CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 25 marzo 2019, n. 8294
Licenziamento – Inefficacia – Soggetto che non riveste la qualifica di effettivo datore di lavoro
Fatti di causa
1. M. L. C. S. ha proposto ricorso per revocazione ai sensi degli artt. 391-bis e 395 n. 4 c.p.c.avverso la sentenza di questa Corte n. 14174 del 7 giugno 2017 che ha rigettato – per quanto qui rileva – il ricorso principale dalla medesima proposto avverso la sentenza n. 235/2014 della Corte di Appello di Napoli lamentando, con unico motivo formulato ai sensi dell’art. 360, co. 1, n. 4, c.p.c., che quest’ultima aveva omesso la pronuncia su domanda ritualmente introdotta in giudizio, con violazione dell’art. 112 c.p.c.
2. La ricorrente ha dedotto che la sentenza impugnata per errore di fatto non si sarebbe avveduta che l’unico motivo di ricorso per cassazione riguardava una omessa pronuncia in appello non sulla domanda di riammissione in servizio quanto piuttosto sulla domanda di risarcimento del danno pari alla retribuzioni maturate dal licenziamento dichiarato inefficace.
Ha resistito I’ A.C.I.S.M.O.M. – Associazione dei Cavalieri Italiani del Sovrano Militare Ordine di Malta con controricorso.
Non hanno svolto attività difensiva gli altri intimati.
Ragioni della decisione
1. Con il ricorso per revocazione l’istante argomenta che la Corte di Appello di Napoli, pur avendo accertato l’intercorrenza di un rapporto di lavoro subordinato con l’ACISMOM a far data dal 1° giugno 1993 e l’inefficacia del licenziamento intimato il 30 aprile 2009 da soggetto che non rivestiva la qualifica di effettivo datore di lavoro, non si era pronunciata sul riconoscimento alla Castriota delle retribuzioni maturate, a titolo di risarcimento del danno, da detta data in poi; che tale omessa pronuncia aveva costituito oggetto dell’unico motivo del ricorso principale per cassazione avanzato per violazione dell’art. 112 c.p.c.; che la Corte adita aveva dichiarato infondato il motivo statuendo che l’inefficacia dichiarata del recesso “fa venir meno qualsiasi interesse della ricorrente principale ad una pronuncia di riammissione in servizio, statuizione che è implicitamente contenuta in quella della perdurante vigenza dell’effettivo rapporto di lavoro intercorrente con ACISMOM”; che, invece, il motivo di ricorso per cassazione non riguardava la richiesta di “riammissione in servizio … come documentalmente e facilmente riscontrabile” bensì il risarcimento del danno per le retribuzioni non percepite dal licenziamento dichiarato inefficace; che tanto costituirebbe una “svista di carattere materiale per omissione o sbaglio di lettura”, decisiva, ricadente su punto non controverso, evidente ed oggettiva.
2. Il ricorso non è ammissibile perché quello prospettato non configura un errore revocatorio.
2.1. Opportuno premettere i consolidati principi espressi dalla giurisprudenza di legittimità nell’interpretazione dell’ipotesi di revocazione di cui al n. 4 dell’art. 395 c.p.c.
Invero tale ipotesi sussiste se la sentenza è l’effetto di un errore di fatto risultante dagli atti o documenti della causa; vi è questo errore quando la decisione è fondata sulla supposizione di un fatto la cui verità è incontrastabilmente esclusa, oppure quando è supposta l’inesistenza di un fatto la cui verità è positivamente stabilita.
Pacificamente per questa Corte tale genere di errore presuppone il contrasto tra due diverse rappresentazioni dello stesso oggetto, emergenti una dalla sentenza e l’altra dagli atti e documenti processuali, purché, da un lato, la realtà desumibile dalla sentenza sia frutto di supposizione, e non di valutazione o di giudizio e, dall’altro, quella risultante dagli atti e documenti non sia stata contestata dalle parti (per tutte Cass. SS.UU. n. 5303 del 1997; v. poi Cass. SS.UU. n. 561 del 2000; Cass. SS.UU. n. 15979 del 2001; Cass. SS.UU. n. 23856 del 2008; Cass. SS.UU. n. 4413 del 1016).
Pertanto in generale l’errore non può riguardare la violazione o falsa applicazione di norme giuridiche ovvero la valutazione e l’interpretazione dei fatti storici; deve avere i caratteri dell’assoluta evidenza e della semplice rilevabilità sulla base del solo raffronto tra la sentenza impugnata e gli atti e i documenti di causa, senza necessità di argomentazioni induttive o di particolari indagini ermeneutiche; deve essere essenziale e decisivo, nel senso che tra la percezione asseritamente erronea da parte del giudice e la decisione da lui emessa deve esistere un nesso causale tale che senza l’errore la pronuncia sarebbe stata diversa (tra le ultime v, Cass. n. 14656 del 2017).
Quindi, secondo il consolidato orientamento di questa Corte (Cass. n. 22569 del 2013; n. 4605 del 2013, n. 16003 del 2011) fuoriesce dal travisamento rilevante ogni errore che attinga l’interpretazione del quadro processuale che esso denunziava, in coerenza con una scelta che deve lasciar fermo il valore costituzionale della insindacabilità delle valutazioni di fatto e di diritto della Corte di legittimità. Inoltre non è idoneo ad integrare errore revocatorio l’ipotizzato travisamento, da parte della Corte di cassazione, di dati giuridico – fattuali acquisiti attraverso la mediazione delle parti e l’interpretazione dei contenuti espositivi degli atti del giudizio, e dunque mediante attività valutativa, insuscettibile in quanto tale – quand’anche risulti errata – di revocazione (Cass. n. 14108 del 2016; Cass. n. 13181 del 2013).
