CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 25 ottobre 2021, n. 29856
Tributi – Contenzioso tributario – Poteri dei giudici tributari – Accertamento per operazioni soggettivamente fittizie – Onere dell’Amministrazione di dimostrare la legittimità della pretesa fiscale – Acquisizione ex officio del Pvc in prossimità dell’udienza in appello – Decisione basata su documentazione irritualmente acquisita e tardivamente prodotta – Illegittimità
Ritenuto in fatto
R. & C. S.r.l. impugnava un avviso di accertamento per l’anno di imposta 2004 con il quale veniva recuperata a tassazione una maggiore imposta sostitutiva Ires, una maggiore Irap e una maggiore Iva con la conseguente sanzione pecuniaria.
L’avviso traeva origine da una attività ispettiva della Guardia di Finanza nel corso della quale veniva contestata alla società la partecipazione, in qualità di venditore finale, di una frode fiscale Iva riguardante il commercio di autovetture con la contabilizzazione di fatture per operazioni soggettivamente inesistenti.
La CTP di Padova accoglieva parzialmente il ricorso della società, ritenendo deducibili, ai fini dell’imposizione diretta, i costi sostenuti.
La società impugnava la sentenza e la CTR del Veneto con sentenza n. 32/16/13 rigettava l’appello.
R. & C. s.r.l. propone ricorso per cassazione affidando il suo mezzo a nove motivi, illustrati con memoria; con istanza del 29.4.2021, depositata il 4.5.2021, ha chiesto il rinvio della trattazione in pubblica udienza l’Agenzia delle Entrate resiste con controricorso.
Motivi della decisione
Va preliminarmente disattesa l’istanza di rinvio per la trattazione in pubblica udienza. Il processo cartolare civile in sede di legittimità trova disciplina nell’art. 23, comma 8-bis, d.l. n. 137 del 2020 il quale ha previsto che, per la decisione sui ricorsi proposti per la trattazione in udienza pubblica a norma degli articoli 374, 375, ultimo comma, e 379 del codice di procedura civile, la Corte di cassazione procede in camera di consiglio senza l’intervento del procuratore generale e dei difensori delle parti, salvo che una delle parti o il procuratore generale facciano richiesta di discussione orale. La richiesta di discussione orale è formulata per iscritto dal procuratore generale o dal difensore di una delle parti entro il termine perentorio di venticinque giorni liberi prima dell’udienza e presentata, a mezzo di posta elettronica certificata, alla cancelleria. Nella specie la norma non prevede l’ipotesi del rinvio né l’istanza rispetta il termine perentorio previsto dalla legge per chiedere la discussione orale.
1. Con il primo motivo la ricorrente deduce la violazione e falsa applicazione dell’art. 57 comma 1 e 3 del d.P.R. n. 633 del 1972, in relazione all’art. 360 comma 1 n. 3 cod. proc. civ., in quanto l’accertamento IVA svolto nei suoi confronti era riferito al 2004, sicché la notifica del verbale di accertamento avrebbe dovuto avvenire entro il quarto anno successivo a quello in cui era stata presentata la dichiarazione e quindi non oltre il 31 dicembre 2009, mentre, nella specie, detta notifica era avvenuta solo nel settembre 2010.
2. Con il secondo motivo deduce l’omessa motivazione in relazione a un fatto controverso e decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti quanto alla sussistenza o meno dell’obbligo di denuncia penale.
2.1. Le censure sono suscettibili di trattazione congiunta.
Esse non sono fondate.
In tema di accertamento tributario, il raddoppio dei termini previsto dagli artt. 43, comma 3, del d.P.R. n. 600 del 1973 per l’IRPEF e 57, comma 3, del d.P.R. n. 633 del 1972 per l’IVA consegue, nell’assetto anteriore alle modifiche di cui al d.lgs. 5 agosto 2015, n. 128 e alla I. 31 dicembre 2015, n. 208, alla ricorrenza di seri indizi di reato che facciano insorgere l’obbligo di denuncia penale ai sensi dell’art. 331 cod. proc. pen.
La dizione legislativa rende chiaro che il raddoppio è legato all’astratta sussistenza di un reato perseguibile d’ufficio, che fa sorgere l’obbligo di denuncia in capo al pubblico ufficiale ai sensi dell’art. 331 citato, e non dipende dal suo accertamento in concreto.
