CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 26 aprile 2022, n. 13066

Pubblico impiego – Dirigente farmacista – Contratto a termine – Abusiva reiterazione – Risarcimento del danno – Quantificazione

Fatti di causa

1. La Corte d’Appello di Firenze, adita dall’Azienda Unità Sanitaria Locale n. 9 di Grosseto, ha accolto il solo motivo di appello inerente la quantificazione del risarcimento del danno, limitato a quindici mensilità in luogo delle venti liquidate dal Tribunale di Grosseto, ed ha confermato per il resto la sentenza impugnata, che aveva ritenuto abusiva la reiterazione del contratto a termine stipulato ai sensi dell’art. 15-septies, comma 2, del d.lgs. n. 502/1992 con la dott. A.R., la quale dal 30 luglio 2002 al 31 luglio 2012, aveva ricoperto l’incarico di dirigente farmacista, conferito inizialmente per un biennio e poi prorogato.

2. La Corte territoriale ha ritenuto, in sintesi, applicabile anche ai contratti stipulati sulla base della norma speciale sia la disciplina dettata dall’art. 36 del d.lgs. n. 165/2001 sia quella, all’epoca vigente, prevista dal d.lgs. n. 368/2001 per i rapporti a tempo determinato, ed ha precisato che l’appellante non poteva fare leva sull’art. 4, comma 5, del d.l. n. 158/2012, che aveva introdotto il comma 4 ter dell’art. 10 del d.lgs. n. 368/2001, poiché la norma era destinata ad operare per il futuro ed alla stessa non poteva essere conferita efficacia retroattiva.

3. Il giudice d’appello ha richiamato la giurisprudenza della Corte di Giustizia per sostenere che, in tutti i settori, la pubblica amministrazione non può ricorrere al rapporto a tempo determinato per soddisfare esigenze permanenti e, pertanto, la reiterazione assume carattere abusivo, che non può essere escluso né facendo leva sulla natura degli interessi pubblici da soddisfare né sulla necessità di espletare una procedura concorsuale, quando i tempi per la conclusione di quest’ultima non siano contenuti e certi.

4. Esclusa la possibilità di conversione del rapporto, la Corte territoriale ha ritenuto che il rispetto della direttiva 1999/70/CE imponesse di riconoscere il diritto al risarcimento del danno ed ha ravvisato nell’indennità prevista dall’art. 18, comma 3, della legge n. 300/1970, una sanzione adeguata per reprimere e prevenire l’abuso.

5. Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso l’Azienda USL Toscana SUDEST, succeduta all’Azienda USL n. 9 di Grosseto, sulla base di quattro motivi, illustrati da memoria, ai quali ha opposto difese A.R., con tempestivo controricorso.

6. La causa, dapprima avviata alla trattazione camerale, è stata poi fissata in pubblica udienza in ragione dell’importanza delle questioni giuridiche coinvolte.

La Procura Generale ha concluso ex art. 23, comma 8 bis del d.l. n. 137/2020, convertito in legge n. 176/2020, per l’accoglimento del quarto motivo di ricorso e per il rigetto delle ulteriori censure.

Ragioni della decisione

1. Con il primo motivo la ricorrente denuncia «violazione di legge per falsa o omessa applicazione della direttiva 1999/70/CE relativa all’accordo quadro CES, UNICE, e CEEP sul lavoro a tempo determinato concluso il 18.3.1999 – Punti 2 e 3 Preambolo, 17^ Considerando, clausola 2» e sostiene che spetta agli Stati membri definire quali contratti e rapporti debbano rientrare nell’ambito di applicazione dell’Accordo quadro, seppure tenendo conto della definizione ampia di lavoratore fornita dalla direttiva e senza che possa assumere specifico rilievo la natura pubblica o privata del datore di lavoro. Censura, pertanto, il capo della sentenza impugnata che ha ritenuto applicabile la direttiva a tutti i settori dell’impiego pubblico, senza esclusione alcuna.

