CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 26 marzo 2019, n. 8387
Rapporto di lavoro subordinato – Dipendente di cooperativa – Diverbio con una collega – Sospensione dalla qualifica di socio
Fatti di causa
1. Il sig. A.L., sodo e dipendente dalla cooperativa L.S. s.c.p.a. con rapporto di lavoro subordinato, a seguito di diverbio con una collega, seguito da vie di fatto, venne sospeso dalla qualifica di socio, con raccomandata a mano del 28.6.2004. A quasi un anno di distanza il L. propose due ricorsi per decreto ingiuntivo per le retribuzioni relative ai mesi da luglio a dicembre 2004 e un successivo ricorso per la retribuzione fino al marzo 2005. Le opposizioni ai decreti ingiuntivi proposte dalla L.S. vennero respinte con sentenze nn. 771/05, 267/06 e 568/06 del Tribunale di Monza, determinando il passaggio in giudicato dei decreti ingiuntivi.
2. La società cooperativa L.S. allora adiva il Tribunale al fine di sentire dichiarare che il rapporto di lavoro con il L. era cessato dal 29 giugno 2004 per dimissioni di fatto, ovvero per grave inadempimento del dipendente. Il Tribunale di Monza respingeva la domanda (sentenza n. 466/2006) di mero accertamento proposta dalla cooperativa, rilevando come, nella lettera di sospensione cautelare dalla qualifica di socio, la stessa società avesse dichiarato che il provvedimento non aveva alcuna influenza sul rapporto di lavoro e che lo stesso regolamento della cooperativa teneva distinti i due rapporti. Riteneva quindi che la mancata assegnazione di lavoro da parte della cooperativa ovvero la implicita sospensione unilaterale della prestazione non fosse giustificata, da ciò derivando il diritto alla retribuzione; né il comportamento tenuto dal lavoratore poteva essere interpretato come dimissioni di fatto. La Corte di appello annullava tale sentenza, con decisione n. 399/2009, ritenendo che il rapporto si fosse risolto dal dicembre 2005, data del deposito del ricorso dalla Cooperativa nella Cancelleria del Tribunale del lavoro.
3. Il ricorso per cassazione proposto dal L. veniva accolto da questa Corte, con sentenza n. 20517 del 2015 per la contraddizione della motivazione sulla cui base la Corte di appello aveva ritenuto la sussistenza di una risoluzione del rapporto di lavoro per mutuo consenso (art. 1372 c.c.).
4. La Corte di appello di Milano, quale giudice di rinvio, con la sentenza n. 660 del 2017, ha confermato la sentenza di primo grado di rigetto della domanda di mero accertamento, sulla base – in sintesi – delle seguenti argomentazioni:
– dal momento della sospensione della qualifica di socio fino alla introduzione del giudizio di accertamento ad opera della cooperativa, nessun atto di licenziamento era stato adottato nei confronti del L., licenziato solo nel 2006, con atto risalente a un periodo successivo ai fatti di causa;
– il provvedimento del giugno 2004 riguardava solo la sospensione del rapporto societario e non di quello lavorativo, per cui, non solo il L. non si era reso in alcun modo inadempiente, ma le azioni intraprese nel 2004 per ottenere il pagamento delle retribuzioni rivelavano la sua volontà di considerare il rapporto di lavoro ancora valido ed esistente;
– esclusa la configurabilità di dimissioni di fatto, come pure di una concorde volontà delle parti di risolvere il rapporto per mutuo consenso, deve ritenersi la persistenza del rapporto di lavoro e l’infondatezza della domanda di accertamento proposta dalla soc. coop. L.S. a r.l.
5. Per la cassazione di tale sentenza ha proposto ricorso la cooperativa con due motivi, cui ha resistito il lavoratore con controricorso, seguito da memoria ex art. 378 c.p.c.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo si denuncia violazione art. 2533 c.c.. Si assume che l’esclusione del socio dalla cooperativa comporta l’estinzione del rapporto di lavoro.
2. Con il secondo motivo si denuncia omessa pronuncia su un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti (art. 360 n. 5 c.p.c.), in relazione alla circostanza che la cooperativa si era attivata il 5.12.2005 per chiedere giudizialmente l’accertamento della risoluzione del rapporto di lavoro.
3. Il primo motivo è inammissibile.
3.1. E’ questione del tutto nuova quella che introduce in giudizio il tema di una presunta esclusione del L. dalla compagine sociale, atteso che – come accertato in tutti i gradi di giudizio – l’unico provvedimento emesso nei suoi confronti e oggetto di causa è quello della sospensione del rapporto di socio. Nella sentenza impugnata non vi è cenno ad alcuna delibera di esclusione. Né parte ricorrente, che vi aveva l’onere, indica se ed eventualmente in quale sede del giudizio sarebbe stato introdotto e trattato tale diverso tema di indagine.
3.2. Ove la censura intenda alludere ad una erronea interpretazione del contenuto della delibera del 2004, la stessa sarebbe comunque inammissibile, in quanto parte ricorrente omette di indicare il contenuto del documento, in violazione degli oneri di cui all’art. 366 n. 6 cod. proc. civ.