La norma ha già superato il vaglio di legittimità costituzionale.
Come più volte chiarito da questa S.C., anche sulla scorta dei principi enunciati da Corte cost. n. 247 del 2011, il raddoppio opera pertanto in presenza di tale presupposto astratto, indipendentemente dall’effettiva presentazione della denunzia, dall’inizio dell’azione penale e dall’accertamento del reato nel processo (Cass., Sez. VI, 28/06/2019, n. 17586, Cass., Sez. V, 13/09/2018, n. 22337; Cass., Sez. VI, 30/05/2016, n. 11171).
Ciò naturalmente non rende di per sé legittimo qualunque accertamento compiuto dall’Amministrazione finanziaria oltre il termine-base fissato dalla legge, dovendo al contrario essere evitato, come chiarito dalla Corte costituzionale nella citata sentenza n. 247 del 2011, un uso pretestuoso e strumentale delle disposizioni in esame al fine di fruire ingiustificatamente di un più ampio termine di accertamento.
Tali precisazioni non sono tuttavia idonee a giustificare l’accoglimento del motivo di ricorso nel caso di specie.
La stessa sentenza della Corte costituzionale n. 247 del 2011 ha infatti chiarito che, in caso di denuncia presentata oltre gli ordinari termini di decadenza o addirittura di accertamento compiuto senza denuncia, e sempre al fine di verificare l’uso pretestuoso del raddoppio dei termini, “il giudice tributario dovrà controllare, se richiesto con i motivi di impugnazione, la sussistenza dei presupposti dell’obbligo di denuncia, compiendo, al riguardo, una valutazione ora per allora (cosiddetta «prognosi postuma») circa la loro ricorrenza ed accertando, quindi, se l’amministrazione finanziaria abbia agito con imparzialità”, con la precisazione però che “il correlativo tema di prova – e, quindi, l’oggetto della valutazione da effettuarsi da parte del giudice tributario – è circoscritto al riscontro dei presupposti dell’obbligo di denuncia penale e non riguarda l’accertamento del reato” (§ 5.3. della sentenza della Corte costituzionale).
Da ciò discende che il contribuente, ove voglia contestare l’accertamento compiuto oltre il termine ordinario, dovrà denunciare la carenza dei presupposti dell’obbligo di denuncia e non potrà mettere in discussione la sussistenza del reato, né sotto il profilo dell’elemento oggettivo, né sotto quello dell’elemento soggettivo, né infine dal punto di vista del suo autore.
Nella specie, parte ricorrente ha censurato la sentenza impugnata per non aver esercitato un controllo sull’esistenza del reato.
3. Con il terzo motivo si deduce omessa e insufficiente motivazione in ordine a fatti controversi e decisivi per il giudizio ovvero omesso esame circa fatti controversi e decisivi per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, perché la CTR sarebbe incorsa in una affermazione apodittica e in un salto logico riguardo alla mancanza di prova circa il passaggio intermedio delle vetture oggetto delle operazioni accertate tra due asseriti fornitori a monte (A. e G.C.).
La censura è inammissibile.
Come noto, infatti, in seguito alla riformulazione dell’art. 360, comma 1, n. 5, c.p.c., disposta dall’art. 54 del d.l. n. 83 del 2012, conv., con modif., dalla I. n. 134 del 2012, è denunciabile in cassazione solo l’anomalia motivazionale che si tramuta in violazione di legge costituzionalmente rilevante, in quanto attinente all’esistenza della motivazione in sé, purché il vizio risulti dal testo della sentenza impugnata, a prescindere dal confronto con le risultanze processuali. Tale anomalia si esaurisce nella “mancanza assoluta di motivi sotto l’aspetto materiale e grafico”, nella “motivazione apparente”, nel “contrasto irriducibile tra affermazioni inconciliabili” e nella “motivazione perplessa ed obiettivamente incomprensibile” (Cass. sez. 4 un. n. 8053 del 2014; Cass. n. 8054 del 2014; Cass. n. 7402 del 2017; Cass. n. 22598 del 2018).