2. La seconda censura addebita alla sentenza impugnata la violazione del principio di specialità, l’errata interpretazione dell’art. 15-septies d.lgs. n. 502/1992, dell’art. 15, comma 2, d.lgs. n. 502/1992, dell’art. 13 d.lgs. n. 165/2001, nonché il difetto di motivazione perché la normativa speciale applicabile alla fattispecie è chiara nell’indicare i requisiti che devono ricorrere affinché le aziende possano conferire incarichi dirigenziali a tempo determinato ed è altrettanto chiara nel prevedere la possibilità del rinnovo degli incarichi. Si tratta, dunque, di una disciplina non suscettibile di integrazione con le regole imposte dal d.lgs. n. 368/2001 e, pertanto, anche l’eventuale contrasto con la direttiva, da escludere per le ragioni indicate nel primo motivo, potrebbe, al più, legittimare un incidente di costituzionalità, ma non giustificare la disapplicazione della norma di diritto interno.

3. Con il terzo motivo è denunciata la violazione e falsa applicazione dell’art. 4, comma 5, del d.l. n. 158/2012, convertito in legge n. 189/2012, e dell’art. 4, comma 1, lett. b) del d.l. n. 101/2013 convertito in legge n. 101/2013. Ribadita la specialità della normativa speciale, la ricorrente assume che ha errato la Corte territoriale nell’affermare che avesse valore di norma di interpretazione autentica il comma 5 ter del d.lgs. n. 165/2001, introdotto con il d.l. n. 101/2013, e dovesse invece valere solo per il futuro l’esclusione del settore sanitario dall’applicazione del d.lgs. n. 368/2001.

4. Infine con la quarta censura l’azienda sanitaria si duole della violazione e falsa applicazione dell’art. 18 della legge n. 300/1970 e dell’art. 32 della legge n. 183/2010 e, richiamato il principio enunciato dalle Sezioni Unite di questa Corte, evidenzia che ha comunque errato la Corte territoriale nel liquidare, a titolo di risarcimento del danno, l’indennità sostitutiva della reintegrazione, applicabile nella sola ipotesi di licenziamento illegittimo, anziché quella onnicomprensiva prevista in caso di accertata illegittimità del rapporto a termine.

5. L’ordine logico delle questioni poste dal ricorso impone di esaminare innanzitutto il secondo ed il terzo motivo che addebitano, in sintesi, alla Corte territoriale di avere erroneamente ritenuto l’abusività della reiterazione valorizzando la normativa di carattere generale dettata dall’art. 36 del d.lgs. n. 165/2001 e dal d.lgs. n. 368/2001, al quale il primo rinvia, in realtà inapplicabile in ragione della specialità del rapporto che qui viene in rilievo.

I motivi, seppure esatti quanto alla specialità della normativa, non possono trovare accoglimento per le ragioni di seguito esposte.

L’art. 15-septies del d.lgs n. 502/1992, nel testo applicabile alla fattispecie ratione temporis (antecedente alle modifiche apportate dal d.l. 13 settembre 2012 n. 158) dispone che 1. I direttori generali possono conferire incarichi per l’espletamento di funzioni di particolare rilevanza e di interesse strategico mediante la stipula di contratti a tempo determinato e con rapporto di lavoro esclusivo, entro il limite del due per cento della dotazione organica della dirigenza, a laureati di particolare e comprovata qualificazione professionale che abbiano svolto attività in organismi ed enti pubblici o privati o aziende pubbliche o private con esperienza acquisita per almeno un quinquennio in funzioni dirigenziali apicali o che abbiano conseguito una particolare specializzazione professionale, culturale e scientifica desumibile dalla formazione universitaria e post-universitaria, da pubblicazioni scientifiche o da concrete esperienze di lavoro e che non godano del trattamento di quiescenza. I contratti hanno durata non inferiore a due anni e non superiore a cinque anni, con facoltà di rinnovo.

2. Le aziende unità sanitarie e le aziende ospedaliere possono stipulare, oltre a quelli previsti dal comma precedente, contratti a tempo determinato, in numero non superiore al cinque per cento della dotazione organica della dirigenza sanitaria, ad esclusione della dirigenza medica, nonché della dirigenza professionale, tecnica ed amministrativa, per l’attribuzione di incarichi di natura dirigenziale, relativi a profili diversi da quello medico, ad esperti di provata competenza che non godano del trattamento di quiescenza e che siano in possesso del diploma di laurea e di specifici requisiti coerenti con le esigenze che determinano il conferimento dell’incarico.

3. Il trattamento economico è determinato sulla base dei criteri stabiliti nei contratti collettivi della dirigenza del Servizio sanitario nazionale.