Secondo giurisprudenza costante di questa Corte, il ricorrente che, in sede di legittimità, denunci l’omessa od inesatta valutazione di atti o documenti prodotti in giudizio, anche ove intenda far valere un vizio di violazione o falsa applicazione di norma di diritto, è onerato, a pena di inammissibilità del ricorso, non solo della specifica indicazione del documento e della chiara indicazione del nesso eziologico tra l’errore denunciato e la pronuncia emessa in concreto, ma anche della completa trascrizione dell’integrale contenuto degli atti e dei documenti così da rendere immediatamente apprezzabile dalla Suprema Corte il vizio dedotto (tra le più recenti, Cass. n. 14107 del 2017).
3.3. In ogni caso, poi, il ricorso non individua le regole di ermeneutica contrattuale che sarebbero state violate dalla Corte territoriale. Va ricordato che l’esegesi del contratto e dell’atto unilaterale è riservata al giudice del merito ed è censurabile in sede di legittimità per violazione delle norme di cui agli artt. 1362 e seguenti cod. civ.; inoltre, in tal caso, il ricorso non può limitarsi a prospettare un’interpretazione difforme rispetto a quella contenuta nella sentenza gravata, dovendo invece individuare le norme asseritamene violate e i principi in esse contenuti e precisare in quale modo e con quali considerazioni il giudice del merito si sia discostato dai canoni legali assunti come violati o se lo stesso li abbia applicati sulla base di argomentazioni illogiche od insufficienti, non essendo consentito il riesame del merito in sede di legittimità (Cass. n. 6641 del 2012, Cass. n. 14318 del 2013, Cass. n. 21888 del 2016).
4. Quanto al secondo motivo, va ribadito che l’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., riformulato dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, introduce nell’ordinamento un vizio specifico denunciabile per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, vale a dire che, se esaminato, avrebbe determinato un esito diverso della controversia (Cass. S.U. n. 8053 del 2014). Orbene, non è stato chiarito innanzitutto in quale senso la proposizione del ricorso introduttivo del dicembre 2005 avrebbe carattere di “decisività”.
4.1. Va poi considerato che la sentenza ha dato atto che nessun licenziamento era mai intervenuto nel periodo oggetto del giudizio di accertamento proposto dalla società e che il primo atto qualificabile come licenziamento risaliva al 2006 ed era quindi successivo all’introduzione del giudizio de quo. Ha pure accertato che non vi erano elementi per ritenere l’esistenza di dimissioni di fatto o la risoluzione del rapporto di lavoro per mutuo consenso; che il rapporto era dunque valido ed esistente, mentre la società si era limitata ad adottare una sospensione del rapporto mutualistico.
4.2. Il ricorso nel suo complesso non si confronta con tale iter motivazionale per cui difetta anche di specificità dal decisum (in violazione dell’art. 366 n. 4 c.p.c.), in quanto risulta del tutto avulso dalla ricostruzione interpretativa fornita dalla Corte territoriale.
5. In conclusione, il ricorso va dichiarato inammissibile, con condanna di parte ricorrente al pagamento delle spese del giudizio di legittimità liquidate come in dispositivo.
5.1. Poiché la parte controricorrente è stata ammessa al gratuito patrocinio (v. delibera in atti), la condanna al pagamento delle spese va effettuata in favore dello Stato. Difatti, il giudice del processo, quando, ai sensi dell’art. 133 d.p.r. 115/2002, condanna il soccombente alle spese processuali a favore della parte ammessa, dispone che il pagamento sia eseguito a favore dello Stato, come testualmente previsto dalla norma citata (“Il provvedimento che pone a carico della parte soccombente non ammessa al patrocinio la rifusione delle spese processuali a favore della parte ammessa dispone che il pagamento sia eseguito a favore dello Stato”).
5.2. In proposito, giova ribadire il principio enunciato da Cass. n. 22017 del 2018, secondo cui, in tema di patrocinio a spese dello Stato, qualora risulti vittoriosa la parte ammessa al detto patrocinio, il giudice civile, diversamente da quello penale, non è tenuto a quantificare in misura uguale le somme dovute dal soccombente allo Stato ex art. 133 del d.P.R. n. 115 del 2002 e quelle dovute dallo Stato al difensore del non abbiente, ai sensi degli artt. 82 e 130 del medesimo d.P.R., alla luce delle peculiarità che caratterizzano il sistema processualpenalistico di patrocinio a spese dello Stato e del fatto che, in caso contrario, si verificherebbe una disapplicazione del summenzionato art. 130. In tal modo, si evita che la parte soccombente verso quella non abbiente sia avvantaggiata rispetto agli altri soccombenti e si consente allo Stato, tramite l’eventuale incasso di somme maggiori rispetto a quelle liquidate al singolo difensore, di compensare le situazioni di mancato recupero di quanto corrisposto e di contribuire al funzionamento del sistema nella sua globalità.
6. Sussistono i presupposti processuali per il versamento, da parte della società cooperativa ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato introdotto dall’art. 1, comma 17, della legge 24 dicembre 2012, n. 228 (legge di stabilità 2013). L’obbligo di versamento, per il ricorrente, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato, pari a quello dovuto, ai sensi dell’art. 13, comma 1-quater, del d.P.R. n. 115 del 2002, nel testo introdotto dall’art. 1, comma 17, della I. n. 228 del 2012, costituisce una obbligazione di importo predeterminato che sorge ex lege per effetto del rigetto dell’impugnazione, della dichiarazione di improcedibilità o di inammissibilità della stessa.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso; condanna la ricorrente al pagamento delle spese, che liquida per compensi in euro 4.000,00 in favore dello Stato, oltre spese come per legge.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1-quater del d.P.R. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1-bis, dello stesso articolo 13.
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