CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 25 maggio 2018, n. 13122
Tributi – IVA – Fatture per cessioni intracomunitarie oggettivamente inesistenti – Inesistenza dell’invio della merce all’estero – Assoggettamento dell’operazione ad IVA
Ritenuto in fatto
(…) (S.G.N.) Spa impugnava l’avviso di accertamento per l’anno d’imposta 2005 per Ires, Irap e Iva emesso dall’Agenzia delle Entrate per l’omessa dichiarazione di una plusvalenza realizzata con una cessione d’azienda alla I. Srl, per l’omessa dichiarazione di una quota di un canone di locazione, nonché per l’indebita detrazione di costi ed Iva su operazioni oggettivamente inesistenti e per il mancato pagamento dell’Iva su operazione parimenti inesistenti e relative a cessioni intracomunitarie.
L’impugnazione, accolta dalla Commissione tributaria provinciale di Firenze, era respinta dalla CTR della Toscana ad eccezione della ripresa per omesso pagamento dell’Iva su cessioni intracomunitarie inesistenti.
La contribuente ricorre per cassazione sulla base di sette motivi; resiste l’Agenzia delle entrate mediante controricorso e proponendo altresì ricorso incidentale con due motivi. La contribuente replica con ulteriore controricorso e con ricorso incidentale condizionato.
Ragioni della decisione
1. Il primo motivo del ricorso principale denuncia, ai sensi dell’art. 360, n. 3, c.p.c., la violazione e falsa applicazione dell’art. 86, comma 5, tuir.
Il ricorrente lamenta che il giudice d’appello abbia escluso la non imponibilità della plusvalenza realizzata dalla vendita dell’azienda perché non effettuata in esecuzione del concordato ma solo nel corso della procedura.
1.1. Il motivo è infondato.
1.2. La complessa vicenda oggetto del giudizio, solo in parte ricostruita dal giudice d’appello ma chiaramente definita nei suoi contorni dalle parti, può essere delineata nei seguenti termini:
a. La società I. Spa, a seguito di dissesto finanziario (per una serie di operazioni che avevano interessato anche la Procura della Repubblica) intervenuto nei primi mesi del 2005, aveva avviato un programma di ristrutturazione che prevedeva:
a. 1. la modifica della denominazione sociale in quella, attuale, di S.G.N. Spa;
a. 2. la costituzione di una nuova società I. 3 (avvenuta il 28.4.2005), i cui soci erano la S.G.N. al 60%, M.G. al 20% e I. A. al 20%, questi ultimi già soci della S.G.N.;
a. 3 scopo della nuova società era quello, da un lato, di conferire ad essa l’azienda della S.G.N. mediante contratto di affitto di azienda con l’obbligo di acquisto (per un prezzo non inferiore a € 1.200.000,00), e, dall’altro, di far intervenire nella nuova società i creditori in proporzione ai crediti vantati nella misura del 40%.
b. Detto piano, poi, veniva fatto confluire in una proposta di concordato preventivo con prosecuzione dell’attività ai sensi del d.l. n. 35 del 2005; il Tribunale di Firenze, con decreto del 22 giugno 2005, ammetteva, in effetti, la S.G.N. alla suddetta procedura di concordato.
c. Successivamente, peraltro, intervenivano significative deviazioni rispetto all’originario progetto e precisamente:
c.1. in data 13 settembre 2005 la quota del 60% della I. 3 detenuta dalla S.G.N. veniva ceduta ai sig.ri M.G., M.C.P. e G.I., sicché il 100% della I. 3 apparteneva alle famiglie M. e I.; c.2. in data 15 settembre 2005, tra la S.G.N. e la I. 3 veniva stipulato un contratto di affitto d’azienda e, contestualmente, era pattuita la vendita della stessa con riserva della proprietà fino ad ultimazione del pagamento rateale; giova sottolineare che le condizioni di affitto e il prezzo di vendita venivano definitivamente fissate in data 7 ottobre 2005 (€ 15.000,00 il canone; € 1.200.0, 00 il prezzo di vendita);
c.3. in data 16 settembre 2005, i soci della I. 3 (M.- I.) cedevano la totalità delle rispettive quote della I. 3 alle società APEC Srl ed E. Srl (gruppo E.), 50% per ciascuna; il prezzo convenuto per tale cessione, originariamente di € 15.000.000,00, era fissato in € 11.925.000,00, con pagamento in 60 rate semestrali consecutive.
