CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 26 ottobre 2018, n. 27238
Licenziamento per giusta causa – Dipendente postale – Contestazione disciplinare – Tardività – Accertamento di un ingente numero di operazioni d’ufficio
Fatti di causa
1. La Corte d’appello di Ancona, con sentenza n. 57 pubblicata il 14.2.17, in riforma della pronuncia di primo grado, ha dichiarato illegittimo il licenziamento per giusta causa intimato alla sig.ra F. il 26.4.13, ha dichiarato risolto il rapporto di lavoro e condannato Poste Italiane s.p.a. al pagamento di un’indennità risarcitoria pari a 18 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.
2. La Corte territoriale ha ritenuto infondata la censura di tardività della contestazione disciplinare effettuata con lettera del 22.3.13, rispetto ai fatti commessi a partire dall’1.6.12.
3. Ha sottolineato la complessità delle indagini, che hanno coinvolto anche la posizione dell’impiegata con funzioni direttive sig.ra V. S., e richiesto l’accertamento di un ingente numero di operazioni d’ufficio.
4. Ha rilevato come solo in data 13.2.13 fossero stati ultimati gli accertamenti dell’ufficio Funzione Tutela Aziendale/FM, nel corso dei quali erano state eseguite ispezioni presso la filiale nonché l’audizione delle persone coinvolte, e che la contestazione era seguita il 22.3.13.
5. La Corte di merito ha esaminato i quattro episodi oggetto di contestazione disciplinare e ritenuto che:
– il versamento sul libretto postale del sig. D. C. era stato effettuato, in assenza di quest’ultimo, dalla direttrice del settore commerciale sig.ra S., mediante utilizzo dei dati identificativi e di accesso alla rete informatica in possesso della F.; che quest’ultima aveva tollerato la condotta irregolare posta in essere dalla collega che, oltre ad essere suo superiore gerarchico, operava generalmente su delega del sig. D. ed era in possesso del libretto postale a questi intestato;
– l’apertura di un libretto di risparmio, cointestato ai signori N. e C., era stata effettuata dalla F. su indicazione della S. e in base a moduli in possesso di questa e già firmati dal cliente N.;
– la custodia in ufficio di un buono fruttifero postale intestato a P. M. e V. V. era avvenuta su specifica richiesta dei clienti;
– la custodia in ufficio di un assegno postale, intestato “a me medesimo” ed emesso tre mesi prima da parte e in favore di A. M. A., era avvenuta su richiesta di quest’ultima.
6. Ha escluso che i fatti contestati potessero ricondursi alle ipotesi di cui all’art. 54, comma 4, lett. j (abituale inosservanza di leggi e regolamenti) o lett. n (qualsiasi negligenza o inosservanza volta a procurare a sé o a terzi indebiti vantaggi), per le quali il c.c.n.I. prevede una sanzione conservativa, trattandosi di condotte “non direttamente tenute in violazione di leggi o regolamenti e, dall’altro, non connotate dalla volontà di procurare indebiti vantaggi a sé o a terzi.
7. Ha quindi escluso l’applicabilità della tutela di cui all’art. 18, comma 4, L. n. 300 del 1970, come modificato dalla L. n. 92 del 2012.
8. Ha ritenuto la condotta contestata riconducibile alla previsione di cui all’art. 54, comma 6, lett. a) del c.c.n.I. che punisce col licenziamento la “connivente tolleranza di abusi commessi da dipendenti o da terzi”, ma la sanzione espulsiva non proporzionata in ragione del limitato disvalore della condotta addebitata alla F. per avere la stessa agito su richiesta della S., sua superiore gerarchica, che era in possesso di moduli prefirmati dai clienti o che, comunque, operava per prassi come delegata del D.; inoltre, per aver violato le procedure interne sulla custodia dei titoli, ma su richiesta dei clienti.
9. Ha applicato il regime di tutela di cui all’art. 18, comma 5, L. n. 300 del 1970, come modificato dalla L. n. 92 del 2012.
10. Per la cassazione della sentenza ha proposto ricorso la sig.ra F., affidato a tre motivi, cui ha resistito Poste Italiane s.p.a. con controricorso e ricorso incidentale, articolato in un unico motivo.
11. Entrambe le parti hanno depositato memoria, ai sensi dell’art. 378 c.p.c.
Ragioni della decisione
1. Col primo motivo di ricorso la difesa della lavoratrice ha censurato la sentenza impugnata per violazione e falsa applicazione degli artt. 2119 c.c. e 80 del c.c.n.I. per difetto di una giusta causa di recesso, anche in relazione all’art. 54, comma 6, lett. a) del c.c.n.I., nonché per travisamento, omessa e carente valutazione di elementi probatori decisivi.