La revocazione della sentenza (o ordinanza) di Cassazione è consentita poi anche per vizi del procedimento innanzi alla Corte di cui non si sia tenuto conto per un errore percettivo riguardante l’esame degli atti dello stesso processo di cassazione (cd. atti “interni” direttamente esaminabili dalla Corte con propria autonoma indagine di fatto: v. Cass. SS.UU. n. 3519 del 1992).
2.2. In particolare, circa le doglianze che investano i motivi del ricorso per cassazione che hanno dato origine alla sentenza poi impugnata per revocazione, secondo il consolidato orientamento di questa Corte (Cass. n. 26929 del 2016; Cass. n. 22569 del 2013; Cass. n. 4605 del 2013; Cass. n. 16003 del 2011) l’unico errore percettivo denunziabile ex art. 391-bis c.p.c. è quello che si sostanzia nella mancata percezione da parte della Corte della esistenza di un motivo, come tale ignorato nella pronuncia, nel mentre fuoriesce dal travisamento rilevante ogni errore che attinga la interpretazione del quadro processuale che esso denunziava.
E’ stato precisato che, pur non essendo sufficiente ad escludere detto errore il segno grafico di avere esaminato il fatto materiale o processuale, è tuttavia sufficiente una espressione concettuale dialettica di esame (Cass. n. 24953 del 2014).
Cosicché, in tema di revocazione delle sentenze della Corte di cassazione, ove il ricorrente deduca, sotto la veste del preteso errore revocatorio, l’errato apprezzamento, da parte della Corte, di un motivo di ricorso – qualificando come errore di percezione degli atti di causa un eventuale errore di valutazione sulla portata della doglianza svolta con l’originario ricorso – si verte in un ambito estraneo a quello dell’errore revocatorio, dovendosi escludere che un motivo di ricorso sia suscettibile di essere considerato alla stregua di un “fatto” ai sensi dell’art. 395, comma 1, n. 4, c.p.c., potendo configurare l’eventuale omessa od errata pronunzia soltanto un “error in procedendo” ovvero “in iudicando”, di per sé insuscettibili di denuncia ai sensi dell’art. 391-bis c.p.c. (in termini: Cass. n. 14937 del 2017; conf. Cass. n. 9835 del 2012; Cass. n. 8615 del 2017; Cass. n. 3760 del 2018)
3. Alla stregua dei principi esposti il ricorso all’attenzione del Collegio non può evidentemente trovare accoglimento.
Infatti si qualifica come errore di percezione degli atti di causa un eventuale errore di valutazione sulla portata e sull’estensione del motivo ex art. 112 c.p.c. articolato con l’originario ricorso per cassazione.
Questa Corte, con la sentenza n. 14174/2017, non ha affatto mancato di pronunciarsi su quello che era l’unico motivo di ricorso della C. S. e che costituiva appunto specifico oggetto della questione controversa su cui quel Collegio si è pronunciato (cfr. Cass. n. 442 del 2018) respingendo il motivo e ponendosi rispetto ad esso con espressioni concettuali dialettiche di esame e di scrutinio.
Pertanto il presunto errore di interpretazione del motivo sarebbe comunque mediato da una valutazione e da un giudizio e per la richiamata giurisprudenza consolidata non costituisce errore revocatorio l’ipotizzato travisamento, da parte della Corte di cassazione, di dati giuridico-fattuali acquisiti attraverso la mediazione delle parti e l’interpretazione dei contenuti espositivi degli atti del giudizio, e dunque mediante attività valutativa, insuscettibile in quanto tale – quand’anche risulti errata – di revocazione.
In definitiva, secondo l’insegnamento ancora di recente ribadito dalle Sezioni unite di questa Corte (v. sentenza n. 8984 del 2018), il combinato disposto dell’art. 391 bis e dell’art. 395, n. 4, c.p.c. non prevede come causa di revocazione della sentenza di cassazione l’errore di diritto, sostanziale o processuale, e l’errore di giudizio o di valutazione; né, con riguardo al sistema delle impugnazioni, la Costituzione impone al legislatore ordinario altri vincoli oltre a quelli, previsti dall’art. 111 Cost., della ricorribilità in cassazione per violazione di legge di tutte le sentenze ed i provvedimenti sulla libertà personale pronunciati dagli organi giurisdizionali ordinari e speciali, sicché non appare irrazionale la scelta del legislatore di riconoscere ai motivi di revocazione una propria specifica funzione, escludendo gli errori giuridici e quelli di giudizio o valutazione, proponibili solo contro le decisioni di merito nei limiti dell’appello e del ricorso per cassazione, considerato anche che, quanto all’effettività della tutela giurisdizionale, la giurisprudenza europea e quella costituzionale riconoscono la necessità che le decisioni, una volta divenute definitive, non possano essere messe in discussione, onde assicurare la stabilità del diritto e dei rapporti giuridici, nonché l’ordinata amministrazione della giustizia.
4. Conclusivamente il ricorso deve essere dichiarato inammissibile e le spese seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo.
Occorre dare atto della sussistenza dei presupposti di cui all’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002, come modificato dall’art. 1, co. 17, I. n. 228 del 2012.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese liquidate in euro 3.000,00, oltre euro 200,00 per esborsi, rimborso spese forfettario al 15% ed accessori secondo legge.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
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