CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 25 settembre 2020, n. 20167
Tributi – IVA – Vendita con buoni d’acquisto – Applicazione dell’imposta – Base imponibile – Valore nominale del buono – Esclusione – Effettivo valore della merce venduta – Legittimità
Fatti di causa
1. Con la sentenza n. 5091/06/17 del 05/12/2017, la Commissione tributaria regionale della Lombardia (di seguito CTR) respingeva l’appello proposto dall’Agenzia delle entrate avverso la sentenza n. 4164/44/16 della Commissione tributaria provinciale di Milano (di seguito CTP), che aveva accolto il ricorso proposto da A. s.p.a. (di seguito solo A.) nei confronti del silenzio rifiuto formatosi a seguito di istanza di rimborso di un credito IVA vantato dalla società e relativo all’anno d’imposta 2011.
1.1. Come emerge anche dalla sentenza impugnata: a) nella prospettazione della società contribuente, la richiesta di rimborso del 14/07/2014 era conseguenza di un errore di calcolo, per avere A. calcolato l’IVA sugli acquisti effettuati dai clienti con i cd. B. N.I. s.r.l. (di seguito solo N.) con riferimento al valore nominale di detti B. (euro 10,00) e non già con riferimento al prezzo effettivamente pagato da N. ad A., sulla base degli accordi intervenuti tra le due società (euro 5,83); b) a fronte della richiesta di rimborso l’Amministrazione finanziaria restava silente e il silenzio-rifiuto veniva impugnato da A..
1.2. La CTR motivava il rigetto dell’appello dell’Agenzia delle entrate osservando che: a) il giudice di prime cure aveva correttamente applicato alla fattispecie la sentenza della CGUE del 24/10/1996, in causa C-288/94, dalla quale si evinceva che la base imponibile per la cessione di un bene o la prestazione di un servizio era costituita dal corrispettivo realmente ricevuto; b) ne conseguiva che, nel caso di utilizzo di B. in pagamento del prezzo di acquisto, «il reale controvalore in denaro rappresentato dal B. va desunto dall’operazione iniziale di vendita del B. stesso ed è pari al valore nominale del B. diminuito dello sconto eventualmente praticato in quella fase»; c) non sussisteva la denunciata violazione dell’onere probatorio, essendo pacifico tra le parti (e quindi non contestato) che «A. ha determinato l’importo richiesto a rimborso sulla base di un calcolo non già analitico ma presuntivo, ottenuto scomputando dagli incassi, IVA compresa, riferibili allo sconto praticato sui B. (…) un’aliquota media di IVA, desunta dal complesso delle aliquote praticate su tutti i vari beni commercializzati» e la correttezza di tale modalità di computo non era stata specificamente contestata né messa in discussione; d) con riferimento, poi, alla tempestività dell’istanza di rimborso, la stessa era stata presentata ai sensi dell’art. 21 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546 e non era stata mai sollevata alcuna eccezione al riguardo, né il rilievo poteva essere operato d’ufficio in mancanza di prova relativa all’intervenuto pagamento dell’IVA di cui si chiedeva il (parziale) rimborso e, dunque, del dies a quo dal quale computare il termine biennale di decadenza.
2. L’Agenzia delle entrate impugnava la sentenza della CTR con ricorso per cassazione, affidato a tre motivi.
3. A. resisteva con controricorso.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo di ricorso l’Agenzia delle entrate denuncia la violazione dell’art. 111 Cost., degli artt. 88, 112, 115, 116, 167, 132, secondo comma, n. 4, e 416 cod. proc. civ., dell’art. 118 disp. att. cod. proc. civ. e degli artt. 1, 21, 32, 36, comma 2, n. 4, 53, 54 e 61 del d.lgs. n. 546 del 1992, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 4, cod. proc. civ.
1.1. In buona sostanza, l’Agenzia rileva, sotto il profilo dell’error in procedendo: a) l’erronea applicazione del principio di non contestazione da parte della CTR, non potendo ritenersi, sulla base delle difese dell’Amministrazione finanziaria, la non contestazione del conteggio effettuato da A.; b) il mancato rilievo d’ufficio della intempestività della istanza di rimborso, pienamente ricavabile dalla documentazione acquisita in giudizio.
