CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 25 settembre 2018, n. 22689
Rapporto di lavoro di natura dirigenziale – Subordinazione – Società di capitali – Cumulabilità tra la qualità di amministratore delegato e quella di lavoratore subordinato – Attribuzione di mansioni diverse da quelle proprie della carica sociale
Fatti di causa
1. Con sentenza n. 812/2013 la Corte d’appello di Torino ha confermato la sentenza di primo grado con la quale era stata respinta la domanda di I. P. la quale, premesso di avere instaurato con la convenuta M.E. s.p.a. un rapporto di lavoro subordinato di natura dirigenziale, aveva chiesto accertarsi la insussistenza della giusta causa di recesso, condannarsi la società al pagamento di somme a titolo di differenze retributive, indennità sostitutiva del preavviso e relativa incidenza sul tfr, indennità supplementare di cui all’art. 18 c.c.n.I. Dirigenti Industria, della parte variabile della retribuzione nonché accertarsi il diritto all’opzione per la sottoscrizione di azioni della società, e condannarsi la società al risarcimento del danno all’immagine.
1.1. Il giudice di appello, premesso che non era stata impugnata la statuizione di rigetto della domanda relativa alle stock options ed al risarcimento del danno all’immagine, ha osservato che la P., sulla quale ricadeva il relativo onere, non aveva allegato e dimostrato lo svolgimento di attività di lavoro subordinato espletata in aggiunta a quella svolta in veste di Amministratore delegato della società della quale era anche Presidente del Comitato di Gestione; le allegazioni articolate a riguardo si riferivano, infatti, a compiti che per la loro ammessa apicalità erano senz’altro riconducibili alla carica sociale rivestita; né la esistenza di un rapporto di lavoro subordinato, in assenza di concreta allegazioni e prove sull’effettivo atteggiarsi del rapporto, poteva desumersi dal contratto di lavoro subordinato in data 6.7.2011 che la società asseriva simulato e stipulato ad esclusivi fini di copertura assistenziale e previdenziale della P.; in questa prospettiva lo stesso esercizio del potere disciplinare da parte della società assumeva natura sostanzialmente necessitata in quanto imposta dalla formale configurazione del rapporto di cui al contratto come di natura subordinata al quale, tuttavia, non corrispondeva una situazione di fatto rapportabile con certezza allo schema della subordinazione.
2. Per la cassazione della decisione ha proposto ricorso Isabella P. sulla base di tre motivi; la Società ha depositato tempestivo controricorso con ricorso incidentale condizionato affidato ad un unico motivo; parte ricorrente principale ha depositato “note difensive”.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso parte ricorrente principale deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 cod. civ. in tema di onere della prova della simulazione del contatto di lavoro subordinato intercorrente tra una società ed un soggetto che ne sia anche amministratore; sostiene, in sintesi, che nell’ipotesi in cui sussista, come nel caso di specie, un titolo giuridico da cui risulti la vigenza di un contratto di lavoro (in parallelo al mandato di amministratore) e sia la controparte interessata a dimostrare la natura simulata del contratto di lavoro subordinato è su quest’ultima che ricade il relativo onere. L’errore di diritto della sentenza impugnata, quindi, era ravvisabile nell’avere posto a carico della P. l’onere di dimostrare la corrispondenza della situazione di fatto al contratto di lavoro subordinato stipulato tra le parti, onere che, invece, gravava sulla M.E. s.p.a.
2. Con il secondo motivo di ricorso parte ricorrente deduce violazione e falsa applicazione degli artt. 2094 e 2095 cod. civ. in ordine all’accertamento della sussistenza di un rapporto di lavoro dirigenziale in parallelo ad un rapporto di amministrazione sociale in capo allo stesso soggetto evidenzia la contraddittorietà della parte motiva della sentenza impugnata rilevando che se fosse emerso dalla documentazione versata in atti la prova della natura simulata del contratto e cioè la insussistenza della subordinazione non sarebbe stato necessario argomentare sulla corretta distribuzione dell’onere della prova; assume che gli elementi in atti non erano univoci in ordine all’assenza di subordinazione ed evidenzia che in tema di rapporto dirigenziale la distinzione tra il ruolo dell’amministratore e quello del dirigente ed, in particolare, del dirigente generale non passa per profili gerarchici ma per diversità di funzione in quanto l’amministratore forma e manifesta la volontà dell’impresa e la rappresenta ma non si occupa di profili tipicamente aziendali di gestione quali quelli riguardanti il marketing e il rapporto con la clientela ed i fornitori, propri del dirigente.
