CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 26 aprile 2022, n. 13064

Dipendente di azienda del Terziario – Licenziamento per giusta causa – Illegittimità – Mancanze lievi addebitate – Art. 225 del CCNL

Fatti di causa

1. La Corte di Appello di Catanzaro, con sentenza del 5 settembre 2019, nell’ambito di un procedimento ex lege n. 92 del 2012, ha confermato la pronuncia di primo grado che aveva annullato il licenziamento per giusta causa intimato il 24 maggio 2017 a M. P. da M. Spa con socio unico, condannando la società datrice di lavoro alle conseguenze sanzionatorie previste dall’art. 18, comma 4, l. n. 300 del 1970 e successive modif. e integrazioni.

2. In sintesi, la Corte ha, innanzitutto, considerato “pacifico tra le parti che la misura espulsiva al presente vaglio è stata irrogata, ai sensi dell’art. 225 CCNL per grave violazione degli obblighi di cui all’art. 220, primo e secondo comma, (obblighi di scrupolosa osservanza dei doveri e del segreto d’ufficio, di usare modi cortesi con il pubblico e di tenere una condotta conforme ai civici doveri, nonché di conservare diligentemente le merci e i materiali, di cooperare alla prosperità dell’impresa)”; con riferimento alle modalità della condotta contestata, la Corte ha ritenuto “provato che il diverbio del P. con il collega Q. V. è avvenuto anche alla presenza di <alcuni clienti>”, ma ha aggiunto che “la condotta come emersa in sede istruttoria non configura la violazione dei doveri di cui all’articolo 220 CCNL di usare modi cortesi con la clientela, come sostenuto dalla società datrice, atteso che la frase <scortese> ha avuto come unico destinatario il collega e non anche il pubblico”; poi, “nella procedura di reso, l’apposizione della firma del coniuge S. F., sul relativo modulo e della propria firma in corrispondenza della casella <firma del venditore> è avvenuta dinanzi alla collega che ha proceduto al rimborso della somma”.

3. Ciò posto in punto di fatto, la Corte ha condiviso la valutazione del Tribunale che aveva ritenuto che “tali episodi di <intemperanza> non presentassero quel carattere della gravità che ai sensi dell’articolo 225 del CCNL comporta il licenziamento disciplinare”; quindi – secondo la Corte – correttamente il primo giudice aveva ritenuto che le mancanze addebitate fossero da qualificarsi come <lievi>, con conseguente applicazione dell’art. 18, quarto comma, S.d.L. dal punto di vista della tutela applicabile, argomentando: “l’art. 225 del CCNL nel graduare le sanzioni ha, infatti, previsto il licenziamento disciplinare solo ove la violazione dei doveri di cui all’art. 220, primo e secondo comma, si presenti grave; mentre ha espressamente ricollegato la sanzione conservativa del biasimo ad ogni ipotesi di mancanze lievi addebitabili al lavoratore”.

4. Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso la società soccombente con 4 motivi; ha resistito con controricorso l’intimato.

5. In prossimità dell’udienza pubblica del 2 febbraio 2022 il P.G. ha comunicato, ai sensi dell’art. 23, comma 8 bis, d.l. n. 137 del 2020, inserito nella l. di conv. n. 176 del 2020, le sue conclusioni per l’accoglimento parziale del ricorso, in relazione alle censure contenute nel quarto motivo. La società ha anche depositato memoria.

Ragioni della decisione

1. Con il primo motivo si denuncia la violazione e la falsa applicazione degli artt. 220 e 225 del CCNL per i dipendenti di aziende del terziario e l’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio costituito dal “reclamo” sporto al direttore da uno dei clienti presenti ai fatti; si critica la sentenza impugnata per avere ritenuto non configurabile l’ipotesi di cui all’art. 220 del CCNL di usare modi cortesi con la clientela per il solo fatto che la frase “scortese” aveva avuto come unico destinatario un collega e non il pubblico, trascurando di considerare che comunque clienti erano presenti all’accaduto. Con il secondo motivo si denuncia la violazione e la falsa applicazione degli artt. 2119 c.c., 2106 c.c., 225 del CCNL per i dipendenti di aziende del terziario e l’omesso esame di un fatto decisivo costituito dal rapporto gerarchico esistente tra il P. e la Sig.ra M. e gli altri colleghi da lui non informati della nuova polizza e la sua connessa situazione di sovraordinazione come capo settore, anche avuto riguardo all’episodio che aveva coinvolto la Sig.ra B., oltre al fatto stesso della mancata informazione dei colleghi; si critica diffusamente la sentenza impugnata per avere ritenuto il licenziamento irrogato ai sensi dell’art. 225 del CCNL applicabile, senza considerare la clausola generale dell’art. 2119 c.c.; si contesta la Corte di merito per non avere effettuato “un’approfondita analisi innanzitutto della “portata oggettiva” della condotta illecita tenuta dal lavoratore e sulla sua capacità di ledere il legame fiduciario che lega le parti del rapporto di lavoro”.