2. Con il secondo motivo di ricorso si contesta la violazione e/o la falsa applicazione degli artt. 24, 53, 97, 111 e 117 Cost., degli artt. 115 e 116 cod. proc. civ., degli artt. 1362, 1363, 2002, 2697 e 2969 cod. civ., dell’art. 21 del d.lgs. n. 546 del 1992, dell’art. 1 del d.P.R. 23 marzo 1998, n. 100, dell’art. 6 del d.P.R. 14 ottobre 1999, n. 542, degli artt. 3 e 4 del d.P.R. 26 ottobre 2001, n. 430, dell’art. 19 della I. 27 dicembre 1997, n. 449, degli artt. 2, commi secondo, n. 4, e terzo, lett. a), 13, 18 e 19 del d.P.R. 26 ottobre 1972, n. 633, dell’art. 11 della direttiva n. 77/388/CEE del 17 maggio 1977 (sesta direttiva), dell’art. 74 della direttiva n. 2006/112/CE del 28 novembre 2006, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 3, cod. proc. civ.
2.1. La ricorrente osserva, in primo luogo, che l’operazione a premio (qual è pacificamente quella condotta tra A. e N.) sarebbe fuori campo IVA ai sensi dell’art. 2, terzo comma, del d.P.R. n. 633 del 1972, applicandosi l’imposta unicamente quando il B. del valore nominale di euro 10,00 (ma pagato euro 5,83 da N.) viene utilizzato per gli acquisiti praticati dai beneficiari; detti acquisti – autonomi rispetto ai rapporti tra A. e N. – dovrebbero essere qualificati come cessioni gratuite di beni, imponibili ai sensi dell’art. 2, secondo comma, n. 4, del d.P.R. n. 633 del 1972, e non già come cessioni a titolo oneroso, per le quali sarebbe necessaria l’esistenza di un nesso diretto tra la cessione dei beni ed il corrispettivo realmente percepito dal soggetto passivo.
2.2. Secondariamente, la ricorrente afferma di avere tempestivamente contestato la decadenza dal diritto al rimborso ai sensi dell’art. 21, comma 2, del d.lgs. n. 546 del 1992 e che la CTR avrebbe posto l’onere di provare i fatti costituitivi della decadenza a carico dell’Amministrazione finanziaria, senza tenere conto che, in ragione delle date accertate (IVA del 2010 e domanda di rimborso del 2014), la decadenza sarebbe chiaramente evincibile ex actis e, in ogni caso, la prova dei fatti impeditivi della stessa graverebbe sulla società contribuente.
3. Con il terzo motivo di ricorso si deduce, in relazione all’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., l’omesso esame di fatti decisivi per il giudizio oggetto di discussione tra le parti, sotto il profilo: a) della erronea ricostruzione della fattispecie; b) della ritenuta mancata contestazione del quantum debeatur; c) della intervenuta decadenza dalla domanda di rimborso.
4. Va subito evidenziato che il terzo motivo di ricorso, con il quale si denuncia un vizio motivazionale della sentenza impugnata si rivela inammissibile per palese violazione del principio della cd. doppia conforme.
4.1. Invero, «le disposizioni sul ricorso per cassazione, di cui all’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, circa il vizio denunciabile ai sensi dell’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ. ed i limiti d’impugnazione della “doppia conforme” ai sensi dell’ultimo comma dell’art. 348-ter cod. proc. civ., si applicano anche al ricorso avverso la sentenza della Commissione tributaria regionale, atteso che il giudizio di legittimità in materia tributaria, alla luce dell’art. 62 del d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546, non ha connotazioni di specialità. Ne consegue che l’art. 54, comma 3-bis, del d.l. n. 83 del 2012, quando stabilisce che “le disposizioni di cui al presente articolo non si applicano ai processo tributario di cui al d.lgs. 31 dicembre 1992, n. 546”, si riferisce esclusivamente alle disposizioni sull’appello, limitandosi a preservare la specialità del giudizio tributario di merito» (Cass. S.U. nn. 8053 e 8054 del 07/04/2014).
4.2. Trattasi di disposizioni che si applicano ai giudizi di appello introdotti con ricorso depositato o con citazione di cui sia stata richiesta la notificazione successivamente all’11 settembre 2012 (Cass. n. 26860 del 18/12/2014; Cass. n. 24909 del 09/12/2015; Cass. n. 11439 del 11/05/2018) e, dunque, anche al presente giudizio, introdotto con appello depositato il 16/12/2016, come si evince dalla sentenza impugnata.
5. Gli altri due motivi possono essere esaminati congiuntamente, denunciando essenzialmente l’erroneità della sentenza impugnata sotto tre distinti profili: I) quello dell’applicabilità dell’IVA sull’importo nominale dei B. acquistati da N. e spesi presso A. ovvero sul solo importo corrisposto da A. a N.; II) quello della erronea applicazione del principio di non contestazione in ordine ai conteggi del quantum debeatur effettuati da A.; III) quello della intervenuta decadenza, per decorrenza del termine biennale, della domanda di rimborso proposta da A..