3. Ha sottolineato come la F., responsabile dell’Ufficio Postale di Castorano, fosse inquadrata nel livello professionale C, con ruolo di Operatore senior e svolgesse mansioni esecutive di carattere tecnico, amministrativo e commerciale, nell’ambito di procedure definite e con un grado di responsabilità e di rapporto fiduciario inferiore rispetto a quello esigibile nei confronti del personale direttivo; ha ribadito come le irregolarità accertate fossero state commesse solo assecondando le richieste della superiore gerarchica, sig. S., mentre gli episodi di custodia dei titoli su richiesta dei clienti costituissero inadempimenti assolutamente marginali.
4. In via subordinata, ha eccepito l’illegittimità costituzionale dell’art. 18, comma 5, L. n. 300 del 1970 per contrasto con gli artt. 2, 3, 4, 35 e 97 della Costituzione, in relazione alla diversa disciplina dettata sulle conseguenze della illegittimità del licenziamento nel rapporto di pubblico impiego, alla luce del diritto vivente di cui alla sentenza Cass. n. 11868 del 2016.
5. Col secondo motivo la parte ricorrente ha censurato la sentenza quanto al mancato accoglimento dell’eccezione di tardività della contestazione e del licenziamento, anche in relazione al principio di immutabilità della contestazione, nonché per violazione dell’art. 2697 c.c.
6. Ha rilevato come rispetto ai fatti a lei addebitati, risalenti al periodo giugno – agosto del 2012, fosse tardiva la contestazione avvenuta nel marzo 2013 e come fosse irrilevante la conclusione degli accertamenti ispettivi interni solo a fine febbraio 2013, posto che questi avevano riguardato prevalentemente le operazioni (circa 50) contestate alla S.
7. Col terzo motivo di ricorso la difesa della lavoratrice ha censurato la sentenza, ai sensi dell’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c., per violazione e falsa applicazione dell’art. 7, L. n. 300 del 1970, dell’art. 53, comma 4, c.c.n.I., dell’art. 18, comma 4, L: n. 300 del 1970, come modificato dalla L. n. 92 del 2012; nonché per carenza assoluta di proporzionalità della sanzione.
8. Ha sostenuto come la Corte di merito avesse errato nel ricondurre la fattispecie concretamente accertata alla previsione di cui all’art. 54, comma 6, lett. a) del c.c.n.I., anziché sussumere la stessa tra le condotte punibili con sanzione conservativa, con conseguente applicazione della tutela reintegratoria.
9. Col ricorso incidentale la società ha dedotto violazione e falsa applicazione dell’art. 18, commi 4 e 5, L. n. 300 del 1970, dell’art. 30, L. n. 183 del 2010 e dell’art. 54, comma 6, lett. a) del c.c.n.I. 14.4.2011; nonché omessa, insufficiente e contraddittoria motivazione su un punto decisivo della controversia, in relazione all’art. 360, comma 1, nn. 3 e 5 c.p.c.
10. Ha censurato la declaratoria di illegittimità del licenziamento adottata dalla Corte di merito, con applicazione della cd. tutela indennitaria forte, ribadendo la sussumibilità della condotta posta in essere dalla lavoratrice nella nozione di giusta causa e, specificamente, tra le condotte tipizzate dal contratto collettivo come sanzionabili col licenziamento senza preavviso, compresa quella di cui all’art. 54, comma 6, lett. K del c.c.n.I.