2. I motivi, congiuntamente scrutinabili per connessione, sono inammissibili nelle parti in cui invocano il n. 5 dell’art. 360 c.p.c. in una ipotesi preclusa dall’art. 348 ter, ultimo comma, c.p.c., secondo cui il vizio di cui innanzi comunque non può essere proposto con il ricorso per cassazione avverso la sentenza d’appello che conferma la decisione di primo grado, qualora il fatto sia stato ricostruito nei medesimi termini dai giudici di primo e di secondo grado, ossia non è deducibile in caso di impugnativa di pronuncia c.d. “doppia conforme” (v. Cass. n. 23021 del 2014; Cass. n. 4223 del 2016). In questi casi il ricorrente per cassazione – per evitare l’inammissibilità del motivo di cui all’art. 360, n. 5, c.p.c. – deve adeguatamente indicare le ragioni di fatto poste a base, rispettivamente, della decisione di primo grado e della sentenza di rigetto dell’appello, dimostrando che esse sono tra loro diverse (Cass. n. 26774 del 2016, conf. Cass. n. 20944 del 2019). Pertanto, una volta negato l’ingresso in questa sede a tutte quelle censure che attengono alla ricostruzione della vicenda storica come operata dai giudici di merito, restano le denunce di violazione o falsa applicazione di norme di diritto, in particolare dell’art. 2119 c.c. anche in collegamento con l’art. 2106 c.c., ovvero di norme di contratti collettivi nazionali di lavoro, rispetto alle quali denunce occorre ribadire i confini del sindacato di questa Corte a mente dell’art. 360, co. 1, n. 3, c.p.c., ove si controverta della giusta causa di licenziamento (v. Cass n. 18715 del 2016; conf. Cass. n. 4125 del 2017; Cass. n. 13534 del 2019; Cass. n. 1379 del 2019).