5.1. Con riferimento alla questione sub I), va premesso in punto di fatto, come emerge dalle difese delle parti e dal contratto stipulato tra A. e N., che: a) A., in qualità di venditore, partecipa, insieme ad altri imprenditori, ad un programma promozionale a punti avente la finalità di fidelizzare la propria clientela, programma realizzato con l’ausilio di N., che ne è il gestore; b) ai clienti di A. vengono rilasciate, da parte di N., delle carte magnetiche sulle quali vengono accreditati dei punti in misura proporzionale all’entità della spesa effettuata presso gli esercizi commerciali del venditore; c) al raggiungimento di un certo numero di punti, i clienti hanno diritto a scegliere dei premi, tra i quali figurano anche i B. N., ciascuno del valore nominale di euro 10,00, che danno diritto ad acquisti presso il venditore per un controvalore corrispondente; d) N. corrisponde ad A. per ciascun B. distribuito la somma di euro 5,83, versamento esente IVA ai sensi dell’art. 2, secondo comma, n. 4, del d.P.R. n. 633 del 1972.
5.2. La CTR, in conformità a quanto enunciato da CGUE del 24/10/1996, in causa C-288/94, Argos Distribution, sostiene che «la base imponibile per la cessione di un bene o la prestazione di un servizio è costituita dal corrispettivo realmente ricevuto a tal fine» e che, pertanto, «in caso di utilizzo di B. in pagamento del prezzo di acquisto, il reale controvalore in denaro rappresentato dal B. va desunto dall’operazione iniziale di vendita del B. stesso ed è pari al valore nominale del B. diminuito dello sconto eventualmente praticato in quella fase».
5.2.1. Ne consegue che, avendo A. erroneamente conteggiato l’IVA da versare all’Erario con riferimento al valore nominale del B. (euro 10,00) e non all’effettivo prezzo di cessione a N. (euro 5,83), ha diritto al rimborso dell’IVA indebitamente versata sulla differenza (euro 4,17).
5.3. La difesa erariale rileva che l’interpretazione della CTR non terrebbe conto delle peculiarità della fattispecie rispetto a quella esaminata dalla Corte di giustizia della UE e omette di considerare che non sussisterebbe alcun nesso diretto tra la somma versata da N. per l’acquisto dei B. spesa e l’acquisto di prodotti presso A., per i quali quest’ultima non pratica alcuno sconto, limitandosi ad accettare il B. per il suo valore nominale. Le vendite effettuate da A. ai terzi portatori di B. spesa dovrebbero, pertanto, essere qualificate come cessioni gratuite di beni, come tali imponibili a fini IVA.
5.4. Orbene, secondo quanto chiarito da CGUE del 24/10/1996, in causa C-317/94, Elida Gibbs, «Il principio di base risiede nel fatto che il sistema dell’IVA mira a gravare unicamente il consumatore finale.
Di conseguenza la base imponibile dell’IVA che deve essere riscossa dalle autorità fiscali non può essere superiore al corrispettivo effettivamente pagato dal consumatore finale e sul quale è stata calcolata l’IVA dovuta in definitiva da tale consumatore» (punto 19).
Pertanto, «tenuto conto in ogni caso del meccanismo dell’IVA, del suo funzionamento e del ruolo degli intermediari, l’amministrazione fiscale non può in definitiva riscuotere un importo superiore a quello pagato dal consumatore finale» (punto 24).
5.4.1. Poiché, pertanto, la base imponibile dell’IVA è rappresentata, per le forniture di beni, da tutto ciò che costituisce il corrispettivo versato o da versare al fornitore da parte dell’acquirente (art. 11, parte A, n. 1, lett. a), della sesta direttiva, peraltro recepito dall’art. 13 del d.P.R. n. 633 del 1972), il produttore che ha venduto propri prodotti ad un prezzo successivamente decurtato dallo sconto praticato ha diritto a versare l’IVA in percentuale di quanto effettivamente percepito, corrispondente al prezzo originario del prodotto detratto lo sconto praticato a mezzo B. sconto (CGUE del 26/10/1996, Elida Gibbs, cit., punto 29; le conclusioni della menzionata sentenza sono riprese anche da CGUE del 15/10/2002, in causa C-427/98, Commissione c/o Repubblica Federale di Germania).
