CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 25 novembre 2020, n. 26845
Irripetibilità dell’indebito assistenziale – Pensione di inabilità – Visita di revisione – Decadenza ex art. 42, D.L. n. 269/2003
Fatti di causa
Con sentenza depositata il 5.12.2014, la Corte d’appello di Milano, in riforma della pronuncia di primo grado, ha dichiarato l’irripetibilità dell’indebito assistenziale comunicato dall’INPS a D. G. in data 3.5.2005 relativamente alle somme percepite a titolo di pensione di inabilità sino al 1°.12.2004, data della visita di revisione, condannando l’INPS a restituirle quanto eventualmente già trattenutole sul trattamento pensionistico.
La Corte, in particolare, ha ritenuto che alla comunicazione dell’indebito effettuata dall’INPS in esito alla visita di revisione non fosse applicabile la decadenza semestrale di cui all’art. 42, comma 3, d.l. n. 269/2003 (conv. con l. n. 276/2003); sotto altro profilo, ha comunque ritenuto che nessuna irripetibilità potesse predicarsi per le somme corrisposte alla pensionata in data successiva alla visita di verifica.
Avverso la prima di tali statuizioni ha proposto ricorso per cassazione l’INPS, deducendo un motivo di censura.
D. G. ha resistito con controricorso e ha successivamente depositato memoria con costituzione di nuovo difensore; infine, in vista dell’udienza pubblica, ha depositato ulteriore memoria ex art. 378 c.p.c.-
Ragioni della decisione
Con l’unico motivo di censura, l’Istituto ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 42, d.l. n. 269/2003 (conv. con l. n. 276/2003), 5, comma 5, d.P.R. n. 698/1994, 4, d.l. n. 323/1996 (conv. con l. n. 425/1996), e 52, comma 3, l. n. 449/1997, per avere la Corte di merito ritenuto inapplicabile la decadenza di cui all’art. 42, d.l. n. 269/2003, cit., al provvedimento con cui alla pensionata odierna controricorrente era stato contestato l’indebito maturato a seguito della visita di revisione.
Il motivo è infondato, ancorché la motivazione della sentenza vada sul punto corretta.
Questa Corte, invero, ha già avuto modo di chiarire che l’art. 42, comma 3, d.l. n. 269/2003, più volte cit., nella parte in cui, a decorrere dalla data della sua entrata in vigore (poi differita al 31.12.2004 in forza dell’art. 23, comma 2, d.l. n. 355/2003, conv. con l. n. 47/2004), esclude l’applicazione delle disposizioni in materia di ricorso amministrativo, si riferisce ai ricorsi amministrativi precedentemente previsti sia contro i provvedimenti di mancato riconoscimento dei requisiti sanitari, sia contro quelli di rigetto o revoca dei benefici economici attinenti a requisiti non sanitari, come quelli c.d. socio-economici, di talché il termine di decadenza per la proposizione dell’azione giudiziaria, previsto dalla seconda parte dello stesso comma, opera vuoi con riguardo all’ipotesi in cui il diniego in sede amministrativa sia conseguente a ragioni sanitarie, vuoi nell’ipotesi in cui il diniego dipenda da ragioni diverse, sempre che il provvedimento di rigetto sia esplicito e venga comunicato all’interessato (Cass. n. 25268 del 2016, che ha cassato sul punto App. Milano, n. 1430/2016, richiamata ex art. 118 att. c.p.c. a pagg. 6-7 della sentenza qui impugnata).
Se dunque, negli anzidetti termini, può convenirsi con l’Istituto ricorrente nel ritenere erronea la diversa affermazione contenuta nella sentenza impugnata, secondo cui la necessità di un’impugnazione entro il termine di decadenza di cui all’art. 42, d.l. n. 269/2003, cit., riguarderebbe soltanto i provvedimenti relativi all’accertamento del requisito sanitario, non appare condivisibile l’ulteriore affermazione del ricorso secondo cui il provvedimento con cui alla parte odierna controricorrente è stato notificato l’indebito formatosi a seguito della revoca della prestazione assistenziale sarebbe esso stesso assoggettato al medesimo termine d’impugnazione a pena di decadenza: indipendentemente dalla possibilità di qualificare in termini stricto sensu provvedimentali un atto del genere, la decadenza di cui all’art. 42, d.l. n. 269/2003, cit., riguarda infatti i «provvedimenti emanati in esito alle procedure in materia di riconoscimento di benefici», e dunque testualmente i provvedimenti con cui tali benefici vengono denegati o revocati, e non può viceversa estendersi all’atto con cui, a seguito della revoca di un beneficio assistenziale, venga comunicata all’assistito la formazione di un qualche indebito, dal momento che l’eventuale indebito costituisce propriamente una conseguenza diversa e ulteriore rispetto alla revoca del beneficio, che trova disciplina autonoma nel diverso e apposito sottosistema normativo che sovraintende alla sua ripetizione in materia assistenziale, siccome tratteggiato da plurime decisioni di questa Corte (cfr., tra le più recenti, Cass. nn. 1919 del 2018, 10642, 26036 e 31372 del 2019, 13223 del 2020). Ed è appena il caso di soggiungere che non si potrebbe concludere diversamente senza implicitamente dare dell’art. 42, comma 3, d.l. n. 269/2003, cit., un’interpretazione analogica che appare prima facie contrastante con il disposto dell’art. 14 prel. c.c.: secondo un insegnamento consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, le disposizioni con le quali il legislatore sancisce una decadenza sono infatti di stretta interpretazione e la relativa fattispecie legale può dirsi realizzata in via di principio solo in presenza di una fattispecie concreta ad essa perfettamente corrispondente (così, in termini, Cass. n. 1245 del 1980; più di recente, nello stesso senso, v. Cass. nn. 20611 e 32154 del 2018).
Pertanto, corretta nei suesposti termini la motivazione della sentenza impugnata, il ricorso va rigettato, provvedendosi come da dispositivo sulle spese del giudizio di legittimità, che si liquidano come da dispositivo e si distraggono in favore della difesa di parte ricorrente, dichiaratasi antistataria.
Tenuto conto del rigetto del ricorso, sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, previsto per il ricorso.
P.Q.M.
rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità, che si liquidano in € 4.200,00, di cui € 4.000,00 per compensi, oltre spese generali in misura pari al 15% e accessori di legge, e si distraggono in favore degli Avv.ti S.A. e M.P., dichiaratisi antistatari.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, d.P.R. n. 115/2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13.
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