CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 28 gennaio 2020, n. 1887
INPS – Fondo di garanzia – TFR maturato – Accertamento dell’assoggettabilità a fallimento di un imprenditore commerciale – Previo conseguimento di un titolo esecutivo nei confronti del datore di lavoro insolvente
Fatti di causa
Con sentenza depositata il 12.12.2017, la Corte d’appello di Bologna, in riforma della pronuncia di primo grado, ha condannato l’INPS, quale gestore del Fondo di garanzia, a corrispondere a P.G. il TFR maturato per il rapporto di lavoro alle dipendenze di In T.P.S. s.r.l..
La Corte, in particolare, ha ritenuto che l’accertamento dell’assoggettabilità a fallimento di un imprenditore commerciale potesse essere effettuato, ai fini dell’intervento del Fondo di garanzia, anche al di fuori della competente sede fallimentare e che, ai fini dell’obbligo del Fondo di corrispondere il TFR, non fosse in specie necessaria né la preventiva formazione di un titolo esecutivo nei confronti del datore di lavoro né il previo esperimento di una qualche procedura esecutiva, da ritenersi superflui in ragione della sopraggiunta cancellazione della società dal registro delle imprese senza che risultasse alcuna distribuzione di somme ai soci.
Per la cassazione di tale sentenza ricorre l’INPS con due motivi. P.G. ha resistito con controricorso. Entrambe le parti hanno depositato memoria.
Ragioni della decisione
Con il primo motivo, il ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione degli artt. 2, 2° e 5° comma, l. n.. 297/1982, 1, comma 2°, 15, comma 4° e 22, I. fall., e 1, d.lgs. n. 169/2007, anche in relazione all’art. 2697 c.c., per avere la Corte di merito ritenuto che l’accertamento della non assoggettabilità a fallimento di un imprenditore commerciale potesse essere effettuato, ai fini dell’intervento del Fondo di garanzia, anche al di fuori della competente sede fallimentare.
Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta violazione e falsa applicazione dell’art. 2, commi l°-5°, l. n.. 297/1982, anche in relazione all’art. 410 c.p.c., per avere la Corte territoriale ritenuto possibile l’intervento del Fondo di garanzia anche in assenza della preventiva formazione di un titolo esecutivo nei confronti del datore di lavoro e del previo esperimento di una qualche procedura esecutiva, considerati superflui in ragione della sopraggiunta cancellazione della società dal registro delle imprese senza che risultasse alcuna distribuzione di somme ai soci.
Ciò posto, il primo motivo è infondato.
Benché questa Corte abbia recentemente affermato che la verifica da parte del tribunale fallimentare della non assoggettabilità a fallimento dell’imprenditore, ex art. 15, ult. co., l. fall., costituisca un presupposto necessario, unitamente alla insufficienza delle garanzie patrimoniali a seguito dell’esperimento dell’esecuzione forzata, per l’accesso alle prestazioni del Fondo per il pagamento del TFR e dei crediti di lavoro di cui all’art. 2, l. n.. 297/1982 (Cass. nn. 21734 del 2018, cui ha dato continuità Cass. n. 3667 del 2019), reputa il Collegio che l’anzidetto orientamento non possa essere condiviso in ragione del principio generale desumibile dalla previsione di cui all’art. 34 c.p.c., secondo cui il giudice adito procede in via incidentale a tutti gli accertamenti preliminari rispetto alla risoluzione della controversia pendente innanzi a sé, salvo che, «per legge o per esplicita domanda di una delle parti», sia necessario «decidere con efficacia di giudicato una questione pregiudiziale che appartiene alla competenza per materia o per valore alla competenza di un giudice superiore», nel qual caso «rimette tutta la causa a quest’ultimo, assegnando alle parti un termine perentorio per la riassunzione della causa davanti a lui».
Va premesso, al riguardo, che questa Corte ha ormai consolidato il principio di diritto secondo cui le prestazioni erogate dal Fondo di garanzia gestito dall’INPS hanno natura previdenziale e non retributiva (così, tra le più recenti, Cass. n. 25016 del 2017): si tratta infatti di obbligazioni affatto autonome rispetto a quelle gravanti sul datore di lavoro e inserite nell’ambito di un rapporto assicurativo contributivo- previdenziale, ancorché nella loro misura coincidenti, per ciò che specialmente riguarda il TFR, con le obbligazioni di cui è debitore il datore di lavoro, di talché il loro sorgere è connesso ad un fatto costitutivo differente rispetto a quello che ne media la genesi nell’ambito del rapporto di lavoro.
