CORTE DI CASSAZIONE – Sentenza 28 ottobre 2015, n. 21953
Compensi agli amministratori – Necessaria la delibera per la deducibilità – In alternativa, i corrispettivi devono essere stabiliti nello statuto della società
Svolgimento del processo
V. s.r.l., società controllata da CLF & Co s.p.a. attraverso la partecipazione da questa detenuta in F. s.p.a., portava in deduzione nell’esercizio di competenza relativo all’anno 2003 i costi sostenuti per il pagamento dei compensi ad alcuni componenti del Consiglio di amministrazione, fatturati da tre società del Gruppo di imprese per conto delle quali dette persone fisiche avevano svolto l’incarico.
L’Ufficio di Viareggio con avviso di accertamento recuperava a tassazione IRPEG ed IVA tali costi, ritenuti indeducibili in quanto non determinati nello Statuto né deliberati preventivamente dall’assemblea di V. s.r.l. in violazione dell’art. 2389 c.c. e dunque da considerarsi “non certi nell’esistenza e neppure obiettivamente determinabili” come richiesto dall’art. 75 (attuale art. 109) TUIR e dall’art. 19 Dpr n. 633/72.
La Commissione tributaria provinciale di Lucca, adita con ricorso proposto dalla società contribuente, con decisione n. 65/2006 annullava l’atto impositivo.
La Commissione tributaria della regione Toscana, con sentenza 18.6.2008 n. 56, confermava la decisione di primo grado, rigettando l’appello principale dell’Ufficio di Viareggio della Agenzia delle Entrate e l’appello incidentale della società.
I Giudici di secondo grado rilevavano che non vi erano impedimenti alla determinazione “ex post” del compenso degli amministratori disposta con la delibera assembleare di approvazione del bilancio di chiusura dell’esercizio, e che in assenza di contestazione da parte dell’Ufficio finanziario in ordine alla congruità della spesa, la inerenza del costo e dunque la sua deducibilità da parte della società contribuente non veniva meno, essendo irrilevante la relazione di controllo societario, e la appartenenza di V. s.r.l. ad gruppo di imprese, tenuto conto che in entrambi i casi permaneva la distinzione di soggettività giuridica tra le diverse società appartenenti al gruppo e tra la società controllante e quella controllata, essendo del tutto indifferente alla disciplina fiscale che gli amministratori fossero stati o meno nominati direttamente dalla Capogruppo o dalle società per conto delle quali gli stessi operavano, così come era del tutto indifferente che i compensi fossero stati versati direttamente alle società anziché alle persone fisiche, atteso che in ogni caso i pagamenti eseguiti venivano a configurarsi per la società contribuente come costi inerenti e quindi deducibili.
Correttamente, inoltre, i primi Giudici avevano ritenuta dovuta l’IVA sui compensi agli amministratori, in quanto corrispettivi per “prestazioni di servizi” rese dalle società del Gruppo che avevano emesso le fatture e per conto delle quali gli amministratori avevano svolto l’incarico presso la società contribuente, con conseguente inapplicabilità della disposizione dell’art. 5 co 2 Dpr n. 633/72 che poneva fuori campo IVA le collaborazioni coordinate e continuative di cui all’art. 53 TUIR.
La sentenza di appello, non notificata, è stata tempestivamente impugnata per cassazione dalla Agenzia delle Entrate con tre motivi, deducendo vizi di motivazione e vizi di violazione di norme di diritto.
Resiste con controricorso la società.
Motivi della decisione
Con il primo motivo la Agenzia fiscale deduce il vizio di violazione dell’art. 75 TUIR e dell’art. 2389 c.c., nel testo vigente “ratione temporis”, in relazione all’art. 360 co 1 n. 3 c.p.c.
Sostiene la Agenzia ricorrente che la determinazione dei compensi assunta soltanto con delibera assembleare di approvazione del bilancio di chiusura esercizio 2003, sarebbe da ritenersi invalida (come affermato dalla sentenza di questa Corte resa a SS.UU. n. 21933/2008) rifluendo tale invalidità sulla indeducibilità del relativo costo, per difetto dei requisiti di certezza e determinabilità richiesti dall’art. 75 TUIR.
Tanto è sufficiente a ritenere infondata la eccezione di inammissibilità del motivo per difetto di autosufficienza e carenza di interesse alla impugnazione.
Il motivo è fondato.
