CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 27 aprile 2018, n. 10280
Licenziamento intimatole per giusta causa – Delitto di diffamazione – Invettive rivolte all’organizzazione aziendale – Condotta idonea ad incrinare irrimediabilmente il vincolo fiduciario coessenziale al rapporto di lavoro – Non ravvisabili condizioni di particolare aggravio o stress quanto alle condizioni di lavoro, esimenti della condotta diffamatoria del lavoratore – Gravità del comportamento in concreto del lavoratore, anche sotto il profilo soggettivo del dolo, nelle sue possibili e diverse articolazioni, o della colpa – Aspetti oggettivi concreti afferenti a natura e qualità del rapporto, posizione delle parti, grado di affidabilità richiesto dalle specifiche mansioni del dipendente – Aspetti soggettivi relativi a circostanze del verificarsi del fatto, a motivi ed intensità dell’elemento intenzionale o di quello colposo
Fatti di causa
1. Con sentenza del 12.5.2016, la Corte di appello di Bologna respingeva il gravame proposto da O. G. avverso la decisione del Tribunale di Forlì, che aveva rigettato il ricorso proposto dalla predetta volto all’accertamento dell’illegittimità del licenziamento intimatole per giusta causa il 29.5.2012 dalla s.r.l. Elettronica C. al fine di ottenere la tutela denegatale in sede cautelare ex art. 18 I. 300/70, nel testo anteriore alla legge Fornero, o, in subordine, ex art. 8 I. 604/66.
2. Rilevava la Corte che l’ascrivibilità della condotta tenuta dall’O., con le specifiche modalità indicate, al delitto di diffamazione era pacificamente ritenuta dalla giurisprudenza richiamata in sentenza e che come tale la stessa integrava comportamento idoneo ad incrinare irrimediabilmente il vincolo fiduciario coessenziale al rapporto di lavoro e deducibile quindi a giusta causa di licenziamento, tanto più che nella fattispecie alle invettive rivolte all’organizzazione aziendale ed ai superiori si aggiungeva la prospettazione del ricorso a malattie asintomatiche in caso di dissensi di vedute con il datore di lavoro, e ciò da parte di soggetto caratterizzantesi per una documentata frequente morbilità.
3. Si aggiungeva che i testi avevano escluso che in capo alla O. fossero ravvisabili condizioni di particolare aggravio o stress quanto alle condizioni di lavoro e che pertanto era risultato vano il tentativo di individuare un’esimente della condotta diffamatoria della lavoratrice nelle condizioni di lavoro ed in un non provato stress lavoro correlato e che, escluso il nesso causale tra diffamazione e condizioni di lavoro vissute dalla O., si rivelava astratto ed inconcludente il richiamo alle prescrizioni emesse dalla Commissione tecnica dell’AUSL di Cesena. Questa aveva certificato le capacità della lavoratrice, già invalida, come “conservate con limitazioni saltuarie relative all’esposizione a situazioni stressanti sul piano psicofisico”, e non era emerso in concreto una violazione di tali prescrizioni, laddove la riproposta richiesta istruttoria di esibizione del Documento di Valutazione dei rischi aziendale e di consulenza tecnica “psichiatrica e medica del lavoro, diretta ad accertare il nesso di causalità tra le condizioni di salute della lavoratrice, l’ambiente di lavoro e le espressioni oggetto di causa”, doveva ritenersi avere valore meramente esplorativo.
4. Di tale decisione domanda la cassazione la O., affidando l’impugnazione a tre motivi, cui resiste, con controricorso, la società.
Ragioni della decisione
1. Con il primo motivo, viene dedotta violazione dell’art. 2119 c.c. per omessa valutazione dell’elemento soggettivo, rilevandosi che la Corte felsinea è pervenuta al giudizio di legittimità del recesso in difetto di ogni considerazione e valutazione del profilo psicologico e del grado di intenzionalità (intensità volitiva) della condotta della lavoratrice, accertamento distinto da quello dell’inadeguatezza dell’ ambiente di lavoro, in contrasto con principi giurisprudenziali affermati in relazione all’interpretazione dell’art. 2119 c.c..
