CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 26 aprile 2018, n. 10138
Demansionamento – Variazione peggiorativa delle attività fatte svolgere al dipendente rispetto al profilo di inquadramento – Assegnazione di mansioni nettamente inferiori a quelle di inquadramento – Carattere meramente impiegatizio – Dipendenza da un responsabile di area di livello inferiore – Privazione di qualsiasi profilo di responsabilità, in contrasto col profilo di appartenenza – Risarcimento del danno biologico
Fatti di causa
1.La Corte d’Appello di Venezia, con sentenza non definitiva n. 427/2011, poi seguita da sentenza definitiva n. 868/2011, ha confermato la pronuncia del Tribunale di Treviso con cui era stato riconosciuto che l’I.N.P.D.A.P. aveva demansionato G.U., con condanna dell’ente al risarcimento del danno biologico cagionato al ricorrente, in misura di euro 13.560,90, nonché al pagamento di 160 ore di lavoro straordinario prestate dal lavoratore.
Avverso la sentenza l’I.N.P.S., ente in cui è medio tempore confluito l’I.N.P.D.A.P., ha proposto ricorso per cassazione, affidandosi a due motivi, per le sole questioni attinenti al demansionamento e non quindi rispetto al riconoscimento dello straordinario. Il G. è rimasto intimato.
Ragioni della decisione
1.Con il primo motivo, riguardante la sentenza non definitiva, l’I.N.P.S. lamenta la violazione degli artt. 1362 ss. c.c., anche in relazione al CCNL 1998-2001 e CCIE 1999-2001 e degli artt. 2 e 52 del d.Igs. 165/2001, in relazione ai principi di cui all’art. 111Cost. ed in particolare del comma 7, in una lettura integrata con l’art. 6 CEDU.
Il ricorrente premette che l’attribuzione dell’incarico di posizione organizzativa, già conferito al G., non incide sul livello di inquadramento del dipendente, il quale durante e dopo lo stesso mantiene il livello posseduto precedentemente.
Sostiene quindi che le attività cui il G. era stato adibito dopo la cessazione dell’incarico di posizione organizzativa non determinavano la violazione della normativa collettiva di definizione dell’area C e della posizione C4 di appartenenza del ricorrente, anche sulla base delle risultanze dell’istruttoria svolta.
2.Il motivo non merita accoglimento.
2.1 Va intanto rilevato che l’oggetto del contendere, almeno per come definito nella sentenza di secondo grado e sul punto non contestato, non riguarda la legittimità della revoca della posizione organizzativa in sé considerata, quanto il comportamento datoriale tenuto dopo tale revoca, in quanto tale da avere comportato una variazione peggiorativa delle attività fatte svolgere al G. rispetto al profilo (C4 del C.C.N.L. enti pubblici economici 1998-2001) di inquadramento.
2.2 La Corte d’Appello di Venezia, nel ricostruire gli esiti istruttori, ha ritenuto che le mansioni successivamente assegnate al G. fossero nettamente inferiori a quelle di inquadramento, sottolineando come esse avessero carattere meramente impiegatizio, da svolgersi alle dipendenze di un responsabile di area di livello inferiore e fossero prive di qualsiasi profilo di responsabilità e quindi in contrasto con la declaratoria contrattuale propria del profilo C4 di appartenenza.
Rispetto a tale apprezzamento, fondato su risultanze testimoniali che sono state espressamente richiamate nella motivazione della sentenza impugnata, l’I.N.P.S. adduce altre emergenze istruttorie che però non inficiano le conclusioni della Corte distrettuale.
La circostanza infatti che i diversi impiegati inquadrati in Area C, come il G., svolgessero, nell’occuparsi di una pratica, un pò tutte le mansioni rientranti nell’ambito di tale Area, se può giustificare che anche il G. all’occorrenza dovesse fare altrettanto, non significa che egli potesse, come emerso dall’istruttoria così come valorizzata dalla Corte veneziana, essere privato di qualsiasi profilo di responsabilità.