Più precisamente, per ciò che riguarda il pagamento del TFR (rectius: della prestazione previdenziale modulata sul TFR spettante al lavoratore assicurato), tale fatto costitutivo consiste non già nella cessazione del rapporto di lavoro, ma nel verificarsi dei presupposti previsti dall’art. 2, l. n.. 297/1982, che sono rispettivamente, da un lato, la verifica del credito del lavoratore mediante l’insinuazione al passivo del fallimento del datore di lavoro (art. 2, commi 2° ss.) e, dall’altro lato, qualora il datore di lavoro non sia soggetto alle disposizioni della legge fallimentare, il previo esperimento dell’esecuzione forzata per la realizzazione del credito, da cui risulti l’insufficienza, totale o parziale, delle garanzie patrimoniali del datore di lavoro stesso (art. 2, comma 5°).
Con riguardo a tale ultima fattispecie, che è quella che rileva ai fini del presente giudizio, questa Corte ha precisato che l’espressione «non soggetto alle disposizioni del R.D. 16 marzo 1942, n. 267», di cui all’art. 2, comma 5°, cit., va interpretata nel senso che l’azione nei confronti del Fondo di garanzia deve trovare ingresso quante volte il datore di lavoro non sia assoggettato a fallimento, vuoi perché appartenente ad una categoria di imprenditori non sottoponibili neanche in abstracto ad una procedura concorsuale, vuoi perché, in concreto, il fallimento non è o non è più esperibile per ragioni oggettive (cfr. fra le più recenti, Cass. n. 24767 del 2017), tra le quali rilevano adesso quelle di cui all’art. 1, comma 2°, I. fall., nel testo modificato dall’art. 1, comma 1, d.lgs. n. 169/2007.
Ciò premesso, è evidente che, rispetto alla domanda giudiziale concernente la prestazione previdenziale cui è tenuto il Fondo di garanzia, la verifica della non assoggettabilità del datore di lavoro alle procedure concorsuali costituisce una tipica questione pregiudiziale in senso logico, che nessuna norma di legge impone che debba essere definita con efficacia di giudicato; di più, è una questione che nessuna delle parti del processo potrebbe validamente chiedere che sia decisa con efficacia di giudicato, dal momento che, svolgendosi la controversia previdenziale tra il lavoratore assicurato e l’ente previdenziale chiamato al pagamento ed essendo il datore di lavoro terzo estraneo a tale vicenda, l’accertamento che in essa dovesse essere compiuto circa la sua non assoggettabilità a fallimento non potrebbe mai far stato nei suoi confronti, in considerazione dei limiti soggettivi del giudicato stesso.
Non induce a diverse conclusioni l’argomentazione di Cass. n. 21734 del 2018, cit., che, al fine di affermare il necessario previo adito del giudice fallimentare, valorizza la circostanza che determinate situazioni che in concreto legittimerebbero l’esclusione della procedura concorsuale (quali, nel caso ivi deciso, «una soglia di rilevanza dell’insolvenza riferita all’indebitamento complessivo dell’impresa e non alla posizione del creditore istante per il fallimento») possono essere accertate soltanto in sede fallimentare, cioè con il concorso degli altri creditori: questo è piuttosto un problema di prova, nel senso che, ad es., non si potrebbe ritenere provata la non assoggettabilità a fallimento di un imprenditore commerciale sulla base della mera allegazione, da parte del lavoratore assicurato che chieda l’intervento del Fondo, di un credito di importo inferiore alla soglia definita dall’art. 15, ult. co., l. fall.; in questo senso, anzi, va senz’altro rimarcato che il lavoratore assicurato, che adducendo una situazione di concreta non assoggettabilità al fallimento del proprio datore di lavoro chieda l’intervento del Fondo di garanzia, resta pur sempre onerato della prova delle circostanze costitutive del fatto che ha dato luogo al sorgere del rapporto previdenziale, tra le quali appunto la non assoggettabilità a fallimento del proprio datore di lavoro, sia essa predicabile in abstracto o in concreto, e il mancato o insufficiente assolvimento di tale onere non potrà che comportare il rigetto della domanda.