3. Con il terzo motivo deduce violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 cod. civ. e degli artt. 2730 e 2732 cod. civ. in ordine al carattere confessorio del procedimento disciplinare esperito dalla M.E. s.p.a. Sostiene, in sintesi, che con l’esercizio dei tipici poteri disciplinari la società avrebbe posto in essere un atto di valenza confessoria perché il contenuto negoziale del recesso presuppone, comunque, una dichiarazione di scienza, costituita appunto, dall’esistenza del rapporto di lavoro che il recesso va a sciogliere. Una volta decaduta la P. dalla carica di amministratore il 16.12.2011 la società non era tenuta, proprio per la assenza di un rapporto di lavoro subordinato, a procedere al licenziamento. La sentenza impugnata aveva errato nel trascurare questo elemento fondamentale.
4. Con l’unico motivo di ricorso incidentale condizionato la società ricorrente ha richiamato le difese già svolte in sede di appello con riproposizione della istanze in quel giudizio formulate.
5. I motivi di ricorso principale, valutati unitariamente in quanto tutti intesi a contestare, sotto vari profili, l’accertamento connesso alla natura del rapporto inter partes, sono infondati .
5.1. In linea generale occorre premettere che la giurisprudenza consolidata di questa Corte si è espressa nel senso della cumulabilità tra la qualità di amministratore delegato e quella di lavoratore subordinato di una stessa società di capitali purché si accerti l’attribuzione di mansioni diverse da quelle proprie della carica sociale (Cass. 06/11/2013 n. 24972; Cass. 30/09/2016 n. 19596; Cass. 14/01/2000 n. 381); la prova del vincolo della subordinazione e cioè dell’assoggettamento, nonostante la carica sociale rivestita, al potere direttivo, di controllo e disciplinare dell’organo di amministrazione della società è a carico del soggetto interessato a far valere la natura subordinata del rapporto (Cass. 06/04/1998 n. 3527; Cass. 06/11/1995 n. 11565).
5.2. Tanto premesso si rileva che il giudice di appello, pur affermando in limine che l’onere probatorio relativo alla esistenza della subordinazione era a carico della P. la quale non lo aveva assolto essendosi limitata a produrre il contratto in data 6.7.2011 senza nulla allegare ed offrire di provare in ordine al concreto atteggiarsi del rapporto <<pur conscia della concomitante e preesistente (risalendo al 28.6.2011) carica di Presidente del Consiglio di Gestione e di A.D. e delle problematiche da ciò scaturente>>, non si è arrestato a tale considerazione che in applicazione della regola dell’onere probatorio fatta propria dal giudice di merito avrebbe implicato il rigetto tout court del ricorso: la sentenza impugnata ha, infatti, proceduto, sulla base delle emergenze in atti, alla ricostruzione dell’effettivo atteggiarsi del rapporto in concreto e sulla base di tale ricostruzione ha esclusa la esistenza di un rapporto di lavoro subordinato; a tal fine ha valorizzato la circostanza che le mansioni di <<ammessa apicalità>>, quali allegate nel ricorso introduttivo, erano senz’altro riconducibili al ruolo di amministratore delegato; premesso che il contratto di assunzione era successivo alla nomina della P. ad amministratore delegato ed a presidente del Comitato di Gestione e che nulla la P. aveva allegato in tema di compiti aggiuntivi e diversi rispetto a quelli propri di tali cariche, ha osservato che dalla documentazione in atti risultava che la P., quale amministratore delegato della società, aveva poteri amplissimi ed in particolare rivestiva il ruolo di datore di lavoro e committente ai sensi del d. Ivo 09/04/2008 n. 81 del 2008 in materia di tutela della salute e della sicurezza nei luoghi di lavoro; inoltre, la circostanza, risultante dall’organigramma dirigenziale, che il direttore generale rispondeva all’amministratore delegato e che quest’ultimo, a sua volta, rispondeva, al Consiglio di gestione del quale la P. era presidente rendeva difficilmente ipotizzabile l’eterodirezione necessariamente presupposta dall’asserita natura subordinata del rapporto, mancando, nella specie, un soggetto (diverso dalla odierna ricorrente) al quale far risalire <<le eventuali e assolutamente indimostrate direttive >>” impartite dalla società al direttore generale; infine non risultavano atti che la P. aveva firmato come direttore generale ed era emerso che questa disponeva, o di fatto esercitava, un potere al di fuori di ogni superiore controllo tale da consentirle addirittura di <<controllare i controllori>> ossia il Consiglio di Gestione del quale correggeva i verbali con non irrilevanti osservazioni.