La posizione C4 in cui il G. pacificamente è ed ha diritto ad essere inquadrato, prevede invece la responsabilità come tratto caratterizzante, sia dal punto di vista formale (“assunzione di responsabilità formate” si legge nella declaratoria del C.C.N.L. richiamata dalle parti) sia dal punto vista sostanziale (richiedendo ad esempio la “capacità di assumere decisioni anche in situazioni di criticità”).
La Corte d’Appello non ha quindi violato alcuna norma sull’interpretazione dei contratti (qui, collettivi) ed il motivo risulta palesemente inidoneo ad inficiare in alcun modo la motivazione addotta, in stretta coerenza tra declaratoria e risultanze istruttorie, nella sentenza impugnata.
3.Infondato è anche il secondo motivo, che concerne gli apprezzamenti della sentenza definitiva in ordine al nesso causale tra il comportamento illegittimo e il danno biologico accertato, nonché la quantificazione del risarcimento posto a carico dell’ente.
L’I.N.P.S. sostiene che vi sarebbe stata la violazione, rilevante ex art. 360 n. 3 c.p.c., dell’art. 41 c.p., ovverosia della regola sull’equivalenza delle concause. Sul presupposto che il lavoratore avesse, come accertato dal c.t.u., una naturale predisposizione alla malattia psichica poi sviluppatasi, l’ente ritiene che la medesima condizione andasse intanto considerata anch’essa come causa del danno ed inoltre, mancando prova “del nesso di causalità tra i comportamenti datoriali ed il danno patito dal lavoratore”, essa dovesse essere intesa quale unica “determinante dell’evento”.
Non appare tuttavia corretto l’assunto secondo cui la predisposizione personale sarebbe da intendere quale concausa del manifestarsi del danno, in quanto nulla autorizza ad affermare che la situazione di latenza della patologia accertata dal c.t.u. si sarebbe conclamata in danno, senza il ricorrente dei fattori scatenanti afferenti alla vicenda penalistica e lavorativa apprezzati dal c.t.u. e puntualmente valorizzati dalla Corte d’Appello. Ciò manifesta l’inconsistenza di quanto sostenuto con il motivo in esame, attraverso cui si sottopone alla Corte un’apodittica ed inammissibile (Cass., S.U., 25 ottobre 2013, n. 24148 ) rilettura dei dati di merito.
Si deve poi osservare che la sentenza definitiva di appello si fonda su chiarimenti resi del c.t.u. in cui quest’ultimo, secondo quanto riportato espressamente nello stesso ricorso per cassazione, afferma che il danno manifestatosi era da riportare non solo alla vicenda penalistica, ma anche al “vissuto persecutorio” in sede di lavoro.
Vissuto che il c.t.u. riconosceva in nesso causale con il pregiudizio alla salute, a condizione che “la ricostruzione giudiziaria della vicenda fosse risultata conforme alle dichiarazioni del periziato”.
Da ciò la Corte, avendo con la sentenza non definitiva già accertato il comportamento dequalificante, ha ovviamente tratto la conclusione della ricorrenza del nesso concausale, tra le vicende penalistiche/lavoristiche e la manifestazione del danno, concludendo poi in termini giuridici per la piena responsabilità datoriale verso il G., secondo il principio di equivalenza delle concause.
E’ quindi palese che, da quest’ultimo punto di vista, il motivo di ricorso per cassazione si basa su un presupposto, ovverosia il mancato accertamento di nesso causale tra comportamento datoriale e danno, che è erroneo, in quanto l’accertamento di quel nesso vi è stato e neppure sono stati spesi effettivi argomenti logici atti a porne in dubbio la fondatezza.
4.In definitiva il ricorso va integralmente rigettato.
5.Nulla va disposto sulle spese, stante il fatto che la parte vincitrice è rimasta intimata.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.
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