2.1. Premesso che la giusta causa o, con diversità solo di grado, il giustificato motivo soggettivo di licenziamento rappresentano, per comune opinione, delle clausole generali, le parti ben possono sottoporre all’esame di questa Corte il profilo della violazione del parametro integrativo di esse. Infatti, come questa Corte insegna (per tutte: Cass. n. 7838 del 2005 e Cass. n. 18247 del 2009; v. poi Cass. n. 9396 e n. 28492 del 2018, oltre che Cass. n. 18715 del 2016), il modulo generico che identifica la struttura aperta delle disposizioni di limitato contenuto, ascrivibili alla tipologia delle cd. clausole generali, richiede di essere specificato in via interpretativa, allo scopo di adeguare le norme alla realtà articolata e mutevole nel tempo. La specificazione può avvenire mediante la valorizzazione o di princìpi che la stessa disposizione richiama o di fattori esterni relativi alla coscienza generale ovvero di criteri desumibili dall’ordinamento generale, a cominciare dai principi costituzionali ma anche dalla disciplina particolare, collettiva appunto, in cui si colloca la fattispecie. Dette specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica e la loro errata individuazione è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge (tra le innumerevoli: Cass. n. 6901 del 2016; Cass. n. 6501 del 2013; Cass. n. 6498 del 2012; Cass. n. 25144 del 2010); dunque non si sottrae al controllo di questa Corte il profilo della correttezza del metodo seguito nell’individuazione dei parametri integrativi, perché, pur essendo necessario compiere opzioni di valore su regole o criteri etici o di costume o propri di discipline e/o di ambiti anche extragiuridici, “tali regole sono tuttavia recepite dalle norme giuridiche che, utilizzando concetti indeterminati, fanno appunto ad esse riferimento” (per tutte v. Cass. n. 434 del 1999), traducendosi in un’attività di interpretazione giuridica e non meramente fattuale della norma stessa (cfr. Cass. n. 5026 del 2004; Cass. n. 10058 del 2005; Cass. n. 8017 del 2006). E’ stato tuttavia evidenziato che l’attività di integrazione del precetto normativo di cui all’art. 2119 c.c. compiuta dal giudice di merito è sindacabile in cessazione a condizione, però, che la contestazione del giudizio valutativo operato in sede di merito non si limiti ad una censura generica e meramente contrappositiva, ma contenga, invece, una specifica denuncia di non coerenza del predetto giudizio rispetto agli standards, conformi ai valori dell’ordinamento, esistenti nella realtà sociale (cfr. Cass. n. 985 del 2017; Cass. n. 5095 del 2011; Cass. n. 9266 del 2005). Sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice del merito, opera l’accertamento della concreta ricorrenza, nella fattispecie dedotta in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e sue specificazioni e della loro attitudine a costituire giusta causa di licenziamento. Quindi occorre distinguere: è solo l’integrazione a livello generale e astratto della clausola generale che si colloca sul piano normativo e consente una censura per violazione di legge; mentre l’applicazione in concreto del più specifico canone integrativo, così ricostruito, rientra nella valutazione di fatto devoluta al giudice del merito, “ossia il fattuale riconoscimento della riconducibilità del caso concreto nella fattispecie generale e astratta” (in termini ancora Cass. n. 18247/2009 e n. 7838/2005 citate). Si chiarisce che “spettano inevitabilmente al giudice di merito le connotazioni valutative dei fatti accertati nella loro materialità, nella misura necessaria ai fini della loro riconducibilità – in termini positivi o negativi – all’ipotesi normativa” (testualmente in motivazione Cass. n. 15661 del 2001, con la copiosa giurisprudenza ivi citata). Siffatta distinzione operante per le clausole generali condiziona la verifica dell’errore di sussunzione del fatto nell’ipotesi normativa, ascrivibile, per risalente tradizione giurisprudenziale (v. in proposito Cass. SS.UU. n. 5 del 2001), al vizio di cui al n. 3 dell’art. 360, comma 1, c.p.c. (di recente v. Cass. n. 13747 del 2018). La condiziona sotto un duplice profilo, già evidenziato da questa Corte. Innanzitutto, è indispensabile, così come in ogni altro caso di dedotta falsa applicazione di legge, che si parta dalla ricostruzione della fattispecie concreta così come effettuata dai giudici di merito (tra molte, Cass. n. 6035 del 2018); altrimenti si trasmoderebbe nella revisione dell’accertamento di fatto di competenza di detti giudici. Poiché poi gli elementi da valutare ai fini dell’integrazione della giusta causa di recesso sono, per consolidata giurisprudenza, molteplici (gravità dei fatti addebitati, portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, circostanze in cui sono state commessi, intensità dell’elemento intenzionale, etc.) occorre guardare, nel sindacato di legittimità, alla rilevanza dei singoli parametri ed al peso specifico attribuito a ciascuno di essi dal giudice del merito, onde verificarne il giudizio complessivo che ne è scaturito dalla loro combinazione e saggiarne la coerenza e la ragionevolezza della sussunzione nell’ambito della clausola generale. Trattandosi di una decisione che è il frutto di selezione e valutazione di una pluralità di elementi la parte ricorrente, per ottenere la cassazione della sentenza impugnata sotto il profilo del vizio di sussunzione, non può limitarsi ad invocare una diversa combinazione dei parametri ovvero un diverso peso specifico di ciascuno di essi, ma deve piuttosto denunciare che la combinazione e il peso dei dati fattuali, così come definito dal giudice del merito, non consente comunque la riconduzione alla nozione legale di giusta causa di licenziamento (cfr. Cass. n. 18715/2016 cit.). In secondo luogo, come insegnano le pronunce delle Sezioni unite di questa Corte formatesi in tema di sindacato di legittimità nell’individuazione di condotte costituenti illecito disciplinare di esercenti talune professioni – illecito definito mediante clausole generali o, comunque, concetti giuridici indeterminati – “il compito del controllo di legittimità può essere soltanto quello di verificare la ragionevolezza della sussunzione del fatto” (in termini, Cass. SS.UU. n. 23287 del 2010; analogamente, in tema di procedimento disciplinare degli avvocati, Cass. SS.UU. n. 1414 del 2004, n. 20024 del 2004, n. 19075 del 2012; per i notai: Cass. SS.UU. n. 4720 del 2012, n. 6967 del 2017; per i magistrati v. Cass. SS.UU. n. 5/2001 cit., secondo cui il sindacato di legittimità “deve essere circoscritto alla sola ipotesi che dal giudice del merito vengano enunciate valutazioni giuridiche, le quali, oltre ad essere palesemente erronee, travalichino anche il caso concreto”). I richiamati precedenti chiariscono che il sindacato di legittimità “sull’applicazione di un concetto giuridico indeterminato deve essere rispettoso dei limiti che il legislatore gli ha posto, utilizzando una simile tecnica di formulazione normativa, che attribuisce al giudice del merito uno spazio di libera valutazione e apprezzamento”; la Corte non può, pertanto, “sostituirsi al giudice del merito nell’attività di riempimento dei concetti giuridici indeterminati … se non nei limiti di una valutazione di ragionevolezza”; “il sindacato sulla ragionevolezza è quindi non relativo alla motivazione del fatto storico, ma alla sussunzione dell’ipotesi specifica nella norma generale, quale sua concretizzazione” (così Cass. SS.UU. n. 23287 del 2010).

