CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 25 settembre 2018, n. 22694
Rapporto di lavoro – Mobbing – Risarcimento del danno per le lesioni subite – Variazioni dell’orario di lavoro – Valenza offensiva – Condotta vessatoria – Caratteristiche della persecuzione e discriminazione – Prova
Fatti di causa
1.1. Con ricorso al Tribunale di Milano B. D’A. conveniva in giudizio la G. s.a.s. di G. S. & c. per sentirla condannare al pagamento di differenze retributive e t.f.r. per un totale di euro 36.651,42, al risarcimento del danno per le lesioni subite ed il mobbing perpetrato dall’azienda e così al pagamento di euro 50.000,00 nonché per sentir dichiarare illegittimo, inefficace e comunque nullo il licenziamento disciplinare intimatole, con reintegra nel posto di lavoro, condanna al pagamento delle retribuzioni perdute e risarcimento dei danni ulteriori.
1.2. Il Tribunale respingeva il ricorso.
1.3. La decisione era solo in parte riformata dalla Corte d’appello di Milano.
Quest’ultima riteneva che l’appellante non avesse fornito la dimostrazione dell’effettuazione delle ore di straordinario di cui reclamava il pagamento essendo decaduta dalla prova per mancata intimazione dei testi e non emergendo elementi a sostegno della prospettazione attorea dalle altre acquisizioni istruttorie, risultando l’elaborato di parte redatto esclusivamente sulla base delle circostanze riferite dalla lavoratrice.
Quanto al mobbing riteneva che i comportamenti addebitati alla società datrice di lavoro (variazioni dell’orario di lavoro, contestazioni ravvicinate) non avessero valenza offensiva tale da integrare una condotta vessatoria con le caratteristiche della persecuzione e discriminazione.
Quanto al licenziamento considerava non fondata la tesi della lavoratrice secondo cui il recesso sarebbe stato meramente verbale, rilevando invece che a seguito della lettera di contestazione del 29/7/2011 la società aveva disposto la sospensione cautelare della D’A. per comunicare poi il licenziamento con lettera del 30/12/2011 (successiva all’instaurazione di un giudizio ex art. 700 cod. proc. civ.).
Riteneva che fino alla ricezione da parte della d’A. di tale lettera di licenziamento dovesse ritenersi proseguito il rapporto (successivamente cessato per mutuo consenso) e fossero comunque dovute le retribuzioni; pertanto condannava la società al relativo pagamento.
2. Di tale sentenza B. D’A. domanda la cassazione con tre motivi.
3. La G. s.a.s. di G. S. & c. resiste con controricorso.
4. La ricorrente ha depositato memoria ex art. 378 cod. proc. civ. prima ancora di ricevere l’avviso di fissazione dell’odierna udienza di discussione. Quindi l’avv. C. D., difensore della D’A., ha prodotto comunicazione del 1° giugno 2018 con cui ha invitato l’assistita a munirsi di nuovo difensore avendo egli rinunciato al mandato.
Ragioni della decisione
1. Va preliminarmente osservato che, per effetto del principio della cosiddetta “perpetuano” dell’ufficio di difensore (di cui è espressione l’art. 85 cod. proc. civ.), nessuna efficacia può dispiegare, nell’ambito del giudizio di cassazione (oltretutto caratterizzato da uno svolgimento per impulso d’ufficio), la sopravvenuta rinuncia che il difensore del ricorrente abbia comunicato alla Corte prima dell’udienza di discussione già fissata (v. ex multis Cass. 8 novembre 2017, n. 26429).
2.1. Con il primo motivo la ricorrente denuncia la violazione e falsa applicazione dell’art. 115 cod. proc. civ.. Lamenta l’omessa valutazione di elementi probatori e così, quanto all’effettuazione di lavoro straordinario, delle dichiarazioni rese nel corso del giudizio di primo grado dai testi escussi e, quanto alla maggiorazione effettuata dal datore di lavoro per il lavoro svolto la domenica in misura pari solo al 10% e non al 40% della retribuzione ordinaria come previsto dal c.c.n.I. del turismo – pubblici esercizi minori, della relazione del consulente del lavoro, rag. C. P. nonché delle buste paga.
2.2. Il motivo è inammissibile.
La dedotta violazione dell’art. 115 cod. proc. civ. non è ravvisabile nella mera circostanza che il giudice di merito abbia valutato le prove proposte dalle parti attribuendo maggior forza di convincimento ad alcune piuttosto che ad altre, ma soltanto nel caso in cui il giudice abbia giudicato sulla base di prove non introdotte dalle parti e disposte di sua iniziativa al di fuori dei casi in cui gli sia riconosciuto un potere officioso di disposizione del mezzo probatorio (v. ex aliis Cass., Sez. U, 5 agosto 2016, n. 16598; Cass. 10 giugno 2016, n. 11892).