1.3. A fronte di questi elementi, la CTR ha ritenuto che l’operazione effettivamente eseguita si discostasse radicalmente da quella originariamente proposta e oggetto della procedura di concordato preventivo, fuoriuscendo, dunque, dall’ambito di esenzione previsto dall’art. 86, comma 5, Tuir.
Va rilevato, invero, che il giudizio in fatto della CTR trova conforto – come emerge dallo stesso ricorso – nella stessa valutazione del Commissario Giudiziale del 24 ottobre 2005, che, pur ritenendo anche la diversa soluzione come idonea a consentire “il mantenimento dell’azienda e la salvaguardia della maggior parte dei posti di lavoro”, segnalava la necessità dell’adozione di cautele e garanzie in funzione di una nuova omologazione del concordato.
2. La soluzione del giudice d’appello è conforme a diritto.
2.1. L’art. 86, comma 5, tuir, invero, dispone “La cessione dei beni ai creditori in sede di concordato preventivo non costituisce realizzo delle plusvalenze e minusvalenze dei beni, comprese quelle relative alle rimanenze e il valore di avviamento.”
E pacifico, in primo luogo, che la disposizione vada intesa come riferita alle cessioni a terzi atteso che, come affermato dalla Suprema Corte in più occasioni, «malgrado le ambiguità della sua formulazione, essa riguarda (non la cessione dei beni ai creditori, ma) il trasferimento a terzi dei beni ceduti» (Cass. n. 5112 del 04/06/1996; Cass. n. 22168 del 16/10/2006; Cass. n. 11701 del 21/05/2007).
Le cessioni che assumono rilievo, peraltro, sono solo quelle «effettuate in esecuzione della proposta di concordato» (v. ampiamente Cass. n. 5112 del 04/06/1996 in motivazione), sicché correttamente la CTR ha escluso che fosse suscettibile di applicazione l’art. 86, comma 5, tuir.
La ratio della norma, del resto, va individuata nella volontà del legislatore di favorire l’adesione alla procedura concordataria, evitando la nascita di un debito d’imposta che, sebbene successivo alla procedura stessa, avrebbe dovuto gravare sulla medesima (e dunque, pregiudicare le ragioni dei creditori), nonché, sotto altro versante, nell’esigenza di impedire che, in capo a un soggetto che ha subito lo “spossessamento” dell’intero patrimonio, possa sorgere un’obbligazione relativa alle imposte reddituali, al cui pagamento quel soggetto non potrebbe adempiere, non disponendo di alcun mezzo per effetto del predetto spossessamento.
È evidente, infatti, che la realizzazione di operazioni difformi al contenuto del concordato frustra la ratio di incentivazione, per cui non basta che esse siano state realizzate nel corso del concordato ma è necessario che ne siano attuazione.
È poi irrilevante che sia intervenuto, a recepimento del nuovo assetto, un successivo concordato attesa l’anteriorità delle operazioni rispetto alla relativa omologazione.
3. Il secondo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 86, comma 2, tuir, denuncia che reitera con il terzo motivo. Il quarto denuncia omessa motivazione od omesso esame di fatto decisivo e controverso.
3.1. Le doglianze, da esaminare unitariamente in quanto logicamente connesse, sono infondate: il contribuente, in sostanza, denuncia che la CTR ha ricondotto la plusvalenza derivante dalla cessione d’azienda da S.G.N. a I. 3 al successivo atto di cessione delle quote tra I. 3 e le società del gruppo E. pur ritenendo quest’ultima operazione autonoma, ed ha determinato il valore utile ai fini della tassazione della plusvalenza in € 3.000.000,00, ossia in base al corrispettivo ritenuto congruo dal Commissario giudiziale anziché a quello di € 1.200.000,00 del contratto di cessione, omettendo di considerare, in ogni caso, le modalità di determinazione del prezzo definitivo di compravendita.
3.2. La CTR, in realtà, ha considerato l’effettività dell’operazione economica, sviluppata in termini articolati con una pluralità di negozi tra loro collegati in termini sia soggettivi, sia temporali, sia per l’oggetto, la quale si è tradotta nella cessione finale dell’azienda per un importo di quasi 12 milioni di euro, sicché ha accertato che il valore della cessione non poteva attestarsi su quello fissato nell’atto formale, la cui determinazione era incongrua rispetto al valore effettivo, ma doveva essere tratta alla stregua degli elementi valutativi a disposizione, tra i quali ha individuato, e ritenuto preferibile, la stima operata dal Commissario giudiziale.