11. Si esamina prima, per ragioni di ordine logico, il terzo motivo di ricorso principale.
12. La Corte d’appello ha accertato in fatto quanto segue:
– sul primo addebito mosso alla dipendente (di aver effettuato illecite movimentazioni di fondi sul libretto di D. C. e assistito all’apposizione di firme non autentiche, ossia in assenza del beneficiario del conto postale, da parte di V. S., impiegata con funzioni direttive), ha ritenuto che, in realtà, l’operazione di versamento fosse stata effettuata direttamente dalla S. con utilizzo dei dati identificativi e di accesso alla rete informatica appartenenti alla F.; che quest’ultima avrebbe, in sostanza, assistito alla sottoscrizione ad opera della S. di un vaglia postale, in favore del D. non presente all’operazione. La Corte ha dato atto che “all’interno dell’azienda si era creata la prassi di consentire ai dipendenti dell’ufficio di svolgere operazioni con le credenziali di altri lavoratori… specie da parte di soggetti itineranti in più uffici, come ad esempio la S.”. Ha aggiunto che quest’ultima “non solo era in possesso del libretto postale del beneficiario, ma …generalmente operava su delega del sig. D. stesso, attraverso la sottoscrizione in bianco di moduli per lo svolgimento delle operazioni”. Ha ritenuto che le circostanze suddette, unite alla condizione di superiorità gerarchica della S., fossero tali da far “apparire come legittimo il comportamento della S.”;
– riguardo al secondo addebito, la Corte di merito ha accertato che, analogamente, la F. “avesse operato sulla base delle indicazioni fornitele dalla S…. sulla base di moduli prefirmati dal beneficiario G. N.” ed ha ritenuto che anche in tal caso, per il contesto in cui si erano svolte le operazioni, la dipendente “non pote(sse) percepire in maniera evidente l’illegittimità delle condotte tenute dalla superiore gerarchica”.
– quanto agli ultimi due addebiti, la Corte territoriale ha accertato, in base alle prove testimoniali, come la F., avesse trattenuto i titoli “su espressa richiesta delle parti interessate”, con comportamenti “non rispettosi delle procedure interne”.
13. La sentenza impugnata ha escluso la riconducibilità delle condotte poste in essere dalla lavoratrice alle ipotesi previste dall’art. 54, comma 4, lett. j (abituale inosservanza di leggi e regolamenti) e lett. n (qualsiasi negligenza o inosservanza volta o procurare a sé o a terzi indebiti vantaggi) del c.c.n.I., punite con sanzione conservativa, ed ha ritenuto la condotta sussumibile nella previsione di cui all’art. 54, comma 6, lett. a) del contratto collettivo, che sanziona col licenziamento senza preavviso la “connivente tolleranza di abusi commessi da dipendenti o da terzi”. Ha poi valutato la sanzione espulsiva sproporzionata in relazione al concreto disvalore dei fatti addebitati.
14. Questa Corte (Cass. n. 21214 del 2009; Cass. n. 8254 del 2004) ha ripetutamente affermato che la giusta causa di licenziamento, quale “fatto che non consenta la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto” è una nozione che la legge – allo scopo di un adeguamento delle norme alla realtà da disciplinare, articolata e mutevole nel tempo – configura con una disposizione (ascrivibile alla tipologia delle c.d. clausole generali) di limitato contenuto, delineante un modulo generico che richiede di essere specificato in sede interpretativa, mediante la valorizzazione sia di fattori esterni relativi alla coscienza generale, sia di principi che la stessa disposizione tacitamente richiama; tali specificazioni del parametro normativo hanno natura giuridica, e la loro disapplicazione è quindi deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l’accertamento della concreta ricorrenza, nel fatto dedotto in giudizio, degli elementi che integrano il parametro normativo e le sue specificazioni, e della loro concreta attitudine a costituire giusta causa di licenziamento, si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e incensurabile in Cassazione se privo di errori logici o giuridici.
15. Si è precisato come l’operazione valutativa compiuta dal giudice di merito nell’applicare clausole generali come quella dell’art. 2119 c.c. non sfugge ad una verifica in sede di giudizio di legittimità, sotto il profilo della correttezza del metodo seguito nell’individuazione e nell’applicazione dei parametri integrativi, poiché l’operatività in concreto di norme di tale tipo deve rispettare criteri e principi desumibili dall’ordinamento generale, a cominciare dai principi costituzionali, e dalla disciplina particolare (anche collettiva) in cui la concreta fattispecie si colloca (cfr. Cass. n. 9266 del 2005; Cass. n. 5299 del 2000; Cass.).
16. Con riferimento alle disposizioni disciplinari della contrattazione collettiva, si è osservato come la scala valoriale espressa dalle citate previsioni costituisca uno dei parametri atti a riempire di contenuto la clausola generale dell’art. 2119 c.c., con la conseguenza che le parti potranno sottoporre la valutazione operata dal giudice di merito all’esame di questa Corte sotto il profilo della violazione del parametro integrativo della clausola generale costituito dalle previsioni del contratto collettivo o del codice disciplinare (cfr. Cass. Ord. n. 9396 del 2017; Cass. n. 18715 del 2016).
