricorrente. Si veda d’altro canto p. 3 della sentenza impugnata, ove si legge che i terzi erano volontariamente intervenuti, all’udienza del 30 novembre 2004, “ad adiuvandum, per far accertare che, nel periodo marzo 2001-ottobre 2002, l’avv. L. aveva prestato la propria opera professionale in qualità di socia dello studio ed il suo corrispettivo, peraltro già saldato, era stato stabilito convenzionalmente sulla base del criterio orario”.
2. Il ricorso va quindi rigettato.
Le spese, liquidate in dispositivo, seguono la soccombenza.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.p.r. n. 115/2002, si dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, se dovuto, da parte della ricorrente dell’importo a titolo di contributo unificato, pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 – bis dello stesso art. 13.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio in favore della controricorrente che liquida in euro 10.200, di cui euro 200 per esborsi, oltre spese generali (15%) e accessori di legge.
Sussistono, ex art. 13, comma 1-quater del d.p.r. n. 115/2002, i presupposti per il versamento, se dovuto, da parte della ricorrente dell’importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso.
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