Le doglianze relative alla determinazione del quantum, poi, integrano una censura di vizio di motivazione che non risponde ai criteri di cui all’art. 360, n. 5, c.p.c., neppure essendo stato individuato il fatto decisivo di cui è stato omesso l’esame, che non può essere integrato né dalla omessa analisi del valore proposto dalla contribuente, né dalle circostanze relative alla determinazione del prezzo definitivo di compravendita, tanto più che quest’ultimo è stato oggetto di esplicita considerazione.
Va infatti precisato, sul punto, che si applica (trattandosi di sentenza pubblicata il 18 gennaio 2013) la disciplina di cui all’art. 360, n. 5, c.p.c. nella nuova formulazione introdotta dall’art. 54, comma 1, lett. b), del d.l. n. 83 del 2012, conv. con modif. nella I. n. 134 del 2012, che ha circoscritto il controllo del vizio di legittimità alla verifica del requisito “minimo costituzionale” di validità prescritto dall’art. 111 Cost., sicché è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali.
Tale requisito minimo non risulta soddisfatto, invero, soltanto quando ricorrano quelle stesse ipotesi che si convertono nella violazione dell’art. 132, n. 4, c.p.c. e che determinano la nullità della sentenza (mancanza della motivazione quale requisito essenziale del provvedimento giurisdizionale; motivazione apparente; manifesta ed irriducibile contraddittorietà; motivazione perplessa od incomprensibile), mentre al di fuori di esse residua soltanto l’omesso esame di un fatto storico controverso, che è stato oggetto di discussione e che sia “decisivo”, non essendo più consentito impugnare la sentenza per criticare la sufficienza del discorso argomentativo a giustificazione della decisione adottata sulla base degli elementi fattuali acquisiti al rilevante probatorio ritenuti dal giudice di merito determinanti ovvero scartati in quanto non pertinenti o recessivi (Sez. U, n. 8053 del 07/04/2014).
4. Il quinto motivo denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 7, L. n. 212 del 2000 e 42, secondo comma, d.P.R. n. 600 del 1973: la CTR ha ritenuto legittima la ripresa del canone di locazione dell’azienda per il 2005 senza rilevare il difetto di motivazione dell’avviso di accertamento.
4.1. Il motivo è infondato: la CTR ha ritenuto corretta la ripresa risultando l’avviso di accertamento legittimamente motivato, per relationem, al verbale della Guardia di finanza, il quale esplicitamente statuiva (come riprodotto in parte qua dal controricorrente) l’erronea imputazione per competenza del canone relativo al 2005.
5. Il sesto motivo denuncia nullità della sentenza, ai sensi dell’art. 360, n. 4, c.p.c., per violazione dell’art. 116 c.p.c. in relazione agli artt. 2727 e 2729 c.c. per l’inadeguata valutazione da parte della CTR degli elementi su cui ha ritenuto l’inesistenza oggettiva delle operazioni contestate dall’Ufficio.
5.1. Il settimo motivo denuncia omessa o insufficiente motivazione sul fatto decisivo dell’inesistenza oggettiva delle operazioni di cui alle fatture.
5.2. I motivi, da esaminare unitariamente per connessione logica, sono inammissibili.
Giova sottolineare, in primo luogo, che “la violazione dell’art. 116 c.p.c. è idonea ad integrare il vizio di cui all’art. 360, n. 4, c.p.c., solo quando il giudice di merito disattenda tale principio in assenza di una deroga normativamente prevista, ovvero, all’opposto, valuti secondo prudente apprezzamento una prova o risultanza probatoria soggetta ad un diverso regime” (Cass. n. 11892 del 10/06/2016).
La contestazione, invece, investe il ragionamento presuntivo e la considerazione dei singoli elementi operata dal giudice di merito, doglianza che, quindi, integra una censura motivazionale, neppure articolata sulla effettiva operazione compiuta dalla CTR che ha apprezzato i singoli elementi, vagliandoli criticamente, e, poi, ne ha considerato la loro reciproca interrelazione e connessione, con un percorso logico, unitario e non atomistico.
Le censure motivazionali per insufficiente motivazione (assente, in ogni caso, la solo dedotta omissione), peraltro, sono inammissibili alla stregua dei principi già sopra esposti.
6. Passando al ricorso incidentale proposto dall’Agenzia delle entrate, il primo motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360, n. 5, c.p.c. (invocato ai sensi sia della nuova formulazione che di quella previgente), motivazione insufficiente ovvero omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio oggetto di discussione tra le parti.