Nel caso di specie, tuttavia, l’INPS non ha contestato la bontà dell’accertamento eseguito dal giudice di merito circa la non ricorrenza in concreto delle condizioni per l’assoggettabilità a fallimento della datrice di lavoro dell’odierna controricorrente, ma ha censurato che a tale accertamento avesse proceduto il giudice adito, piuttosto che il tribunale fallimentare: e in tali termini, come anzidetto, la censura è infondata e va senz’altro rigettata.
E’ fondato, viceversa, il secondo motivo.
Come premesso in fatto, la Corte territoriale ha ritenuto sul punto l’inutilità del previo esperimento di una qualsiasi procedura esecutiva (e, prima ancora, ancorché implicitamente, l’inutilità che l’odierna contro ricorrente si munisse di un titolo esecutivo nei confronti della propria datrice di lavoro) sul presupposto che «la società, a brevissima distanza dalla cessazione del rapporto di lavoro, è stata – in data 14/11/2012 – cancellata dal registro delle imprese senza che risulti la distribuzione di somme ai soci e senza che risulti nel breve arco di tempo dalla fine del rapporto di lavoro (30/5/2012) e detta cancellazione la concreta possibilità da parte della lavoratrice di intraprendere procedure esecutive ragionevolmente non aleatorie né infruttuose» (così la sentenza impugnata, pag. 7); di conseguenza, dato atto dell’«inutile esperimento del tentativo di conciliazione» nei confronti della datrice di lavoro (ibid.) e della mancata contestazione da parte dell’INPS dell’an e del quantum del credito per TFR, ha condannato l’Istituto al pagamento della corrispondente prestazione previdenziale.
Sennonché, indipendentemente dalla questione, logicamente successiva, della necessità o meno dell’esperimento di una procedura esecutiva (circa la quale valga comunque qui richiamare il principio di diritto statuito da Cass. n. 17593 del 2016 e succ. conf.), va rimarcato che nel sistema delineato dall’art. 2, l. n.. 297/1982, il previo conseguimento di un titolo esecutivo nei confronti del datore di lavoro insolvente costituisce un presupposto non solo letteralmente, ma anche logicamente necessario, giacché l’accertamento giurisdizionale della misura del TFR dovuto in esito all’ammissione allo stato passivo ovvero la sua consacrazione in un titolo esecutivo conseguito nei confronti del datore di lavoro rappresentano la modalità necessaria per l’individuazione della misura stessa dell’intervento solidaristico del Fondo di garanzia, essendo l’ente previdenziale terzo rispetto al rapporto di lavoro inter partes ed essendo nondimeno la sua obbligazione modulata sul TFR maturato in costanza di rapporto di lavoro. Proprio per ciò, nessun rilievo può avere in casi del genere un’eventuale non contestazione da parte dell’INPS dell’an e del quantum del TFR dovuto al lavoratore, non esistendo in generale alcun onere di contestazione di fatti che siano ignoti alla parte (così, da ult., Cass. n. 87 del 2019).
Si aggiunga che contrari argomenti non possono trarsi da Cass. nn. 11379 del 2008, 9108 del 2007 e 14447 del 2004, che pure si menzionano nella sentenza impugnata a sostegno della tesi qui oggetto di censura: ciò che in quei casi è stato escluso, in dipendenza delle loro peculiarità, è la necessità del preventivo esperimento di un’azione esecutiva di volta in volta mobiliare o immobiliare, non anche la necessità che il lavoratore assicurato si munisca di un titolo esecutivo nei confronti del proprio datore di lavoro.
Pertanto, non essendosi la Corte di merito uniformata al superiore principio di diritto, la sentenza impugnata va cassata e la causa rinviata per nuovo esame alla Corte d’appello di Bologna, in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del giudizio di cassazione.
P.Q.M.
Accoglie il secondo motivo di ricorso, rigettato il primo. Cassa la sentenza impugnata e rinvia la causa alla Corte d’appello di Bologna, in diversa composizione, che provvederà anche sulle spese del giudizio di cassazione.
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