CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 27 dicembre 2021, n. 41579
Licenziamento per giustificato motivo oggettivo – Diminuzione delle commesse – Impossibilità di una diversa collocazione del lavoratore – Onere della prova
Fatto
1. Con sentenza del 12 luglio 2017, la Corte d’appello di Roma accertava l’illegittimità del licenziamento intimato da C.T. s.r.l. l’11 maggio 2001 per giustificato motivo oggettivo a M.G. e condannava la società datrice al pagamento, in favore di F.T. e di A. e C.G., quali coeredi del predetto in proporzione delle rispettive quote, della retribuzione dovuta al de cuius dall’11 maggio 2001 al 2 gennaio 2004, data del suo decesso, nonché di un’indennità pari a quindici mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto, oltre rivalutazione ed interessi come per legge e versamento dei contributi previdenziali e assistenziali per il periodo suindicato: così riformando la sentenza di primo grado, di condanna della società al pagamento, in favore dei predetti, della somma di € 99,35 a titolo di rateo di tredicesima e quattordicesima mensilità, con rigetto delle altre domande.
2. In esito all’argomentato scrutinio delle risultanze istruttorie, la Corte capitolina negava la prova dell’anteriorità (dal 5 ottobre 2000) del rapporto di lavoro di M.G., autotrasportatore dotato di patente C, alla data di sua formalizzazione (5 dicembre 2000), come pure del suo svolgimento dì mansioni corrispondenti al III livello del CCNL autotrasporti o in orario straordinario.
3. Essa riteneva l’insussistenza del giustificato motivo oggettivo di licenziamento (per diminuzione delle commesse nel settore dei trasporti nazionali e impossibilità di impiego del lavoratore in altra mansione equivalente), per avere la società datrice mantenuto il posto ad altri autisti come G., ai quali aveva consentito di acquisire la patente E, così non dando prova dell’impossibilità di una diversa collocazione del lavoratore (cd. repechage).
4. Con atto notificato il 30 maggio 2019, la società ricorreva per cassazione con tre motivi, cui gli eredi del lavoratore resistevano con controricorso e memoria ai sensi dell’art. 378 c.p.c.
5. Il P.G. rassegnava conclusioni scritte, a norma dell’art. 23, comma 8bis d.l. 137/20 inserito da I. conv. 176/20, nel senso dell’inammissibilità del ricorso.
Motivi della decisione
1. Con il primo motivo, la ricorrente deduce violazione dell’art. 3 I. 604/1966, per erronea esclusione del giustificato motivo oggettivo di licenziamento, nella ritenuta mancata dimostrazione di un calo delle commesse, avendo essa consentito ad altri autisti di rimanere in servizio acquisendo la patente E, ma non adibito il lavoratore ad altra mansione, anche inferiore: così la Corte ignorando la richiamata evoluzione giurisprudenziale di legittimità, nel senso della ricorrenza di una tale ragione economica anche in una modificazione organizzativa in funzione di una più efficiente e profittevole gestione aziendale, senza necessità per l’impresa di versare in una condizione di crisi.
2. Con il secondo, la ricorrente deduce violazione dell’art. 41 Cost., per insindacabilità delle scelte imprenditoriali di riorganizzazione aziendale, essendo stata superata dall’insegnamento giurisprudenziale la concezione del licenziamento per giustificato motivo oggettivo quale extrema ratio: nel caso di specie, essendo il lavoratore licenziato, munito della sola patente C, incollocabile nel nuovo assetto organizzativo, dì sporadico svolgimento di trasporti su motrici, in favore di quelli eccezionali, esigenti la patente E, di cui egli era privo, né essendo stati successivamente assunti lavoratori dotati di sola patente C.
3. Essi, congiuntamente esaminabili per ragioni di stretta connessione, sono inammissibili.
4. Non sono in discussione i principi, che vanno anzi riaffermati, dell’autonomia della scelta imprenditoriale nell’organizzazione aziendale e della configurabilità di un giustificato motivo oggettivo non necessariamente quale extrema ratio in una situazione di crisi, posto che, ai fini della legittimità del licenziamento individuale per tale ragione, l’andamento economico negativo dell’azienda non costituisce un presupposto fattuale che il datore di lavoro debba necessariamente provare, essendo sufficiente che le ragioni inerenti all’attività produttiva ed all’organizzazione del lavoro, comprese quelle dirette ad una migliore efficienza gestionale ovvero ad un incremento della redditività, determinino un effettivo mutamento dell’assetto organizzativo attraverso la soppressione di un’individuata posizione lavorativa; ove, però, il recesso sia motivato dall’esigenza di far fronte a situazioni economiche sfavorevoli o a spese di carattere straordinario, ed in giudizio se ne accerti in concreto l’inesistenza, il licenziamento risulterà ingiustificato per la mancanza di veridicità e la pretestuosità della causale addotta (Cass. 7 dicembre 2016, n. 25021; Cass. 3 maggio 2017, n. 10699; Cass. 20 ottobre 2017, n. 24882); senza però attribuire rilievo all’assenza di effettive motivazioni economiche, perché ciò integrerebbe una insindacabile valutazione di scelte imprenditoriali, che si pone in violazione dell’art. 41 Cost. (Cass. 20 luglio 2020, n. 15400).