Occorre premettere in fatto che, secondo quanto emerge dalla sentenza della CTP n. 65/2006 (trascritta a pag. 5-6 del ricorso per cassazione), società appartenenti ad un medesimo gruppo, e precisamente F. s.a.s di F.S., E. s.r.l. -poi CLF & co. s.p.a.- e Z. s.r.l. (le quali detengono partecipazioni di controllo in F. s.r.l. che a sua volta esercita il controllo sulla contribuente V. s.r.l.), hanno designato alcuni componenti nel consiglio di amministrazione di V. s.r.l. ed hanno quindi emesso fatture n. 1 in data 3.3.2003 (F.), n. 1 in data 9.12.2003 (E.), e n. 4 in data 9.12.2003 (Z.) nei confronti di V. s.r.l., determinando il compenso dovuto dalla controllata in relazione all’attività svolta dalla persona fisica che aveva assunto l’incarico di consigliere di amministrazione. La società controllata ha approvato i compensi fatturati con la delibera dell’assemblea di approvazione del bilancio relativo all’anno 2003, ed ha provveduto a versare le somme fatturate, portando in deduzione i relativi costi dal reddito d’impresa e detraendo l’IVA liquidata nelle fatture e versata in rivalsa. Osserva il Collegio che le norme che regolavano la materia, nel testo anteriore alla riforma del diritto societario introdotta dal Dlgs 17.1.2003 n. 6, prevedevano, ai sensi dell’art. 2364 co 1, n. 3), c.c. (applicabile anche alle società a responsabilità limitata, in virtù dell’espresso rinvio contenuto nell’art. 2486 co 2 c.c.), che l’assemblea “determina il compenso degli amministratori e dei sindaci, se non è stabilito nell’atto costitutivo”, mentre l’art. 2389 c.c., al comma 1 (applicabile anche alle società a responsabilità limitata, in virtù dell’espresso rinvio contenuto nell’art. 2487 co 2 c.c.), disponeva che “i compensi spettanti ai membri del consiglio di amministrazione e del comitato esecutivo sono stabiliti nell’atto costitutivo o dall’assemblea”.
La modifica di tali norme, in seguito alla riforma del D.lgs. n. 6/2003 entrata in vigore l’1.1.2004, non ha apportato significativi mutamenti, essendo attualmente prevista dall’art. 2364 co 1, n.3), c.c., la competenza a deliberare della assemblea ove il compenso non sia stato stabilito nello “statuto”, e disponendo l’art. 2389 co 1 c.c. che il compenso deve essere stabilito nell’atto costitutivo o “all’atto della nomina” deliberata dalla assemblea ordinaria dei soci ex art. 2383 co 1 c.c. (ovvero “all’atto della nomina” del componente del consiglio di amministrazione o del componente del comitato esecutivo da parte dei soggetti estranei alla società, indicati nell’art. 2383 co 1 c.c.: a) soggetti titolari di strumenti finanziari di cui agli artt. 2346 co 6 e 2349 co 2 c.c.: nomina di un componente indipendente – art. 2351 co 4 c.c.; b) art. 2449 c.c.: nomina da parte di Stato od enti pubblici con partecipazioni azionarie in società per azioni che non fanno ricorso al mercato del capitale di rischio).
A seguito della riforma del diritto societario, le norme che disciplinano la “amministrazione” (artt. 2475-2476 c.c.) e le “decisioni dei soci” (artt. 2479-2479 ter c.c.) nelle società a responsabilità limitata, non contengono più il precedente rinvio disposto dagli artt. 2486 e 2487 c.c. alle norme di cui agli artt. 2364 e 2389 c.c. in materia di società per azioni: tale soluzione trova giustificazione nella maggiore snellezza della organizzazione e del funzionamento che il Legislatore ha inteso riconoscere alla società a responsabilità limitata (attraverso una tendenziale maggiore rilevanza attribuita all’”elemento personale” dell’ente collettivo: significativa è la disposizione dell’art. 2475 co 1 c.c. che prevede, salva espressa deroga disposta nell’atto costituivo, la nomina alla carica di amministratore di uno o più soci), privilegiando le disposizioni pattizie, rispetto alle quali le norme di legge assumono efficacia suppletiva, venendo meno, pertanto, non evidentemente la necessità della previsione, nell’atto costitutivo (art. 2463 co 2 nn. 7) ed 8) c.c.) ovvero con delibera assembleare (artt. 2475 co 1 e 2479 co 2, n. 2) c.c.), della nomina degli amministratori e della determinazione dei relativi compensi, quanto piuttosto -in considerazione della natura più immediata e diretta che caratterizza la partecipazione personale dei soci all’attività sociale della “nuova” società a responsabilità limitata- la esigenza di tutela dei diritti patrimoniali dei soci -che invece sussiste nelle società per azioni in cui è netta la separazione tra amministrazione e partecipazione al capitale- che richiede la apposita previsione di forme vincolate nell’esercizio dei poteri che possono comportare l’assunzione di oneri patrimoniali particolarmente onerosi per la società e che, l’art. 2389 c.c. continua, pertanto, ad imporre, anche nel testo riformato, per la determinazione dei compensi degli amministratori nelle società per azioni, e cioè la necessità che l’assemblea dei soci sia convocata a deliberare specificamente su tale oggetto.