Questa Corte ha già avuto modo di interpretare, sia pure ad altri fini, la disposizione in commento ed ha evidenziato che il legislatore ha previsto una particolare forma di reclutamento di dirigenti a tempo determinato che deroga, in presenza delle specifiche condizioni richieste, alla regola generale del necessario espletamento del concorso pubblico per l’instaurazione del rapporto di impiego. Si è precisato che il rapporto che si instaura ex art. 15-septies del d.lgs. n. 502/1992 fra il dirigente e l’Azienda del Servizio Sanitario Nazionale è un rapporto di lavoro subordinato dirigenziale a tutti gli effetti (e non un rapporto regolato dall’art. 2222 cod. civ.) ma, proprio in ragione delle particolari modalità di reclutamento, allo stesso si può fare ricorso solo in presenza di esigenze funzionali di carattere non ordinario, nei limiti massimi stabiliti dal legislatore e nel rispetto della necessaria temporaneità (Cass. n. 11008/2020 e Cass. n. 4177/2021).

Si tratta, dunque, di un rapporto a tempo determinato connotato da specialità rispetto alla disciplina dettata in via generale per il rapporto a termine e di questa specialità hanno tenuto conto anche le parti collettive che, nel prevedere i casi nei quali le Aziende possono fare ricorso al contratto a tempo determinato, hanno distinto la particolare tipologia contrattuale da quella disciplinata dall’art. 36 del d.lgs. n. 165/2001 e dalle leggi vigenti ratione temporis alle quali il richiamato art. 36 rinvia (cfr. art. 63 del CCNL 8.6.2000 che ha integrato l’art. 16 del CCNL 5.12.1996, come sostituito dall’art. 1 del CCNL 5.8.1997; art. 108 del CCNL 19.12.2019).

La disposizione in commento, infatti, detta una disciplina in sé compiuta, che fissa le condizioni per il ricorso alla tipologia contrattuale, i necessari requisiti soggettivi richiesti ai fini dell’assunzione, la durata minima e massima del rapporto, la facoltà di rinnovo, i limiti percentuali rispetto all’organico dell’azienda, sicché la stessa non si presta ad essere integrata con la normativa generale prevista per le assunzioni a termine, sulla quale prevale in ragione del carattere di specialità.

6. Peraltro la ritenuta specialità dell’art. 15-septies non è sufficiente a far escludere il carattere abusivo della reiterazione, accertato dalla Corte territoriale, giacché occorre valutare se l’Azienda si sia avvalsa dello strumento contrattuale nel rispetto dei limiti stabiliti.

L’interpretazione da dare alla disposizione in rilievo è condizionata dall’esito dell’esame della prima censura, con la quale l’Azienda ricorrente ripropone la tesi, non condivisa dalla Corte territoriale, dell’inapplicabilità alla fattispecie della direttiva 1999/70/CE e dell’Accordo Quadro alla stessa allegato.

Il motivo è infondato.

La clausola 2 dell’Accordo Quadro sul lavoro a tempo determinato prevede che «Il presente accordo si applica ai lavoratori a tempo determinato con un contratto di assunzione o un rapporto di lavoro disciplinato dalla legge, dai contratti collettivi o dalla prassi in vigore di ciascuno Stato membro. 2. Gli Stati membri, previa consultazione delle parti sociali e/o le parti sociali stesse possono decidere che il presente accordo non si applichi ai: a) rapporti di formazione professionale iniziale e di apprendistato; b) contratti e rapporti di lavoro definiti nel quadro di un programma specifico di formazione, inserimento e riqualificazione professionale pubblico o che usufruisca di contributi pubblici».

La Corte di Giustizia è più volte intervenuta ad interpretare la clausola in parola e, anche con la recente sentenza 16 luglio 2020, in causa C- 658/18, ha ribadito che «l’accordo quadro si applica all’insieme dei lavoratori che forniscono prestazioni retribuite nell’ambito di un rapporto di lavoro a tempo determinato che li lega al loro datore di lavoro, purché questi siano vincolati da un contratto o da un rapporto di lavoro ai sensi del diritto nazionale, e fatta salva soltanto la discrezionalità conferita agli Stati membri dalla clausola 2, punto 2, dell’accordo quadro per quanto attiene all’applicazione di quest’ultimo a talune categorie di contratti o di rapporti di lavoro nonché l’esclusione, conformemente al quarto comma del preambolo dell’accordo quadro, dei lavoratori interinali» ( punto 116 che richiama il punto 109 della sentenza 19 marzo 2020, Sánchez Ruiz e a., C-103/18 e C-429/18).