Si richiama diagnosi della Commissione Invalidi Civili, dell’ AUSL di Forlì ed ulteriore certificazione in data 6.3.2012, attestanti ansia e disturbo del sonno, fasi di scompenso con necessità di terapia farmacologica, con riflessi sulla vita lavorativa e di lavoro. Si sottolinea, infine, la mancata valutazione del profilo della intenzionalità della condotta, che, in quanto ritenuta configurare una diffamazione, doveva caratterizzarsi per il dolo, senza considerare che l’uso dello strumento facebook aveva determinato l’inconsapevolezza di esporre nel mondo reale ¡1 proprio sfogo, diretto nelle intenzioni a pochi interlocutori ammessi.
2. Con il secondo motivo, si ascrive alla decisione impugnata violazione dell’art. 2119 c.c., in combinato disposto con l’art. 2106 c.c., per difetto di proporzionalità tra infrazione e sanzione, ex art. 360, n. 3, c.p.c., sul rilievo della mancata considerazione di precedenti disciplinari e della omessa valutazione della reale portata della condotta, frutto di uno sfogo e priva di manifesto e ripetuto disprezzo al decoro ed immagine aziendale, non essendo emersi profili di insubordinazione per non avere l’O. negato la sua prestazione, pure a fronte di esternazioni riferite alla volontà di assentarsi per malattie fittizia. Si evidenzia che, anche per il contesto di riferimento, le modalità espressive dovevano considerarsi usuali nel linguaggio sociale come forme verbali critiche, dirette a manifestare un proprio disagio, avvertito come intollerabile rispetto all’organizzazione del lavoro ritenuta inadeguata, senza riferire le espressioni diffamatorie a soggetti direttamente individuabili.
3. Con il terzo motivo, si lamenta, infine, omesso esame di un fatto decisivo, oggetto di discussione tra le parti, con riguardo alla documentazione medica attestante il difettoso stato di salute psichica della lavoratrice incidente sulla sua capacità volitiva e determinativa, ex art. 360, n. 5, c.p.c., sostenendosi che la valutazione delle condizioni psichiche della stessa, quali certificate dai sanitari curanti, avrebbe avuto un ruolo decisivo e determinante nel giudizio di intenzionalità e di sua graduazione nell’economia della giusta causa incentrata su una episodica espressione proferita da persona con accertata difficoltà relazionale e scompensi anche in sede lavorativa. Si evidenzia che il fatto risultava dagli atti processuali ed aveva costituito oggetto di discussione tra le parti sia in primo, che in secondo grado.
4. Il ricorso è infondato.
5. Va premesso che la condotta sanzionata con il licenziamento deve essere riconducibile alla nozione legale di giusta causa, tenendo conto della gravità del comportamento in concreto del lavoratore, anche sotto il profilo soggettivo della colpa o del dolo, con valutazione in senso accentuativo rispetto alla regola della “non scarsa importanza” dettata dall’art. 1455 c.c. (Cass. 5.4.2017 n. 8826). Va aggiunto che, al fine di ritenere integrata la giusta causa di licenziamento, non è necessario che l’elemento soggettivo della condotta del lavoratore si presenti come intenzionale o doloso, nelle sue possibili e diverse articolazioni, posto che anche un comportamento di natura colposa, per le caratteristiche sue proprie e nel convergere degli altri indici della fattispecie, può risultare idoneo a determinare una lesione del vincolo fiduciario così grave ed irrimediabile da non consentire l’ulteriore prosecuzione del rapporto (Cass. 1.7.2016 n. 13512).
E’ poi principio acquisito in tema di licenziamento disciplinare o per giusta causa, che la valutazione della gravità del fatto in relazione al venir meno del rapporto fiduciario che deve sussistere tra le parti non va operata in astratto, ma con riferimento agli aspetti concreti afferenti alla natura e alla qualità del singolo rapporto, alla posizione delle parti, al grado di affidabilità richiesto dalle specifiche mansioni del dipendente, nonché alla portata soggettiva del fatto, ossia alle circostanze del suo verificarsi, ai motivi e all’intensità dell’elemento intenzionale o di quello colposo (Cass. 26.7.2011 n. 16283).