4.1. In specifico riferimento al secondo motivo, occorre rilevare che la violazione delle norme costituzionali non può essere prospettata direttamente come motivo di ricorso per cassazione a norma dell’art. 360, primo comma, n. 3 c.p.c., in quanto il contrasto tra la decisione impugnata e i parametri costituzionali, realizzandosi sempre per il tramite dell’applicazione di una norma di legge, deve essere portato ad emersione mediante l’eccezione di illegittimità costituzionale della norma applicata (Cass. s.u. 12 novembre 2020, n. 25573).
4.2. Entrambi i motivi sono generici, in violazione della prescrizione dell’art. 366, primo comma, n. 4 c.p.c., perché non confutano (Cass. 3 luglio 2008, n. 18202; Cass. 19 agosto 2009, n. 18421; Cass. 22 settembre 2014, n. 19959; Cass. 23 gennaio 2019, n. 1845) la ragione decisoria, essenzialmente individuata nella mancata offerta di una collocazione alternativa al lavoratore, a fronte del mantenimento di altri autisti, come lui dotati di patente C, cui è stato invece consentito di conseguire la patente E (ultimi due capoversi di pg. 4 della sentenza): e pertanto di prova dell’impossibilità di “repechage”, elemento costitutivo del licenziamento per giustificato motivo oggettivo (Cass. 2 maggio 2018, n. 10435; Cass. 11 novembre 2019, n. 29102: entrambe in specifico riferimento alla inclusione nel requisito della “manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento” previsto dall’art. 18, quarto comma I. 300/1970, come novellato dalla I. 92/2012).
Ciò che appunto ne integra il difetto di specificità ritenuto, per la concorrenza (e non già l’autonomia decisoria di ciascuna così da non integrare una doppia ratio decidendi) di entrambe le ragioni (esigenza di riassetto organizzativo e impossibilità di “repechage”) a giustificare obiettivamente il licenziamento intimato.
5. Con il terzo motivo, la ricorrente deduce violazione dell’art. 116 c.p.c., per illogico esercizio del prudente apprezzamento, per contraddittorietà interna ed esterna, nella valutazione delle prove testimoniali in riferimento agli elementi per la ravvisata insussistenza di legittimità del licenziamento (calo del fatturato, sostituzione del lavoratore da altri nelle sue mansioni), nella prospettiva di una diversa organizzazione aziendale.
6. Anch’esso è inammissibile.
7. Non si configura una pertinente denuncia di violazione dell’art. 116 c.p.c. (norma che sancisce il principio della libera valutazione delle prove, salva diversa previsione legale), idonea ad integrare il vizio di error in procedendo solo quando il giudice di merito disattenda tale principio in assenza di una deroga normativamente prevista, ovvero all’opposto valuti secondo prudente apprezzamento una prova o risultanza probatoria soggetta ad un diverso regime (Cass. 10 giugno 2016, n. 11892): operando poi, quanto alla valutazione delle prove, il principio del libero convincimento interamente sul piano dell’apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità, sicché la denuncia di violazione delle predette regole da parte del giudice del merito non configura vizio di violazione o falsa applicazione di norme processuali, sussumibile nella fattispecie prevista dall’art. 360, primo comma, n. 4 c.p.c., bensì errore di fatto, da censurare attraverso il corretto paradigma normativo del difetto di motivazione, e dunque nei limiti consentiti dal novellato testo dell’art. 360, primo comma, n. 5 c.p.c. (Cass. 12 ottobre 2017, n. 23940).
8. Dalle superiori argomentazioni discende allora l’inammissibilità del ricorso, con la regolazione delle spese del giudizio secondo il regime di soccombenza e distrazione al difensore anticipatario, secondo la sua richiesta, con raddoppio del contributo unificato, ove spettante nella ricorrenza dei presupposti processuali (Cass. s.u. 20 settembre 2019, n. 23535).
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la società alla rifusione, in favore dei controricorrenti, delle spese del giudizio, che liquida in € 200,00 per esborsi e € 5.000,00 per compensi professionali, oltre rimborso per spese generali 15% e accessori di legge, con distrazione al difensore antistatario.
Ai sensi dell’art. 13 comma 1 quater del d.p.r. n. 115 del 2002, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte della ricorrente, dell’ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per il ricorso, a norma del comma 1 bis, dello stesso art. 13, se dovuto.
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