La Corte ha precisato che, sebbene spetti agli Stati membri il compito di definire i termini «contratto di assunzione» e «rapporto di lavoro», tuttavia il potere discrezionale concesso agli ordinamenti nazionali non può essere esercitato per escludere talune categorie di persone dalle tutele assicurate dall’Accordo quadro. Ne ha tratto la conseguenza che la riserva trova un limite nella necessità di rispettare l’effetto utile voluto dalla direttiva nonché i principi generali del diritto dell’Unione e ne ha desunto l’inapplicabilità dell’Accordo nella sola ipotesi in cui la qualificazione non sia arbitraria, in ragione della natura del rapporto in discussione «sostanzialmente diversa da quella che lega ai loro datori di lavoro i dipendenti che, secondo il diritto nazionale, rientrano nella categoria dei lavoratori» (punto 48 della sentenza 1º marzo 2012, O’Brien, C-393/10 richiamata al punto 118 della decisione).

L’interpretazione delle norme eurounitarie è riservata alla Corte di Giustizia, le cui pronunce hanno carattere vincolante per il giudice nazionale, che può e deve applicarle anche ai rapporti giuridici sorti e costituiti prima della sentenza interpretativa. A tali decisioni, infatti, va attribuito il valore di ulteriore fonte del diritto dell’Unione Europea, non nel senso che esse creino ex novo norme comunitarie, bensì in quanto ne indicano il significato ed i limiti di applicazione, con efficacia erga omnes nell’ambito dell’Unione (cfr. fra le tante Cass. n. 2468/2016 e Cass. n. 22558/2016).

Dai principi sopra richiamati discende che il rapporto dirigenziale, di natura subordinata secondo il diritto nazionale, rientra a pieno titolo nell’ambito di applicazione della direttiva 1999/70/CE, perché lo stesso non può essere ricondotto a nessuna delle ipotesi di esclusione previste dal comma 2. Ed infatti di detta applicabilità questa Corte non ha mai dubitato allorquando è stata chiamata ad applicare la clausola 4 dell’Accordo quadro ai rapporti dirigenziali a termine instaurati dalle amministrazioni pubbliche (cfr. Cass. n. 7440/2018 sull’applicazione della clausola 4 ai dirigenti sanitari assunti a tempo determinato; Cass. n. 5516/2015 e Cass. n. 20460/2018 sui dirigenti assunti a termine dagli enti locali ai sensi dell’art. 110 TUEL).

Anche Cass. n.17010/2017, invocata dall’Azienda ricorrente, non ha affermato che il dirigente è escluso dalle tutele assicurate dalla direttiva, bensì quell’applicabilità ha presupposto nel rilevare che le peculiari caratteristiche del rapporto dirigenziale, nell’ambito del lavoro privato, integrano, ai sensi della clausola 5, comma 1, lett. a), una ragione obiettiva idonea a giustificare il rinnovo del contratto a tempo determinato e ad escludere il carattere abusivo della reiterazione.

7. Dalla ritenuta applicabilità dell’Accordo quadro, discende che dell’art. 15-septies d.lgs. n. 502/1992 deve essere data un’interpretazione che sia orientata al rispetto dei principi affermati dal giudice eurounitario sul tema della prevenzione degli abusi. In ambito sanitario la Corte di Giustizia ha tenuto a precisare che l’obbligo di organizzare il servizio in modo da assicurare un costante adeguamento tra l’organico del personale ed il numero degli assistiti può costituire una ragione oggettiva che giustifica il ricorso ad una successione di contratti a tempo determinato (punto 74 della sentenza 19.3.2020 in cause riunite C- 103/18 e C- 429/18), ma a condizione che il rinnovo non sia finalizzato alla «realizzazione, in modo permanente e duraturo, di compiti nel servizio sanitario che appartengono alla normale attività del servizio ospedaliero ordinario» (punto 75 che richiama Corte UE 14 settembre 2016, Pérez López, C-16/15, punto 47). Ne ha tratto la conseguenza che l’osservanza della clausola 5, punto 1, lettera a), esige «che sia verificato concretamente che il rinnovo di contratti o rapporti di lavoro a tempo determinato successivi miri a soddisfare esigenze provvisorie, e che una disposizione nazionale quale quella in causa nel procedimento principale non sia utilizzata, di fatto, per soddisfare esigenze permanenti e durevoli del datore di lavoro in materia di personale (sentenza del 14 settembre 2016, Pérez López, C-16/15, EU:C:2016:679, punto 49 e giurisprudenza ivi citata)» ( punto 77).

