CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 26 settembre 2018, n. 23026
Licenziamento per giusta causa – Assenza dal lavoro per malattia – Svolgimento di altra attività lavorativa – Grave abuso delle norme relative al trattamento di malattia – Grave violazione dei doveri contrattuali di correttezza e buona fede
Fatti di causa
1. La Corte di Roma ha confermato la sentenza del Tribunale di Cassino che aveva rigettato la domanda con la quale P.P. aveva chiesto che si accertasse l’illegittimità del licenziamento per giusta causa intimatole dalla A. s.p.a. in data 22 maggio 2009.
2. La Corte territoriale ha rammentato che alla lavoratrice era stato addebitato di aver espletato attività lavorativa all’interno di una gelateria sita in Pontecorvo nei giorni in cui – come attestato dalla certificazione medica inviata alla datrice di lavoro – era assente dal lavoro per malattia. Ha poi precisato che la circostanza che tale attività doveva essere resa stando in posizione eretta e che per conseguenza, stante la tipologia della patologia in relazione alla quale si era assentata dal lavoro, ne era pregiudicata la guarigione o comunque il recupero della idoneità fisica per consentirle di riprendere il servizio. Ha quindi ritenuto che fosse risultata accertata una condotta in violazione delle disposizioni collettive che sanzionano con il licenziamento il grave abuso delle norme relative al trattamento di malattia. Inoltre ha ravvisato nella condotta accertata una grave violazione dei doveri contrattuali di correttezza e buona fede nella esecuzione del contratto che giustificava la risoluzione per giusta causa del rapporto di lavoro.
3. Per la cassazione della sentenza ricorre P.P. ed articola tre motivi ai quali resiste con controricorso A. s.p.a. che ha depositato memoria illustrativa ai sensi dell’art. 378 cod. proc. civ.
Ragioni della decisione
4. I motivi di ricorso.
4.1. Con il primo motivo di ricorso è denunciata la violazione e falsa applicazione degli artt. 2119 e 2105 cod. civ.. Sostiene la ricorrente che la Corte di appello, ridimensionando la ricostruzione dei fatti operata dal giudice di primo grado ha escluso che si potesse ravvisare un intento fraudolento da parte della lavoratrice ed ha accertato che invece si era trattato di una condotta che ne aveva messo in pericolo la guarigione sottolineando che, trattandosi di nozione di comune esperienza, l’idoneità lesiva della stessa doveva essere nota alla lavoratrice. Sostiene la ricorrente che, tuttavia, tale ragionamento non tiene nella dovuta considerazione il fatto che in concreto non sarebbe stata acquisita la prova della “messa in pericolo della guarigione”. Sottolinea infatti che la permanenza nella gelateria, di proprietà del marito e del figlio, era stata assai limitata e, perciò, non era idonea a pregiudicare il recupero dalla lombo sciatalgia acuta diagnosticata.
4.2. Con il secondo motivo di ricorso è denunciata la violazione e falsa applicazione dell’art. 115 cod. proc. civ.. Sostiene infatti la ricorrente che erroneamente la Corte avrebbe ricondotto nella categoria del fatto notorio circostanze che attengono a conoscenze proprie della scienza medica e, dunque, esulano dalle conoscenze di una persona di media cultura.
4.3. Con il terzo motivo di ricorso la P. denuncia la violazione e falsa applicazione norme di diritto in relazione all’art. 360 primo comma n. 5 cod. proc. civ.. Sebbene nel corpo dell’appello la ricorrente si fosse doluta della mancata ammissione di un accertamento medico per comprovare che l’attività svolta non era incompatibile con la malattia, circostanza assolutamente decisiva ai fini della risoluzione della controversia, la Corte di merito aveva del tutto omesso di esaminare la censura e di pronunciare sul punto così incorrendo nella denunciata violazione.
5. Il primo motivo di ricorso è infondato. La censura pure veicolata nel giudizio come violazione dell’art. 2119 e dell’art. 2105 cod. civ. si propone nella sostanza come una inammissibile richiesta di diverso esame dei fatti allegati secondo una ricostruzione più favorevole alla ricorrente. La critica mossa alla sentenza investe l’accertamento da parte del giudice di appello della sequenza delle condotte ritenute pregiudizievoli e Ila conseguente valutazione della idoneità a pregiudicare la guarigione.