6. Tanto premesso, deve ritenersi che la valutazione attinente al profilo dell’intenzionalità della condotta dell’O. è stata adeguatamente compiuta in conformità ai principi su richiamati, posto il riferimento alla considerazione della mancanza di ogni segno di resipiscenza dopo la fase reattiva da parte della lavoratrice, che era andata ben oltre il contegno diffamatorio, laddove era stato anche prospettato il ricorso a malattie asintomatiche in caso di dissensi da parte di soggetto caratterizzantesi per documentata e frequente morbilità. Quanto appena evidenziato, unitamente alla ravvisata mancanza di correlazione tra ambiente lavorativo e stress da lavoro, accertata in sede istruttoria, rende ragione della esaustività della valutazione compiuta, non essendo rilevabile dal contenuto della decisione che fosse specificamente in discussione la capacità di comprensione e l’equilibrio della lavoratrice. Peraltro, l’esame dei documenti esibiti e delle deposizioni dei testimoni, nonché la valutazione dei documenti e delle risultanze della prova testimoniale, il giudizio sull’attendibilità dei testi e sulla credibilità di alcuni invece che di altri, come la scelta, tra le varie risultanze probatorie, di quelle ritenute più idonee a sorreggere la motivazione, involgono apprezzamenti di fatto riservati al giudice del merito, il quale, nel porre a fondamento della propria decisione una fonte di prova con esclusione di altre, non incontra altro limite che quello di indicare le ragioni del proprio convincimento, senza essere tenuto a discutere ogni singolo elemento o a confutare tutte le deduzioni difensive, dovendo ritenersi implicitamente disattesi tutti i rilievi e circostanze che, sebbene non menzionati specificamente, sono logicamente incompatibili con la decisione adottata (cfr. Cass. 2.8.2016 n. 16056, Cass.31.7.2017 n. 19011 e, precedentemente, Cass. 21.7.2010 n. 17097).
7. In conformità a tali principi, deve ritenersi che, indipendentemente dalla specifica menzione dei certificati sanitari indicati nel primo motivo – peraltro neanche indicati come specificamente richiamati a supporto dei rilievi formulati in sede di gravame – la valutazione relativa alla intenzionalità ed intensità volitiva della condotta sia stata correttamente eseguita e che non sia sostenibile una censura che adduca il difetto di valutazione di tale essenziale elemento ai fini della configurabilità della giusta causa di licenziamento.
8. Quanto al secondo motivo, va premesso che la giusta causa di licenziamento deve rivestire il carattere di grave negazione degli elementi essenziali del rapporto di lavoro e, in particolare, dell’elemento fiduciario, dovendo il giudice valutare, da un lato, la gravità dei fatti addebitati al lavoratore, in relazione alla portata oggettiva e soggettiva dei medesimi, alle circostanze nelle quali sono stati commessi e all’intensità del profilo intenzionale, dall’altro, la proporzionalità fra tali fatti e la sanzione inflitta, per stabilire se la lesione dell’elemento fiduciario, su cui si basa la collaborazione del prestatore di lavoro, sia tale, in concreto, da giustificare la massima sanzione disciplinare; quale evento “che non consente la prosecuzione, anche provvisoria, del rapporto”, la giusta causa di licenziamento integra una clausola generale, che richiede di essere concretizzata dall’interprete tramite valorizzazione dei fattori esterni relativi alla coscienza generale e dei principi tacitamente richiamati dalla norma, quindi mediante specificazioni che hanno natura giuridica e la cui disapplicazione è deducibile in sede di legittimità come violazione di legge, mentre l’accertamento della ricorrenza concreta degli elementi del parametro normativo si pone sul diverso piano del giudizio di fatto, demandato al giudice di merito e incensurabile in cassazione se privo di errori logici e giuridici. (Cass. 26.4.2012 n. 6498).
9. La condotta contestata e posta a base del licenziamento consisteva in affermazioni pubblicate dall’O. sulla propria bacheca virtuale di facebook in cui si esprimeva disprezzo per l’azienda (“mi sono rotta i coglioni di questo posto di merda e per la proprietà”) con irrilevanza della specificazione del nominativo del rappresentante della stessa, essendo facilmente identificabile il destinatario.