5.3. Il concreto accertamento da parte dei giudici di merito della insussistenza del vincolo di subordinazione con la società comporta, quindi, il superamento di ogni considerazione attinente alla verifica della parte sulla quale gravava l’onere di provare la simulazione del contratto di lavoro oggetto del primo motivo di ricorso.
5.4. Parimenti da respingere il secondo motivo di ricorso, il quale, pur formalmente denunziando violazione e falsa applicazione degli artt. 2094 e 2095 cod. civ., tende in larga parte a contestare la valenza probatoria degli elementi posti dal giudice di appello alla base della esclusione della natura subordinata del rapporto così sollecitando un diverso apprezzamento di fatto del materiale probatorio, apprezzamento precluso al giudice di legittimità (Cass. 4/11/2013 n. 24679, Cass. 16/12/2011 n. 2197, Cass. 21/9/2006 n. 20455, Cass. 4/4/2006 n. 7846, Cass. 7/2/2004 n. 2357).
5.5. Le residue doglianze articolate con il secondo motivo sono affidate a considerazioni generiche che sembrano prospettare un vizio di sussunzione, sotto il profilo della mancata considerazione della ampiezza dei poteri facenti capo al ruolo di direttore generale, valutazione che, al contrario, non risulta omessa dalla sentenza impugnata la quale, più radicalmente, con affermazione non specificamente contrastata, ha ritenuto che nella fattispecie concreta non era ravvisabile nell’ambito della società alcun soggetto con un ruolo sovraordinato alla P. al quale potessero fare capo i poteri di eterodirezione e controllo da esercitarsi nei confronti di quest’ultima quale direttore generale della società.
5.6. Infine, è da respingere anche il terzo motivo di ricorso principale per l’assorbente rilievo che l’accertamento del giudice di merito, il quale ha implicitamente escluso la pretesa natura confessoria connessa alla contestazione disciplinare argomentando che la condotta della società era sostanzialmente necessitata dalla esistenza del formale contratto di lavoro subordinato, si risolve in un apprezzamento di fatto non censurabile in sede di legittimità, ove lo stesso sia fondato su una motivazione immune da vizi logici (Cass. 27/09/2000 n. 12803; Cass 06/06/1977, n. 2329) ; ciò è avvenuto nel caso di specie in quanto la esclusione di ogni valenza probatoria, nel senso preteso dalla P., alla contestazione disciplinare è stata plausibilmente ricondotta alla esistenza, sia pure solo da un punto di vista formale, di un rapporto di lavoro subordinato scaturente dal contratto in ter partes.
6. Al rigetto del ricorso principale consegue l’assorbimento del ricorso incidentale condizionato all’accoglimento del primo.
7. Le spese del giudizio di legittimità sono regolate secondo soccombenza.
8. La circostanza che il ricorso sia stato proposto in tempo posteriore al 30 gennaio 2013 impone di dar atto dell’applicabilità dell’art. 13, comma 1 quater, d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, Legge 24/12/2012, n. 228.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso principale assorbito il ricorso incidentale. Condanna parte ricorrente alla rifusione delle spese del giudizio che liquida in € 4.000,00 per compensi professionali, € 200,00 per esborsi, oltre spese forfettarie nella misura del 15% e accessori come per legge.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza del presupposti per il versamento da parte della ricorrente principale dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13.
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