Nella fattispecie concreta, la CTR, senza collocarsi al di sotto nella descritta soglia “minima costituzionale”, ha osservato, con riferimento al passaggio delle autovetture dal primo acquirente nazionale, A. a G.C., fornitore di R. s.r.l. che era decisivo: a) che tutti gli autoveicoli che la A. ha acquistato dal fornitore tedesco risultano commercializzati da R. s.r.l., come risulta dalla documentazione fiscale, emessa dalla ditta tedesca, acquisita dall’Agenzia delle Dogane; b) che tutti gli autoveicoli provenienti dal fornitore tedesco sono stati ceduti alla R. dalla G.C., circostanze dalle quali deriva l’Ineludibile conseguenza logica che le vetture in questione sono state oggetto anche di passaggio intermedio dalla A. alla G.C.
Non si vede come si possa negare il carattere decisivo dell’argomento di prova che si deve trarre dall’indicazione, sul fax proveniente dalla ditta tedesca fornitrice delle vetture, del numero di fax della R., in corrispondenza della denominazione sociale A.
4. Con il quarto motivo la ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 3 – bis del DL 203/2005 (che ha abrogato l’art. 7, comma 3, d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546) 210 e 115 c.p.c. in relazione all’art. 360 comma primo n. 4 cod. proc. civ.
Rileva che la portata della norma, che attribuiva alle commissioni tributarie la facoltà di ordinare alle parti il deposito di documenti ritenuti necessari per la decisione della controversia, anche prima della sua abrogazione per effetto dell’art. 3-bis, comma 5, del d.l. 30 settembre 2005, n. 203, convertito, con modificazioni, dalla legge 2 dicembre 2005, n. 248, è stata reiteratamente interpretata dalla giurisprudenza di legittimità alla luce del principio di terzietà del giudice e del giusto processo sancito dall’art. 111 Cost., nonché del principio dispositivo di cui all’art. 115 c.p.c., avendo avuto più volte la cassazione modo di puntualizzare che l’esercizio dei poteri di acquisizione d’ufficio da parte del giudice tributario non può sopperire al mancato assolvimento dell’onere della prova che grava comunque sulle parti in base all’art. 2697 del codice civile e che pertanto si tratta di un potere meramente integrativo, non esonerativo, dell’onere probatorio principale da esercitare solo per sopperire all’impossibilità di una parte di esibire documenti in possesso dell’altra: condizione certamente insussistente nel caso di specie trattandosi di documenti in possesso dell’Agenzia delle entrate.
La censura è fondata.
4.1. È ormai ius receptum nella giurisprudenza di questa Corte che, anche nel processo tributario, vale la regola generale in tema di distribuzione dell’onere della prova dettata dall’art. 2697 c.c. e che, pertanto, in applicazione della stessa, l’amministrazione finanziaria che vanti un credito nei confronti del contribuente, è tenuta a fornire la prova dei fatti costitutivi della propria pretesa, essendosi ormai da tempo chiarito che la c.d. presunzione di legittimità degli atti amministrativi (un tempo evocata per giustificare la loro idoneità ad incidere unilateralmente nella sfera giuridica altrui) non opera nei confronti del giudice ordinario (v. ex multis Cass. Civ., Sez. 5, n. 1946 del 10/02/2012; Sez. 5, n. 13665 del 05/11/2001; Sez. 1, n. 2990 del 23/05/1979, Rv. 399324).
Discendono da tale premessa due corollari, con riferimento ai presupposti ed ai limiti di operatività dei poteri istruttori conferiti al giudice tributario dall’art. 7 d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546.