2.2. Tanto metodologicamente premesso in diritto, parte ricorrente innanzitutto non identifica quali siano i parametri integrativi del precetto normativo elastico che sarebbero stati violati dai giudici del merito, per cui la denuncia, mancando l’individuazione di una incoerenza del loro giudizio rispetto agli standards, conformi ai valori dell’ordinamento, esistenti nella realtà sociale, si traduce in una censura generica e meramente contrappositiva rispetto al giudizio valutativo operato in sede di merito. In definitiva chi ricorre ribadisce che secondo il suo giudizio – che è solo quello personale della parte che vi ha interesse – il fatto addebitato costituirebbe giusta causa di licenziamento, anche alla stregua della contrattazione collettiva, criticando l’apprezzamento diverso, appunto nel merito, dei giudici ai quali compete per cui, anche per questo profilo, la sentenza impugnata non risulta efficacemente censurata. Inoltre, la società muove impropriamente dall’assunto che la Corte territoriale avrebbe trascurato fatti decisivi (il reclamo sporto da un cliente, il rapporto gerarchico con i colleghi del P.) in una ipotesi in cui tale pretesa omissione non può essere fatta valere, per cui, cristallizzato il fatto così come ricostruito dai giudici del merito, ogni residua censura, nella sostanza, mira a contestare l’apprezzamento della gravità della condotta tenuta in concreto dal lavoratore, sollecitando tuttavia un sindacato che esorbita dai poteri del giudice di legittimità perché, per quanto innanzi detto, spettano inevitabilmente al giudice di merito le connotazioni valutative dei fatti accertati nella loro materialità, nella misura necessaria ai fini della loro riconducibilità – in termini positivi o negativi – all’ipotesi normativa.

3. Respinti i primi due motivi di impugnazione, non può trovare accoglimento neanche il terzo, con cui parte ricorrente denuncia la violazione o la falsa applicazione dell’art. 225 CCNL, degli artt. 1362 e 1363 c.c. e degli artt. 1 e 3 l. n. 604 del 1966, per avere la Corte territoriale omesso ogni valutazione in ordine alla riconduzione di quanto accertato a carico del P. alla fattispecie del giustificato motivo soggettivo di recesso. Invero, una volta ritenuto come il primo giudice che le mancanze addebitate al P. avessero carattere “lieve”, punibili con una sanzione conservativa, ha implicitamente, ma inequivocabilmente, escluso la ricorrenza di una ipotesi che meritasse la sanzione espulsiva, anche con preavviso. Vale, infatti, il risalente principio generale secondo cui laddove la previsione negoziale ricolleghi ad un determinato comportamento giuridicamente rilevante solamente una sanzione conservativa, il giudice è vincolato dal contratto collettivo, trattandosi di una condizione di maggior favore fatta espressamente salva dal legislatore (art. 12 l. n. 604 del 1966) e non può estendere il catalogo delle giuste cause o dei giustificati motivi di licenziamento oltre quanto stabilito dall’autonomia delle parti (cfr., in particolare, Cass. n. 15058 del 2015; Cass. n. 4546 del 2013; Cass. n. 13353 del 2011; Cass. n. 1173 del 1996; Cass. n. 19053 del 1995).