Principi non dissimili sono stati enunciati dalla Corte in relazione ai contratti a termine stipulati, in ambito universitario, con «specialisti di affermata competenza», ed anche in quel caso si è ritenuto che, seppure la particolare specializzazione può integrare una ragione oggettiva apprezzabile ai fini previsti dalla clausola 5, comma 1, lett. a), tuttavia anche in tal caso occorre che il rinnovo sia finalizzato ad assicurare esigenze di carattere provvisorio, non già permanente e durevole (Corte di Giustizia 13.3.2014, in causa C – 190/13 punto 55).

7.1. L’interpretazione dell’art. 15-septies del d.lgs. n. 502/1992 va, quindi, condotta tenendo conto della necessità di pervenire ad un risultato esegetico che non determini un contrasto della norma con la clausola 5 dell’Accordo quadro, atteso che, come più volte ricordato dal giudice eurounitario, il diritto interno deve essere interpretato «per quanto possibile alla luce del testo e dello scopo della direttiva in questione, onde conseguire il risultato perseguito da quest’ultima e conformarsi pertanto all’articolo 288, terzo comma, TFUE», obbligo, questo, che si arresta solo qualora la conformazione comporterebbe la violazione di principi generali del diritto, quali sono quelli della certezza e della non retroattività, o richiederebbe un’interpretazione contra legem del diritto nazionale ( Corte di Giustizia 19.3.2020, in cause riunite C- 103/18 e C- 429/18, punti da 121 a 124).

D’altro canto l’esigenza di fornire della norma in rilievo un’interpretazione che, pur nella doverosa attinenza al testo letterale, rispecchi il carattere eccezionale dello strumento contrattuale deriva anche dalla necessità di rispettare il principio costituzionale dell’accesso all’impiego, anche temporaneo, solo a seguito di concorso pubblico, perché l’art. 97 Cost., ultimo comma, consente la deroga solo in presenza di peculiari e straordinarie esigenze di interesse pubblico (cfr. fra le tante Corte Cost. n. 293/2009).

7.2. Ritiene, pertanto, il Collegio che i contratti previsti dai commi 1 e 2 della norma in commento, che derogano anche al principio di esclusività (perché agli stessi si può fare ricorso per assumere dipendenti di altra amministrazione che vengono collocati in aspettativa), non possono avere come causale la sola necessità di assicurare il servizio sanitario (esigenza che viene soddisfatta o con il contratto a termine “ordinario” nei limiti previsti dalla legge e dalla contrattazione collettiva o ricorrendo alle sostituzioni previste dai CCNL 8.6.2000 per le distinte aree della dirigenza medica e della dirigenza sanitaria), ma devono essere giustificati dalla contestuale ricorrenza di un requisito oggettivo, che è quello inerente alla particolare rilevanza della funzione (comma 1) o alla specificità dell’esigenza (comma 2), e di uno soggettivo, ossia l’acquisizione di una professionalità altamente specializzata, il che implica titoli che vadano oltre quelli normalmente richiesti per l’accesso alla dirigenza.

È, poi, necessario che il rapporto sia connotato da temporaneità e non venga utilizzato per soddisfare un’esigenza permanente dell’amministrazione pubblica, temporaneità che, per definizione, sarebbe esclusa se si aderisse alla tesi sostenuta dalla ricorrente della possibilità anche di più rinnovi, purché contenuti nel limite massimo decennale.

Ne discende che, al fine di conformare il diritto interno a quello dell’Unione, la disposizione, nella parte in cui, fissati limiti minimi e massimi di durata, consente la facoltà di rinnovo, deve essere interpretata nel senso che detta facoltà può essere esercitata solo a condizione che persistano le esigenze temporanee e, quindi, che venga rispettato il limite massimo fissato, il cui superamento sarebbe in sé sintomatico dell’assenza di temporaneità. In altri termini il rinnovo è sì, consentito, ma solo qualora il contratto originario abbia una durata inferiore a quella massima prevista ed il rinnovo interessi il solo periodo residuo.