Anzitutto, come questa Corte ha avuto modo di chiarire, l’art. 7 d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, laddove attribuisce al giudice il potere di disporre l’acquisizione d’ufficio di mezzi di prova, e dunque anche nell’ora abrogato terzo comma (che attribuiva «alle commissioni tributarie facoltà di ordinare alle parti il deposito di documenti ritenuti necessari per la decisione della controversia»), deve essere interpretato alla luce del principio di terzietà sancito dall’art. 111 Cost., il quale non consente al giudice di sopperire alle carenze istruttorie delle parti, sovvertendo i rispettivi oneri probatori, ma gli attribuisce solamente un potere istruttorio in funzione integrativa, e non integralmente sostitutiva, degli elementi di giudizio (Cass. Civ., Sez. 5, n. 673 del 15/01/2007). Tale potere, pertanto, può essere esercitato soltanto ove sussista un’obiettiva situazione di incertezza, al fine di integrare gli elementi di prova già fomiti dalle parti e non anche nel caso in cui il materiale probatorio acquisito agli atti imponga una determinata soluzione della controversia (cfr. Cass. Civ., Sez. 5, n. 24464 del 17/11/2006, Rv. 594275; n. 14960 del 22/06/2010, Rv. 613988) e sempre che la parte su cui ricade l’onere della prova non abbia essa stessa la possibilità di integrare la prova già fornita ma questa risulti piuttosto ostacolata dall’essere i documenti in possesso dell’altra parte o di terzi (v. Cass. Civ., Sez. 5, n. 7078 del 24/03/2010; Sez. 5, n. 10970 del 14/05/2007).
In secondo luogo i poteri in questione non sono arbitrari ma discrezionali ed il loro esercizio, così come il loro mancato esercizio, deve essere adeguatamente motivato (v. Cass. Civ., Sez. 5, n. 673 del 2007, cit.).
4.2.Si evince dalla sentenza impugnata che la CTR, con ordinanza 45/16/12, ha disposto l’acquisizione dei seguenti documenti:
1. Risposte fornite dal Nucleo PT di Padova dall’Agenzia delle Entrate- Ufficio di Valdagno e dal Nucleo PT di Parma, citate nel verbale della Guardia di Finanza del 3.3.2010, a pag. 8; 2. Copia integrale del PVC dell’Agenzia delle Entrate _ Ufficio di Valdagno; 3. Copia integrale delle sommarie informazioni rese ai sensi dell’art. 351 c.p.p. al nucleo PT di Parma DI sig,. P.A., ordinandone il deposito all’Agenzia delle Entrate entro sessanta giorni.
Nel caso di specie, non può revocarsi in dubbio che a fronte di un avviso di rettifica da parte dell’amministrazione che richiamava espressamente elementi di indagine ricavati dagli accertamenti operati dalla Guardia di Finanza ed a fronte delle contestazioni mosse dal contribuente circa la legittimità della verifica operata dalla Guardia di Finanza e l’attendibilità dei relativi esiti, l’onere di dimostrare la legittimità della pretesa fiscale ricadeva in capo all’amministrazione finanziaria e non poteva prescindere dalla produzione del p.v.c. o dalla riproduzione dello stesso nell’atto impositivo.
4.3. L’art. 58 comma 1 d.l.gs. 546/1992 prevede sul punto che “Il giudice di appello non può disporre nuove prove, salvo che non le ritenga necessarie ai fini della decisione o che la parte dimostri di non averle potute fornire nel precedente grado di giudizio per causa ad essa non imputabile”. L’art. 61 del d.l.gs. 546/1992, poi, dispone che “nel procedimento di appello si osservano in quanto compatibili le norme dettate per il procedimento di primo grado, se non sono incompatibili con le disposizioni della presente sezione”. L’art. 7 dello stesso decreto legislativo prevedeva, al comma 3, fino alla sua abrogazione con l’art. 3 bis comma 5 del d.l. 203/2005, convertito in legge 248/2005, la facoltà per la commissione tributaria di ordinare, in qualsiasi momento, il deposito di documenti necessari ai fini della decisione”.