4. Il quarto motivo denuncia la violazione e/o la falsa applicazione dell’art. 18, commi 4 e 5, l. n. 300 del 1970, per avere i giudici del merito applicato al licenziamento ritenuto illegittimo la tutela reintegratoria in luogo di quella indennitaria. Si sostiene che il legislatore che ha novellato l’art. 18 S.d.L., prevedendo la reintegrazione, oltre che nei casi di insussistenza del fatto, anche quando esso rientra tra “le condotte punibili con una sanzione conservativa sulla base delle previsioni dei contratti collettivi o codici disciplinari” avrebbe inteso riferirsi “alle previsioni specifiche del CCNL (o codice disciplinare), ovvero quelle che contengono la descrizione del comportamento vietato. Solo in questo caso, infatti, è possibile identificare la precisa volontà dei contratti collettivi di assegnare per quel determinato comportamento una precisa sanzione conservativa, così di fatto sottraendo il medesimo da una eventuale valutazione di maggiore gravità ad opera del giudice”. Non sarebbe, quindi, “possibile ricondurre all’interno delle suddette previsioni cui si riferisce l’art. 18, comma 4, seconda parte, quelle definizioni generali e/o clausole aperte, quale quella in esame, di <mancanze lievi>. In questi casi, infatti, manca una condotta individuata per cui, opinando come ha fatto la Corte di Appello, di fatto, tutte le volte che si ritiene la condotta accertata non proporzionata per il licenziamento intimato, si ricade in tali ipotesi generali, con conseguente universale condanna alla reintegrazione”. Il motivo è infondato sulla scorta del principio di diritto affermato da questa Corte (Cass. n. 11665 del 2022), qui ribadito: “In tema di licenziamento disciplinare, al fine di selezionare la tutela applicabile tra quelle previste dall’art. 18 commi 4 e 5 della legge n. 300 del 20 maggio 1970, come novellata dalla legge n. 92 del 28 giugno 2012, è consentita al giudice la sussunzione della condotta addebitata al lavoratore ed in concreto accertata giudizialmente nella previsione contrattuale che punisca l’illecito con sanzione conservativa anche laddove sia espressa attraverso clausole generali o elastiche. Tale operazione di interpretazione e sussunzione non trasmoda nel giudizio di proporzionalità della sanzione rispetto al fatto contestato, restando tale operazione di interpretazione nei limiti dell’attuazione del principio di proporzionalità come già eseguito dalle parti sociali attraverso la previsione del contratto collettivo“. Si è argomentato che anche laddove la fattispecie punita con una sanzione conservativa sia delineata dalla norma collettiva mediante una clausola generale o elastica, “graduando la condotta con riguardo ad una sua particolare gravità ed utilizzando nella descrizione della fattispecie espressioni che necessitano di essere riempite di contenuto”, sicuramente “rientra nel compito del giudice riempire di contenuto la clausola utilizzando standard conformi ai valori dell’ordinamento ed esistenti nella realtà sociale in modo tale da poterne definire i contorni di maggiore o minore gravità”, perché “all’interprete è demandato di interpretare la fonte negoziale e verificare la sussumibilità del fatto contestato nella previsione collettiva anche attraverso una valutazione di maggiore o minore gravità della condotta”. Si è affermato, inoltre, che “la tecnica dell’individuazione di fattispecie generali poi specificate in via esemplificativa attraverso l’individuazione di casi esplicativi, o ancora la catalogazione di una serie di condotte tipizzate accompagnata da una previsione più generale e di chiusura, non preclude al giudice di svolgere quell’attività di interpretazione integrativa del precetto normativo”, atteso che “l’utilizzazione nei contratti collettivi di norme elastiche o di previsioni di chiusura è connessa all’impossibilità pratica di tipizzare tutte le condotte di rilievo disciplinare oltre che all’indeterminatezza degli obblighi che fanno capo al lavoratore”. Pertanto, la sentenza impugnata è conforme al principio di diritto innanzi enunciato e non merita le censure che le sono mosse con il motivo in esame.

5. Conclusivamente il ricorso deve essere respinto e le spese seguono la soccombenza liquidate come da dispositivo, con attribuzione all’Avv. L. che ha dichiarato di averle anticipate. Ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge n. 228 del 2012, occorre dare atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello, ove dovuto, per il ricorso, a norma del comma 1-bis dello stesso art. 13 (cfr. Cass. SS.UU. n. 4315 del 2020);

P.Q.M.

riconvocatasi nella medesima composizione in data 30 marzo 2022, rigetta il ricorso e condanna parte ricorrente al pagamento delle spese liquidate in euro 5.000,00, oltre euro 200,00 per esborsi, rimborso spese generali al 15% e accessori secondo legge, con attribuzione. Ai sensi dell’art. 13, co. 1 quater, d.P.R. n. 115 del 2002 dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma del comma 1 bis dello stesso art. 13, se dovuto.