7.3. Si tratta di un’interpretazione consentita dal tenore letterale della norma ed imposta dal diritto dell’Unione, come interpretato dalla Corte di Giustizia, che non contrasta con il principio affermato da questa Corte con la sentenza n. 7010/2017, perché in quel caso veniva in rilievo il rapporto dirigenziale che si instaura con il datore di lavoro privato, rapporto che risponde a principi diversi rispetto a quelli che ispirano la disciplina della dirigenza pubblica.

Da tempo questa Corte ha posto in evidenza che nell’impiego pubblico contrattualizzato esiste una scissione, ignota al diritto privato, fra l’acquisto della qualifica di dirigente ed il successivo conferimento delle funzioni dirigenziali (Cass.n.2233/2007). All’esito del superamento della procedura concorsuale si costituisce il rapporto fondamentale, che è a tempo indeterminato, e sullo stesso si innesta, poi, l’incarico temporaneo in quanto, a seguito della contrattualizzazione, «la qualifica dirigenziale non esprime una posizione lavorativa inserita nell’ambito di una carriera e caratterizzata dallo svolgimento di determinate mansioni, bensì esclusivamente l’idoneità professionale del dipendente (che tale qualifica ha acquisito mediante contratto di lavoro stipulato all’esito della procedura concorsuale) a svolgerle concretamente per effetto del conferimento, a termine, di un incarico dirigenziale» ( Cass. n. 8674/2018).

Nella dirigenza pubblica, pertanto, la «fiducia» valorizzata da Cass. n. 17010/2017, giustifica la temporaneità dell’incarico che, però, si innesta su un rapporto a tempo indeterminato, rapporto che, in ossequio ai principi sanciti dalla direttiva 1999/70/CE, rimane la forma comune anche per il lavoro dirigenziale.

7.4. Risulta dalla sentenza impugnata e non è contestato dalle parti che l’incarico biennale conferito alla R. dall’Azienda Sanitaria è stato prorogato «per ben cinque volte fino a coprire l’arco temporale di un decennio, sempre per le stesse mansioni e presso la medesima struttura», sicché la pronuncia gravata, che ha accertato il carattere abusivo della reiterazione, anche in ragione del carattere non temporaneo delle esigenze assicurate dal rapporto a tempo determinato, va confermata con parziale correzione della motivazione ex art.384 comma 4 cod. proc. civ..

8. È, invece, fondato il quarto motivo di ricorso.

La sentenza impugnata contrasta con il principio di diritto affermato dalle Sezioni Unite, ed ormai consolidato nella giurisprudenza di questa Corte, alla stregua del quale « in materia di pubblico impiego privatizzato, nell’ipotesi di abusiva reiterazione di contratti a termine, la misura risarcitoria prevista dall’art. 36, comma 5, del d.lgs. n. 165 del 2001, va interpretata in conformità al canone di effettività della tutela affermato dalla Corte di Giustizia UE (ordinanza 12 dicembre 2013, in C-50/13), sicché, mentre va escluso – siccome incongruo – il ricorso ai criteri previsti per il licenziamento illegittimo, può farsi riferimento alla fattispecie omogenea di cui all’art. 32, comma 5, della l. n. 183 del 2010, quale danno presunto, con valenza sanzionatoria e qualificabile come “danno comunitario”, determinato tra un minimo ed un massimo, salva la prova del maggior pregiudizio sofferto, senza che ne derivi una posizione di favore del lavoratore privato rispetto al dipendente pubblico, atteso che, per il primo, l’indennità forfetizzata limita il danno risarcibile, per il secondo, invece, agevola l’onere probatorio del danno subito.» ( Cass. S.U. n. 5072/2016).

9. In detti limiti il ricorso deve essere accolto, con rinvio alla Corte territoriale indicata in dispositivo che provvederà ad un nuovo esame attenendosi, quanto alla liquidazione del danno, al principio di diritto sopra richiamato e provvedendo anche sulle spese del giudizio di legittimità.

Non sussistono le condizioni processuali richieste dall’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115/2002, come modificato dalla L. 24.12.12 n. 228, per il raddoppio del contributo unificato.

P.Q.M.

Accoglie il quarto motivo di ricorso e rigetta gli altri motivi.

Cassa la sentenza impugnata in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte d’Appello di Firenze, in diversa composizione, alla quale demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.