5.4.2. Ad analoghe conclusioni giunge CGUE del 24/10/1996, Argos Distribution, cit., che decide una fattispecie per larga parte analoga a quella oggetto della presente controversia: Argos, come A., compie un’operazione promozionale volta a fidelizzare i propri clienti, cede i B. acquisto ad altro soggetto per un valore inferiore a quello nominale e accetta di cambiare detti B. per un controvalore in merci pari al valore nominale di questi titoli.
5.4.3. In tale ipotesi la Corte di giustizia ha ritenuto che il B., per sua natura, non costituisce altro che un documento nel quale è incorporato l’obbligo assunto dalla Argos di accettare lo stesso al posto del denaro al suo valore nominale (si veda, altresì, CGUE del 27/03/1990, in causa C-126/88, Boots Company, punto 21). Orbene, «per verificare il reale controvalore in denaro rappresentato per la Argos dall’incasso del B., occorre riferirsi alla sola operazione pertinente al riguardo, ossia l’operazione iniziale di vendita del B., con o senza sconto. Da tale operazione risulta che, al momento dell’incasso del B., esso rappresenta per la Argos un controvalore reale in denaro pari alla somma percepita all’atto della sua cessione, ossia al valore nominale del B., diminuito dello sconto eventualmente accordato» (punto 20).
5.4.4. Fattispecie similare è quella affrontata da CGUE del 24/01/2002, in causa C-62/00, M.S. (la M.S. vendeva a varie società B. acquisto ad un prezzo inferiore al loro valore nominale; i B. acquisto venivano poi venduti o donati a terzi, i quali potevano utilizzarli restituendoli alla M.S. al fine di riceverne in cambio prodotti di prezzo equivalente al valore nominale dei B. stessi) e che, sebbene si pronuncia su questione differente, sembra accreditare una soluzione uguale a quella di CGUE del 24/10/1996, Argos Distribution, cit.
5.5. I rilievi dell’Agenzia delle entrate non colgono nel segno: da un lato, A., accettando, a fronte della consegna dei B., di cedere merce per un valore superiore a quanto effettivamente percepito da N., finisce con il praticare un vero e proprio sconto sul prezzo finale, non avendo incassato un importo corrispondente al valore nominale della merce ceduta; dall’altro, non può ragionevolmente sostenersi che non vi sia un nesso diretto tra la somma versata da N. e l’acquisto dei prodotti, avuto conto del fatto che questi ultimi vengono acquistati proprio con i B., in relazione ai quali Néctar riconosce ad A. un corrispettivo in denaro.
5.5.1. Né può ragionevolmente ritenersi che si tratti, da parte di A., di una cessione a titolo gratuito, assimilabile ad una cessione a titolo oneroso. In proposito, CGUE del 27/04/1999, in causa C-48/97, Kuwait Petroleum, ha effettivamente ritenuto tali le cessioni dei premi conseguiti dai consumatori con i punti acquisiti a seguito della vendita di carburante, ma in tale ipotesi i premi erano stati acquistati e, quindi, ceduti ai clienti dalla stessa società che aveva organizzato la promozione, la quale non si era, dunque, limitata a “scontare” il prezzo di vendita dei propri prodotti.
5.6. Va, dunque, enunciato il seguente principio di diritto: «in caso di vendite effettuate in favore di clienti dietro presentazione di B. acquisto rilasciati da un terzo soggetto, che li ha a sua volta acquistati dal venditore a prezzo inferiore al loro valore nominale, la base imponibile dell’IVA che il venditore è tenuto a versare all’Amministrazione finanziaria è costituita dal prezzo di cessione dei B. acquisto effettivamente conseguito dal venditore e non da quello corrispondente al loro valore nominale».
5.7. Ne consegue la conferma della sentenza impugnata in parte qua.
5.8. Venendo alla questione sub II), la CTR ha affermato che: a) in tema di rimborso d’imposta, l’onere della prova della sussistenza dei presupposti per la ripetizione dell’indebito grava sul contribuente; b) il principio di non contestazione è, comunque, applicabile anche in sede tributaria; c) l’indicazione presuntiva dell’IVA da restituire proposta da A. non è stata specificamente contestata da parte dell’Agenzia delle entrate.
5.9. Come da ultimo evidenziato da Cass. n. 7127 del 13/03/2019, questa Corte ha già avuto modo di affermare (Cass. n. 29613 del 29/12/2011; Cass. n. 6550 del 27/04/2012; Cass. n. 15026 del 02/07/2014) che quando si controverta su una domanda di rimborso del contribuente, quest’ultimo riveste la qualità di attore in senso non soltanto formale – come nei giudizi di impugnazione di un atto impositivo – ma anche sostanziale.