10. La diffusione di un messaggio diffamatorio attraverso l’uso di una bacheca ‘facebook’ integra un’ipotesi di diffamazione, per la potenziale capacità di raggiungere un numero indeterminato di persone, posto che il rapporto interpersonale, proprio per il mezzo utilizzato, assume un profilo allargato ad un gruppo indeterminato di aderenti al fine di una costante socializzazione.
Ciò comporta che la condotta di postare un commento su facebook realizza la pubblicizzazione e la diffusione di esso, per la idoneità del mezzo utilizzato a determinare la circolazione del commento tra un gruppo di persone, comunque, apprezzabile per composizione numerica, con la conseguenza che, se, come nella specie, lo stesso è offensivo nei riguardi di persone facilmente individuabili, la relativa condotta integra gli estremi della diffamazione e come tale
correttamente il contegno è stato valutato in termini di giusta causa del recesso, in quanto idoneo a recidere il vincolo fiduciario nel rapporto lavorativo.
11. La censura intesa a rilevare la violazione del criterio della proporzionalità da parte del giudice del merito, per non avere lo stesso adeguatamente considerato elementi di sicura rilevanza ai detti fini, per la sua prospettazione risulta tale da devolvere alla Corte questioni non esaminabili nella sede di legittimità. E’ stato al riguardo precisato (Cass., n. 25743 del 2007) che il giudizio di proporzionalità o adeguatezza della sanzione dell’illecito commesso – istituzionalmente rimesso al giudice di merito – si sostanzia nella valutazione della gravità dell’inadempimento imputato al lavoratore in relazione al concreto rapporto e a tutte le circostanze del caso, dovendo – come già sopra detto – tenersi al riguardo in considerazione la circostanza che tale inadempimento deve essere valutato in senso accentuativo rispetto alla regola generale della “non scarsa importanza” di cui all’art. 1455 c.c., sicché l’irrogazione della massima sanzione disciplinare risulta giustificata soltanto in presenza di un notevole inadempimento degli obblighi contrattuali (L. n. 604 del 1966, art. 3) ovvero addirittura tale da non consentire la prosecuzione neppure provvisoria del rapporto (art. 2119 c.c.). Tale giudizio è rimesso al giudice di merito, la cui valutazione è insindacabile in sede di legittimità se sorretta da adeguata motivazione (cfr. Cass. 26.1.2011 n. 1788, Cass. 26.7.2010 n. 17514, Cass. n. 21965 del 2007).
12. Quanto all’ultimo motivo, è sufficiente osservare che è stata valutata la possibile rilevanza della certificazione sanitaria e la violazione delle prescrizioni della Commissione AUSL di Cesena sulla necessità di evitare situazioni lavorative stressanti e che l’esame ha condotto all’esclusione della violazione di tali prescrizioni, in base a quanto emerso dall’istruttoria, per ogni altro profilo dovendo considerarsi che l’art. 360, primo comma, n. 5, cod. proc. civ., riformulato dall’art. 54 del d.l. 22 giugno 2012, n. 83, conv. in legge 7 agosto 2012, n. 134, ha introdotto nell’ordinamento un vizio specifico denunciarle per cassazione, relativo all’omesso esame di un fatto storico, principale o secondario, la cui esistenza risulti dal testo della sentenza o dagli atti processuali, che abbia costituito oggetto di discussione tra le parti e abbia carattere decisivo, ossia idoneo a determinare un esito diverso della controversia (Sez. U, n. 8053 del 07/04/2014). Nel caso all’esame non risulta in termini di decisività chiarita l’incidenza della documentazione richiamata, in difformità alla valutazione compiutane dal giudice del gravame sulla base di specifici rilievi e censure formulate dall’appellante, che non risultano espressamente richiamati nella presente sede.
13. Alla stregua delle esposte argomentazioni, il ricorso deve essere respinto.
14. Le spese del presente giudizio di legittimità seguono la soccombenza del ricorrente.
15. Sussistono le condizioni di cui all’art. 13, comma 1 quater, dPR 115 del 2002.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in euro 200,00 per esborsi, euro 4000,00 per compensi professionali, oltre accessori come per legge, nonché al rimborso delle spese forfetarie in misura del 15%.
Ai sensi del D.P.R. 30 maggio 2002 art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento da parte della ricorrente dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma dell’art.13, comma 1 bis, del citato D.P.R.
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