In ogni caso con il motivo la ricorrente propone una diversa lettura delle risultanze di causa, operazione non consentita in sede di legittimità.
La questione, poi, della misura della maggiorazione (fondata sul richiamo a norme del c.c.n.I. del quale non è denunciata la violazione e che non risulta neppure prodotto unitamente al ricorso per cassazione) sembra essere stata prospettata solo in appello e la ricorrente non chiarisce quale fosse stata la deduzione, sul punto, nel giudizio di primo grado.
3.1. Con il secondo motivo la ricorrente denuncia la violazione degli artt. 2043 e 2087 cod. civ.. Si duole della valutazione della Corte territoriale circa l’idoneità offensiva delle condotte poste in essere dal datore di lavoro.
3.2. Il motivo è infondato.
Non sussistono le denunciate violazioni di legge, avendo la Corte territoriale fatto corretta applicazione del principio secondo cui, ai fini della configurabilità del mobbing lavorativo, l’elemento qualificante, che deve essere provato da chi assume di avere subito la condotta vessatoria, va ricercato non nell’illegittimità dei singoli atti bensì nell’intento persecutorio che li unifica, sicché la legittimità dei provvedimenti può rilevare indirettamente perché, in difetto di elementi probatori di segno contrario, sintomatica dell’assenza dell’elemento soggettivo che deve sorreggere la condotta, unitariamente considerata; parimenti la conflittualità delle relazioni personali all’interno dell’ufficio, che impone al datore di lavoro di intervenire per ripristinare la serenità necessaria per il corretto espletamento delle prestazioni lavorative, può essere apprezzata dal giudice per escludere che i provvedimenti siano stati adottati al solo fine di mortificare la personalità e la dignità del lavoratore (v. Cass. 10 novembre 2017, n. 26684).
Per il resto il motivo, ad onta del richiamo alla violazione di legge, impinge nella valutazione della prova riservata al giudice di merito.
4.1. Con il terzo motivo la ricorrente denuncia la violazione dell’art. 7 I. n. 300/1970, dell’art. 2106 cod. civ. e dell’art. 2 I. 604/1966. Lamenta che la Corte territoriale non abbia tenuto conto del fatto che il licenziamento comunicato con lettera del 30/12/2011 fosse servito a regolarizzare un licenziamento illegittimo in quanto intimato verbalmente ed a seguito di una contestazione non regolare e abbia operato una ricostruzione con rispondente al vero laddove ha ritenuto che il rapporto di lavoro fosse cessato per mutuo consenso.
4.2. Il motivo è inammissibile.
Innanzitutto le censure relative all’asserito licenziamento orale non si confrontano con il decisum della Corte territoriale che ha ritenuto che non vi fosse stato alcun licenziamento orale, ma solo un provvedimento di sospensione che aveva tuttavia comportato la prosecuzione del rapporto fino al formale licenziamento per giusta causa del 30/12/2011, Intervenuto a giudizio già instaurato, tanto che fino alla comunicazione di tale licenziamento è stato ritenuto sussistente il diritto della D’A. alle retribuzioni.
La doglianza relativa alla pronuncia di cessazione del rapporto per mutuo consenso non è, poi, ritualmente introdotta come violazione dell’art. 1372 cod. civ..
La ricorrente, inoltre, fa riferimento ad atti (impugnativa del licenziamento) che a suo avviso avrebbero precluso una valutazione di mutuo consenso, senza che degli stessi sia riprodotto il contenuto ovvero sia indicato in quale sede processuale gli stessi siano stati prodotti.
5. Il ricorso deve, pertanto, essere rigettato.
6. Seguono la soccombenza le spese del presente giudizio, liquidate nella misura di cui al dispositivo e attribuite al difensore dichiaratosi anticipatario.
7. Va dato atto dell’applicabilità dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, nel testo introdotto dall’art. 1, co. 17, legge 24 dicembre 2012, n. 228.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento, in favore della controricorrente, delle spese delle spese del presente giudizio che liquida in euro 200,00 per esborsi ed euro 3.500,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge e rimborso forfetario in misura del 15%, spese da distrarsi in favore dell’avv. A. S., anticipatario.
Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis, dello stesso articolo 13.
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