5.9.1. Ciò significa, in primo luogo, che l’onere di allegare e provare i fatti ai quali la legge ricollega il trattamento impositivo rivendicato in domanda grava sul contribuente; secondariamente, che le argomentazioni con le quali l’Ufficio nega la sussistenza di detti fatti, o contesta che i medesimi siano qualificabili giuridicamente nei termini proposti dal contribuente, costituiscono “mere difese”, come tali non soggette ad alcuna preclusione processuale, salva l’ipotesi del formarsi di un giudicato interno o, ricorrendone i presupposti, l’applicazione del principio di non contestazione.
5.9.2. Con riferimento a tale ultimo principio, certamente applicabile anche nel processo tributario (Cass. n. 1540 del 24/01/2007; Cass. n. 7827 del 31/03/2010), è stato chiarito, proprio in relazione ad una fattispecie similare, che esso non può operare nel caso in cui l’Amministrazione finanziaria neghi in radice l’esistenza del credito, sicché il difetto di specifica contestazione dei conteggi funzionali alla quantificazione del credito oggetto della pretesa del contribuente può avere rilievo solo quando si riferisca a fatti non incompatibili con le ragioni della contestazione dell ‘an debeatur.
5.9.3. Invero, il principio di non contestazione opera sul piano della prova e non contrasta, né supera, il diverso principio per cui la mancata presa di posizione sul tema introdotto dal contribuente non restringe il thema decidendum ai soli motivi contestati se sia stato chiesto il rigetto dell’intera domanda (Cass. n. 9732 del 12/05/2016).
5.10. Applicando i superiori principi al caso di specie, deve evidenziarsi che l’Amministrazione finanziaria ha negato in radice l’esistenza del credito IVA vantato da A. e, quindi, non può ragionevolmente parlarsi di non contestazione della correttezza dei conteggi eseguiti dalla società contribuente; in tal modo si alterano i principi afferenti all’onere della prova che, in ipotesi, grava sicuramente su chi agisce per il rimborso del credito d’imposta.
5.10.1. La CTR non avrebbe, pertanto, potuto fondare il proprio convincimento unicamente sulla pretesa non contestazione dei conteggi effettuati da A., ma avrebbe dovuto spiegare le ragioni per le quali detti conteggi siano corretti e attendibili.
5.10.2. La sentenza va, pertanto, cassata in parte qua.
5.11. Venendo al rilievo di cui sopra sub III), non è dubbio che la domanda di rimborso del credito IVA vantato da A. è soggetta al termine di decadenza biennale di cui all’art. 21 del d.lgs. n. 546 del 1992 (Cass. n. 20573 del 31/07/2019; Cass. n. 21674 del 23/10/2015; Cass. n. 12433 del 08/06/2011), decorrente dalla data del pagamento ovvero, se posteriore, dal giorno in cui si è verificato il presupposto per la restituzione.
5.12. La CTR, dopo avere evidenziato che l’Agenzia delle entrate non ha eccepito la decadenza e che quest’ultima sia comunque rilevabile d’ufficio dal giudice, ha ritenuto che «il fatto (incontroverso) che manchi agli atti qualsivoglia riferimento concreto circa il dies a quo da cui computare il termine biennale di decadenza di cui all’art. 21, comma 2, D.Lgs. n. 546/1992, induce a ritenere insussistenti i presupposti oggettivi per procedere ad un rilievo officioso della decadenza stessa».
5.13. Il ragionamento presuntivo compiuto dalla CTR è viziato in diritto, in quanto, come correttamente osservato dalla ricorrente, la CTR avrebbe comunque dovuto spiegare perché, posta la doverosa presunzione di regolarità dei versamenti da parte di A., per un credito IVA risalente all’anno d’imposta 2010 non sia comunque maturata la decadenza biennale alla data di presentazione dell’istanza di rimborso del 14/07/2014.
6. In conclusione, vanno accolti, nei limiti di cui sopra si è detto, i primi due motivi di ricorso, rigettato il terzo. La sentenza impugnata va cassata con riferimento ai motivi accolti e rinviata alla CTR della Lombardia, in diversa composizione, per nuovo esame e per le spese del presente giudizio.
P.Q.M.
Accoglie, nei limiti di cui in motivazione, il primo e il secondo motivo di ricorso, rigettato il terzo; cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti e rinvia alla Commissione tributaria regionale della Lombardia anche per le spese del presente giudizio.
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