6. E’ fondato, invece, il secondo motivo di ricorso. Va rammentato, in via generale, che in tema di prova civile è censurabile in sede di legittimità, per violazione di legge, l’assunzione da parte del giudice di merito di una inesatta nozione di fatto notorio che deve essere inteso come fatto conosciuto da uomo di media cultura, in un dato tempo e luogo. Non è invece censurabile il concreto esercizio del potere discrezionale del giudice di ricorrere alla massima di esperienza (cfr. Cass. 03/03/2017 n. 5438). In sostanza la denuncia è ammissibile quando il ricorrente abbia evidenziato che il giudice di merito abbia posto alla base del suo apprezzamento massime di esperienza inesistenti. La definizione di “notorietà” desumibile dall’art. 115, comma 2, cod. proc. civ. costituisce il criterio legale di giustificazione del giudizio di fatto ed è destinata ad individuare le premesse di fatto che possono assumersi per vere anche in mancanza di prova. E’ ben vero allora che il ricorso al fatto notorio attiene all’esercizio di un potere discrezionale riservato al giudice di merito ma questo è sindacabile, in sede di legittimità, nel caso in cui la decisione della controversia si basi su un’inesatta ovvero su una non chiarita nozione del notorio da intendersi, come detto, quale fatto conosciuto da un uomo di media cultura, in un dato tempo e luogo. Il fatto notorio, derogando al principio dispositivo ed a quello del contraddittorio e dando luogo a prove non fornite dalle parti e relative a fatti da esse non vagliati e controllati, dev’essere inteso in senso rigoroso, cioè come fatto acquisito con tale grado di certezza da apparire indubitabile ed incontestabile, e non quale evento o situazione oggetto della mera conoscenza del singolo giudice.
Conseguentemente, per aversi fatto notorio occorre, in primo luogo, che si tratti di un fatto che si imponga all’osservazione ed alla percezione della collettività, di modo che questa possa compiere per suo conto la valutazione critica necessaria per riscontrarlo, sicché al giudice non resti che constatarne gli effetti e valutarlo soltanto ai fini delle conseguenze giuridiche che ne derivano; in secondo luogo, occorre che si tratti di un fatto di comune conoscenza, anche se limitatamente al luogo ove esso è invocato, o perché appartiene alla cultura media della collettività, ivi stanziata, o perché le sue ripercussioni sono tanto ampie ed immediate che la collettività ne faccia esperienza comune anche in vista della sua incidenza sull’interesse pubblico che spinge ciascuno dei componenti della collettività stessa a conoscerlo (cfr. Cass. 06/02/2013 n. 2808). Erra allora la sentenza della Corte di appello che si limita, tautologicamente ed assertivamente, ad affermare che rientra nella conoscenza comune il fatto che lo svolgimento di attività in posizione eretta aggravi i problemi alla colonna vertebrale. Si osserva al riguardo che tale valutazione presuppone una specifica competenza in campo medico ed involge la capacità di apprezzare l’interazione di una condotta con riguardo al recupero della capacità lavorativa che non possono essere ritenute di comune conoscenza ma necessitano, invece, di un approfondimento tecnico scientifico. Sotto tale profilo il ricorso deve essere accolto, restando assorbito l’esame dell’ultimo motivo che attiene all’omesso esame della censura con la quale in appello ci si doleva dei mancati approfondimenti istruttori medico legali.
7. Per effetto dell’accoglimento del secondo motivo di ricorso la sentenza deve essere cassata e rinviata alla Corte di appello di Roma che in applicazione dei principi su esposti procederà ad una nuova verifica della rilevanza della condotta tenuta dalla P. ai fini della valutazione della legittimità o meno del recesso.
7.1. Alla Corte di merito è demandata del pari la regolazione delle spese del giudizio di legittimità.
P.Q.M.
Rigetta il primo motivo di ricorso, accoglie il secondo, assorbito il terzo. Cassa la sentenza in relazione al motivo accolto e rinvia alla Corte di appello di Roma in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del giudizio di legittimità.
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