6.1. Il motivo è inammissibile per entrambi i profili.
6.2. Quanto al vizio di motivazione insufficiente valgono le considerazioni già ampiamente esposte.
6.3. Quanto al vizio di omesso esame, il fatto, secondo le già citate Sezioni Unite, deve aver formato oggetto di discussione e deve apparire decisivo ai fini di una diversa soluzione della controversia; la parte ricorrente, inoltre, è tenuta ad indicare – nel rigoroso rispetto delle previsioni di cui all’art. 366, primo comma, n. 6, c.p.c., e art. 369, secondo comma, n. 4, c.p.c. – il “fatto storico”, il cui esame sia stato omesso, il “dato”, testuale o extratestuale, da cui ne risulti l’esistenza, il “come” e il “quando” (nel quadro processuale) tale fatto sia stato oggetto di discussione tra le parti, e la “decisività” del fatto stesso.
L’omesso esame di elementi istruttori, poi, non integra di per sé vizio di omesso esame di un fatto decisivo, se il fatto storico rilevante in causa sia stato comunque preso in considerazione dal giudice, benché la sentenza non abbia dato conto di tutte le risultanze probatorie.
6.4. Nella vicenda in esame, l’Ufficio, al di là di una pluralità di elementi istruttori (in particolare le risultanze acquisite in sede di perquisizione, le osservazioni del Commissario giudiziale), individua quale fatto decisivo la circostanza che la cessione dell’azienda da S.G.N. a I. 3 costituiva “un passaggio intermedio per non far conseguire alla ricorrente l’effettivo corrispettivo della cessione stessa ma distrarlo a favore dei soci”.
Tale indicazione, peraltro, più che integrare un fatto appare riconducibile ad un giudizio sull’operazione complessiva, che per la CTR portava a conclusioni non in tutto coincidenti con quelle dell’Ufficio atteso che, da un lato, ha sì valutato il complesso delle cessioni e la loro scarsa regolarità (e, dunque, l’inattendibilità dell’importo “ufficiale”), ma, dall’altro, ha escluso la necessaria coincidenza del valore della cessione d’azienda con quello della cessione delle quote della I. 3.
La censura, quindi, anche per tale profilo, mira a criticare la sufficienza del ragionamento del giudice di merito, e, dunque, “La concatenazione cronologica” e la “valutazione complessiva … non atomistica della cessione delle quote del 16.9.2005” e non l’omessa considerazione di fatti, che, invece, non sussiste.
7. Il secondo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 41, d.l. n. 331 del 1993, conv. nella I. n. 427 del 1993, nonché dell’art. 21, settimo comma, d.P.R. n. 633 del 1972: l’Agenzia si duole che la CTR abbia ritenuto non dovuto il pagamento dell’Iva per operazioni di cessioni intracomunitarie inesistenti perché comunque esenti.
7.1. Il motivo è fondato.
La CTR ha ritenuto che, trattandosi di vendite intracomunitarie, l’operazione dovesse considerarsi “esente” e, quindi, ha concluso che la falsa fattura di una operazione esente non potesse, comunque, essere assoggetta ad Iva poiché, anche se fosse stata vera, l’Iva non sarebbe stata dovuta.
7.2. Tale affermazione, peraltro, trascura una fondamentale distinzione tra operazioni “non imponibili” ed operazioni “esenti” (e, per completezza, operazioni “escluse”).
Un’operazione è imponibile Iva se ricorrono tre presupposti, ovvero un presupposto oggettivo (è inquadrabile come «cessione di beni» o «prestazione di servizi»: artt. 2 e 3 d.P.R. n. 633 del 1972), uno soggettivo (deve essere realizzata nell’esercizio di impresa, arte o professione: artt. 4 e 5 d.P.R. n. 633 del 1972) ed uno territoriale (deve essere effettuata in Italia).
Le operazioni “non imponibili” rientrano a pieno titolo nel campo di applicazione dell’imposta (e, quindi, sono soggette agli obblighi di fatturazione e registrazione e concorrono alla formazione del volume d’affari), ma, per l’assenza del requisito della territorialità, non sono assoggettate al tributo.
Sono riconducibili a questo ambito le cessioni all’esportazioni e le cessioni intracomunitarie: in questa evenienza solo l’invio della merce in un altro Stato giustifica e legittima l’emissione della fattura senza indicazione dell’imposta.
Le operazioni “esenti”, invece, sono quelle che, per specifica scelta normativa (ad esempio le prestazioni sanitarie), non sono, pur nell’esistenza di tutti e tre i presupposti, assoggettate ad Iva (art. 10 d.P.R. n. 633 del 1972).