17. Tale profilo assume rilievo particolare nel sistema delineato dall’art. 18, L. n. 300 del 1970, come modificato dalla L. n. 92 del 2012, in cui l’individuazione della sanzione applicabile, tra quelle previste dal comma 4 e dal comma 5 del citato art. 18, passa attraverso il grado di divergenza della condotta datoriale di licenziamento rispetto ai presupposti legali e contrattuali legittimanti la stessa.
18. Deve ulteriormente considerarsi come il controllo di legittimità non si esaurisca nella verifica dell’attività ermeneutica diretta a ricostruire la portata precettiva di una norma poiché il vizio di cui all’art. 360, comma 1, n. 3 c.p.c. comprende anche la falsa applicazione di legge, intesa quale errore di sussunzione del fatto nell’ipotesi normativa.
19. Questo errore di diritto si verifica quando la fattispecie concreta, così come ricostruita ed accertata dal giudice di merito, sia ricondotta ad una disposizione normativa che non la comprende e che descrive un modulo astratto rispetto a cui il fatto concreto risulti non collimante ed anzi eterogeneo.
20. Nel caso di specie, la Corte di merito ha ritenuto la condotta posta in essere dalla lavoratrice come astrattamente riconducibile ad una delle ipotesi per le quali il contratto collettivo prevede la sanzione del licenziamento senza preavviso, salvo poi ritenere in concreto sproporzionata la sanzione espulsiva.
19. In particolare, la Corte d’appello ha ricondotto il fatto addebitato alla lavoratrice alla previsione di cui all’art. 54, comma 6, lett. a) del c.c.n.I., relativa alla “connivente tolleranza di abusi commessi da dipendenti o da terzi”.
20. Occorre considerare che la medesima Corte, nel ricostruire la condotta posta in essere dalla lavoratrice nei suoi aspetti oggettivi e soggettivi, ha sottolineato, riguardo al primo episodio (versamento per conto del sig. D.), come “la tolleranza mostrata dalla ricorrente fosse sorta sulla base di circostanze che facevano apparire come legittimo il comportamento della S.” e, quanto al secondo episodio (apertura libretto sig. N.), che il contesto in cui venivano effettuate le operazioni era tale che la F. non potesse “percepire in maniera evidente l’illegittimità delle condotte della superiore gerarchica”. Ha poi qualificato i restanti due episodi, di custodia dei due titoli su richiesta dei clienti e quale cortesia nei confronti degli stessi, come mera violazione delle procedure interne.
21. Dall’accertamento in fatto compiuto dalla Corte d’appello e dalla valutazione operata dalla stessa quanto all’elemento soggettivo della condotta posta in essere dalla lavoratrice, emerge l’errore di sussunzione della fattispecie concreta nella previsione di cui all’art. 54, comma 6, lett. a) del c.c.n.I., essendo la connivenza, richiesta da tale disposizione, logicamente incompatibile con l’affermazione, contenuta nella sentenza impugnata, di non consapevolezza dell’altrui abuso.
22. La Corte di merito ha dettagliatamente ricostruito l’atteggiamento della volontà della dipendente, mettendo in rilievo non solo la sua condizione di lavoratrice sottoposta gerarchicamente alla S., quindi non titolata per funzioni a controllarne l’operato, ma anche la prassi per cui i lavoratori itineranti usavano l’accesso alla rete informatica dei colleghi, il fatto per cui la S. generalmente operasse come delegata del sig. D. e nel caso di specie era munita di moduli dal medesimo prefirmati; che analoghi moduli prefirmati erano stati usati per le operazioni nell’interesse del sig. N. Tali caratteristiche, messe in risalto dalla Corte d’appello, paiono non sovrapponibili ad una connivenza nell’altrui abuso che presuppone la consapevolezza sia della grave illiceità dell’operazione, che ne comporta la qualifica quale abuso, sia del contributo alla stessa dato attraverso un tacito consenso e un mancato doveroso impedimento.
23. L’assenza di tali caratteristiche nella condotta della F., per come accertata dalla Corte di merito, rende fondato il motivo di ricorso in esame quanto al dedotto vizio di sussunzione, per avere la sentenza impugnata attratto la fattispecie concreta nell’ipotesi astrattamente prevista dal c.c.n.I. come suscettibile di sanzione espulsiva, nonostante la ritenuta assenza di un atteggiamento doloso della volontà nella violazione della procedure interne, condotta rilevante piuttosto ai fini delle sanzioni conservative ivi previste.
24. Le considerazioni svolte portano a ritenere assorbito il primo motivo di ricorso, afferente alla non configurabilità di una giusta causa di recesso.