Questa Corte ha, quindi, affermato che, a seguito dell’abrogazione dell’art. 7, comma 3, del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, al giudice di appello non è più consentito ordinare il deposito di documenti, dovendo, invece, essergli riconosciuto il potere di ordinarne “ex officio” l’esibizione ai sensi dell’art. 210 cod. proc. Civ. (Cass.Civ., 11 giugno 2014, n. 13152). Infatti, si è rilevato che le “nuove prove” che il giudice di appello può disporre ex officio, sono quelle stesse che il giudice di primo grado può ordinare ai sensi dell’art. 7 del d.Ig. 546/1992, non potendosi ritenere che il giudice di secondo grado abbia poteri istruttori ufficiosi diversi e maggiori rispetto a quelli della Commissione provinciale. Pertanto, dopo l’abrogazione del comma 3 dell’art. 7 d.lgs. 546/1992, nemmeno al giudice di appello è consentito di ordinare il deposito di documenti sollevando la parte dall’onere della prova, residuando soltanto il potere di ordinare l’esibizione ex officio di cui all’art. 210 c.p.c.. L’unica ipotesi in cui è possibile disporre l’esibizione di documenti d’ufficio ai sensi dell’art. 58 comma 1 d.lgs. 546/1992 è quando sussista il presupposto dell’impossibilità di acquisire la prova altrimenti, come nel caso in cui una parte non possa conseguire i documenti in possesso dell’altra (Cass.Civ., sez. V, 8 luglio 2015, n. 14244), in situazioni di oggettiva incertezza, in funzione integrativa degli elementi istruttori in atti (Cass.Civ., sez.V, 19 giugno 2018, n. 16171). Al contrario, proprio per la giurisprudenza formatasi per l’applicazione dell’art. 210 c.p.c., non può essere ordinata l’esibizione in giudizio di un documento di una parte o di un terzo, quando l’interessato può di propria iniziativa acquisirne una copia e produrla in causa (Cass.Civ., sez. 3, 6 ottobre 2005, n. 19475; Cass.Civ., sez. 2, 11 giugno 2013, n. 14656).
Nella specie la CTR ha ordinato alla Agenzia delle entrate la produzione di documentazione in suo possesso, in assenza quindi del presupposto processuale per impartire l’ordine di esibizione, in quanto i documenti erano nel possesso della stessa Agenzia e non nella disponibilità del contribuente o di un terzo estraneo.
5. Con il quinto motivo deduce la nullità della sentenza per violazione degli artt. 61 e 32 comma 1 del D.lgs 546/1992 in relazione all’art. 360 comma 1 n. 4 c.p.c. per avere la CTR ravvisato l’esistenza di operazioni soggettivamente fittizie in base a documenti presentati sette giorni prima dell’udienza in appello, acquisiti ex officio.
La stessa CTR nella sentenza impugnata da atto che i documenti di cui aveva disposto d’ufficio l’acquisizione erano stati ricevuti in data 11.2.2013, mentre l’udienza di discussione è stata tenuta in data 18.2.2013.
Con orientamento consolidato, che questo Collegio ritiene di condividere, la Corte di Cassazione ha affermato che “in tema di contenzioso tributario, l’art. 58 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, fa salva la facoltà delle parti di produrre nuovi documenti anche al di fuori degli stretti limiti consentiti dall’art. 345 cod. proc. civ., ma tale attività processuale va esercitata – stante il richiamo operato dall’art. 61 del citato d.lgs. alle norme relative al giudizio di primo grado – entro il termine previsto dall’art. 32, comma 1, dello stesso decreto, ossia fino a venti giorni liberi prima dell’udienza con l’osservanza delle formalità di cui all’art. 24, comma 1, dovendo, peraltro, tale termine ritenersi, anche in assenza di espressa previsione legislativa, di natura perentoria, e quindi sanzionato con la decadenza, per lo scopo che persegue e la funzione (rispetto del diritto di difesa e del principio del contraddittorio) che adempie (Cass.n.20549/2013 n. 655/2014; n.3661/2015). Resta, dunque, inibito al giudice di appello fondare la propria decisione sul documento tardivamente prodotto anche nel caso di mancata opposizione della controparte alla produzione tardiva, essendo la sanatoria a seguito di acquiescenza consentita con riferimento alla forma degli atti processuali e non anche relativamente all’osservanza dei termini perentori (art. 153 cod. proc. civ.: Cass. Sez. 5, Sentenza n. 23580 del 06/11/2009; Cass. Sez. 5, Sentenza n. 2787 del 08/02/2006; Cass. 17164/2018; Cass. 29087/2018).
Nella specie la CTR fonda la propria decisione sulla documentazione irritualmente acquisita e tardivamente prodotta.
I motivi quattro e cinque devono essere, pertanto, accolti assorbita la trattazione degli altri e la sentenza cassata con rinvio alla CTR del Veneto anche per la liquidazione delle spese del presente giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Accoglie i motivi quattro e cinque, rigettati i primi tre e assorbita la trattazione degli altri; cassa la sentenza impugnata e rinvia alla CTR del Veneto anche per la liquidazione delle spese del presente giudizio di legittimità.
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