Le operazioni “escluse”, infine, sono quelle disciplinate dall’art. 15 d.P.R. n. 633 del 1972 (es. interessi moratori per ritardo), valutate come irrilevanti ai fini tributari.
7.3. Mentre per le operazioni esenti (e quelle escluse) la falsa fattura è obbiettivamente priva di rilievo poiché, che essa sia vera o falsa, l’operazione non può comunque essere assoggettata ad Iva, diversa conclusione vale per le operazioni non imponibili e, avuto riguardo alla fattispecie in giudizio, per le cessioni intracomunitarie, poiché la falsità della fattura (per l’inesistenza oggettiva della transazione) comporta l’inesistenza dell’invio della merce all’estero e, dunque, l’assoggettamento dell’operazione all’imposta.
7.4. La sentenza va pertanto cassata sul punto.
8. Passando all’esame del ricorso incidentale condizionato, proposto con riferimento alla censura da ultimo esaminata, l’unico motivo denuncia, ai sensi dell’art. 360, n. 4, c.p.c., nullità della sentenza per violazione degli artt. 36, comma 2, n. 4, d.lgs. n. 546 del 1992, 112 c.p.c., 132, secondo comma, n. 4, c.p.c., e 118 disp. att. c.p.c., nonché violazione dell’art. 116 anche in relazione agli artt. 2727 e 2729 c.c.
La ricorrente lamenta, al contempo, la mancanza di motivazione della sentenza e l’erroneità del ragionamento presuntivo del giudice d’appello, fondato su elementi non qualificabili come fatti noti e privi dei necessari caratteri di gravità, precisione e concordanza, mentre è privo di pertinenza il richiamo all’art. 112 c.p.c.
8.1. La doglianza è in parte infondata, in parte inammissibile.
8.2. Quanto all’asserito vizio di motivazione apparente, la sentenza afferma ‘l’inesistenza delle operazioni di vendita alla G. P. SL”.
Tale conclusione, ossia la qualificazione come inesistenti delle vendite intracomunitarie, peraltro, non è apodittica ma costituisce l’evidente, ancorché implicito, risultato dell’iter argomentativo della decisione, sviluppato senza soluzioni di continuità (e, anzi, preceduto da una esplicita descrizione del concreto meccanismo frodatorio di acquisti-vendite), che identifica la suddetta operazione commerciale con la transazione immediatamente successiva all’acquisto oggettivamente inesistente della medesima merce dalle società nazionali M.-P. e CTM.
In altri termini, dalla decisione emerge chiaramente il percorso logico argomentativo che ha portato la CTR ad affermare l’inesistenza delle suddette operazioni di vendita: la merce (nella specie, telefona cellulari) prima veniva fittiziamente acquistata da alcune società cartiera e poi la stessa veniva sempre fittiziamente (né avrebbe potuto essere diversamente) venduta all’estero.
Non sussiste, dunque, il lamentato vizio omissivo.
8.3. Quanto al secondo profilo, la doglianza, in realtà, è articolata come vizio di motivazione sulla sufficienza ed adeguatezza del ragionamento presuntivo del giudice di merito, e ripropone in sostanza censure già formulate con il quinto ed il sesto motivo del ricorso principale, con contestazioni che, come nei precedenti motivi, involgono l’apprezzamento da parte del giudice dei singoli elementi in giudizio.
La doglianza, pertanto, è inammissibile.
9. In conclusione, rigettati il ricorso principale e quello incidentale condizionato e inammissibile il primo motivo del ricorso incidentale proposto dall’Agenzia, va accolto il secondo motivo e cassata, in relazione ad esso, la sentenza impugnata e, non essendo necessari ulteriori accertamenti di merito trattandosi di questione di diritto, rigettando sulla questione l’originario ricorso della contribuente.
Le spese, liquidate come in dispositivo, seguono la soccombenza.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso principale; dichiara inammissibile il primo motivo del ricorso incidentale ed accoglie il secondo motivo; rigetta il ricorso incidentale condizionato; in relazione al motivo accolto cassa la sentenza impugnata e, decidendo nel merito, rigetta sul punto l’originario ricorso della contribuente. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese a favore dell’Agenzia delle Entrate, che liquida in complessivi euro 17.000,00, oltre spese prenotate a debito.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1-quater, del D.P.R. n. 115/2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente principale e incidentale condizionato, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso principale e per quello incidentale condizionato.
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