25. Sulla base dei medesimi rilievi deve dichiararsi infondato il ricorso incidentale della società, che fa leva sulla riconducibilità della condotta in esame alle previsioni del c.c.n.I. legittimanti il licenziamento senza preavviso e sulla erronea valutazione di non proporzionalità della sanzione espulsiva operata dalla Corte d’appello.
26. Infondato è invece il secondo motivo di ricorso relativo al vizio di tardività della contestazione e del licenziamento.
27. Secondo la giurisprudenza consolidata di questa Corte, in materia di licenziamento disciplinare, l’immediatezza della contestazione si configura quale elemento costitutivo del diritto di recesso del datore di lavoro, in quanto la non immediatezza della contestazione o del provvedimento espulsivo induce ragionevolmente a ritenere che il datore di lavoro abbia soprasseduto al licenziamento ritenendo l’addebito non grave o comunque non meritevole della massima sanzione (Cass. n. 19115 del 2013; Cass. n. 15649 del 2010; Cass. n. 19424 del 2005; Cass. n. 11100 del 2006). Si è inoltre sottolineato come il criterio dell’immediatezza, esplicazione del generale precetto di correttezza e buona fede nell’esecuzione del rapporto di lavoro, vada inteso in senso relativo, potendo, nei casi concreti, esser compatibile con un intervallo di tempo più o meno lungo, necessario per l’accertamento e la valutazione dei fatti, specie quando il comportamento del lavoratore consista in una serie di atti convergenti in un’unica condotta, ed implichi pertanto una valutazione globale ed unitaria, ovvero quando la complessità dell’organizzazione aziendale e della relativa scala gerarchica comportino la mancanza di un diretto contatto del dipendente con la persona titolare dell’organo abilitato ad esprimere la volontà imprenditoriale di recedere, sicché risultano ritardati i tempi di percezione e di accertamento dei fatti e, quindi, di adozione dei relativi provvedimenti (Cass. n. 15649 del 2010; Cass. n. 22066 del 2007; Cass. n. 19159 del 2006; Cass. n. 6228 del 2004; Cass. n. 12141 del 2003). Va segnalato che, sempre secondo consolidato orientamento di questa Corte, la valutazione relativa alla tempestività della contestazione costituisce giudizio di merito, non sindacabile in cassazione ove adeguatamente motivato (Cass. n. 19115 del 2013 ed altre sopra citate).
28. In base a tali principi deve riconoscersi la correttezza giuridica della sentenza impugnata che ha dato conto della complessità dell’indagine per “l’ingente numero di operazioni sottoposte ad accertamento e della connessa posizione della impiegata con funzioni direttive V. S. (che) complicava sensibilmente gli adempimenti necessari per provvedere al pieno accertamento dei fatti avvenuti presso l’Ufficio Postale di Castorano” e degli accertamenti svolti dall’ufficio Funzione Tutela Aziendale, con ispezione presso la filiale e audizione delle persone coinvolte, conclusi un mese prima della contestazione disciplinare.
29. Per le considerazioni svolte, in accoglimento del terzo motivo di ricorso, nei sensi di cui sopra, la sentenza impugnata deve essere cassata con rinvio alla medesima Corte d’appello, in diversa composizione, che dovrà procedere ad una nuova valutazione ai fini della individuazione della tutela applicabile in caso di illegittimità del licenziamento, alla luce dei principi sopra affermati, nonché alla regolazione delle spese del giudizio di legittimità.
30. Si dà atto della sussistenza, nei confronti del ricorrente incidentale, dei presupposti di cui all’art. 13, comma 1 quater, del D.P.R. 30 maggio 2002 n. 115, introdotto dall’art. 1, comma 17, della L. 24 dicembre 2012 n. 228.
P.Q.M.
Accoglie il terzo motivo del ricorso principale, nei limiti di cui in motivazione, rigetta il secondo motivo e dichiara assorbito il primo; rigetta il ricorso incidentale; cassa la sentenza impugnata in relazione alla censura accolta e rinvia alla Corte d’appello di Ancona, in diversa composizione, cui demanda di provvedere anche sulle spese del giudizio di legittimità.
Ai sensi dell’art. 13, comma 1 quater, del D.P.R. 30 maggio 2002 n. 115, introdotto dall’art. 1, comma 17, della L. 24 dicembre 2012 n. 228, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte del ricorrente incidentale, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso incidentale, a norma del comma 1 bis del medesimo art. 13.
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