Orbene non pare dubbio che, essendo costituita la contribuente nella forma della società a responsabilità limitata, l’Ufficio finanziario contestando la violazione dell’art. 2389 c.c., nella interpretazione che di tale norma ha fornito questa Corte con la sentenza resa a SS.UU. in data 29.8.2008 n. 21933, ha ritenuto applicabile alla fattispecie la disciplina normativa delle società vigente nell’anno 2003, cui si riferiva la spesa sostenuta dalla contribuente, ed in relazione alla normativa previgente ha, infatti, svolto le proprie difese criticando la statuizione del Giudice tributario, risultando pertanto irrilevante “ratione temporis” la sopravvenuta inapplicabilità dell’art. 2389 c.c. alle società a responsabilità limitata e dovendo, quindi, ritenersi assoggettata la delibera di approvazione del bilancio di esercizio 2003 con contestuale determinazione dei compensi degli amministratori esclusivamente alla “relativa disciplina statutaria e di legge vigente alla data del 31 dicembre 2003”, ai sensi dell’art. 223-bis, comma 3, disp. att. c.c. (inserito dall’art. 9 Dlgs n. 6/2003 e successivamente modificato dall’art. 5, Dlgs 6.2.2004 n. 37).
Tanto premesso la designazione, da parte di società del gruppo che esercitano indirettamente il controllo su V. s.r.l., delle persone nominate nel consiglio di amministrazione di tale società, non assume rilevanza in ordine alla questione controversa, come sembrerebbe, invece, ritenere l’Agenzia fiscale che, argomentando “ad abundantiam”, richiama anche la disposizione dell’art. 2475 co 1 c.c. nel testo riformato (secondo cui nelle società a responsabilità limitata “l’amministrazione….è affidata ad uno o più soci nominati con decisione dei soci presa ai sensi dell’art. 2479”), per prospettare la invalidità della assunzione della carica di amministratore da parte di persone fisiche estranee alla composizione sociale della V. s.r.l. ed espressione di altre società del Gruppo di imprese: ed infatti, da un lato, per le ragioni suddette la norma introdotta dal Dlgs n. 6/2003 non trova applicazione “ratione temporis” alla fattispecie; dall’altro la questione prospettata, anche considerando la disposizione del previgente art. 2487 co 1 c.c. (di identico tenore), non considera che la norma è ed era derogabile (“Salvo diversa disposizione dell’atto costitutivo…”) e dalla lettura della sentenza di appello risulta che “….la funzione di controllo ed organizzazione aziendale nelle società del gruppo è infatti espressamente prevista nell’oggetto sociale…” (idest: nell’atto costitutivo di V. s.r.l. è espressamente contemplata la possibilità di nomina di amministratori estranei alla composizione sociale), essendo quindi del tutto legittima la nomina alla carica sociale di persone estranee alla compagine sociale e designate da altre società del Gruppo.
La violazione dell’art. 2389 c.c., inficia invece in modo insanabile la validità della delibera assembleare di approvazione del bilancio nella parte in cui approva la determinazione dei compensi degli amministratori -liquidati con fatture emesse dalle società “designanti” nel corso dell’anno 2003 (in data dal 3.3.2003 al 9.12.2003: cfr. ricorso cass. pag. 17-18)- attesa la interpretazione che di tale norma ha fornito questa Corte, nella richiamata sentenza a sezioni unite. La esigenza di una espressa previsione statutaria o di una specifica delibera assembleare avente ad oggetto la determinazione dei compensi degli amministratori, nel regime normativo antevigente la riforma del D.lgs. n. 6/2003, è stata, infatti, ritenuta funzionale a garantire la piena trasparenza e la previa conoscenza di tutti i soci della relativa voce di spesa, in quanto elemento essenziale del rapporto fiduciario che presiede all’affidamento dell’incarico di amministrazione, esigenza che si ritiene soddisfatta soltanto attraverso la previsione di una specifica manifestazione volitiva dell’assemblea dei soci diretta alla assunzione dell’onere patrimoniale connesso al funzionamento dell’organo di direzione della società. Ne segue che debbono essere sanzionati con la invalidità gli atti degli organi societari diversi dalla delibera della assemblea, così come la delibera assembleare assunta in modo difforme dalla previsione dell’art. 2389 c.c., in quanto avente ad oggetto questioni estranee alla attribuzione dei compensi agli amministratori, come nel caso di specie, in cui la liquidazione delle somme da erogare agli amministratori sia meramente indicata in una delle voci di spesa del bilancio di chiusura esercizio presentato alla approvazione dell’assemblea.
Il vizio di invalidità (limitato alla determinazione dei compensi) della delibera assembleare di approvazione del bilancio assunta in violazione dell’art. 2389 c.c., non deve ricondursi nella categoria del vizio di invalidità-annullabilità ex art. 2377 co 2 c.c. (che può essere opposto soltanto dai soggetti legittimati, ed è suscettibile di convalida), né in quella del vizio di invalidità-nullità ex art. 2379 c.c. concernente la “impossibilità od illiceità dell’oggetto” (che può essere fatta valere da chiunque vi abbia interesse ed è rilevabile anche d’ufficio), ma nella nullità generale di cui all’art. 1418, comma 1, c.c. per contrarietà a norma imperativa, in quanto “la disciplina di cui all’art. 2389 c.c. (dettata in continuità con l’orientamento legislativo tradizionale, risalente all’art. 154, n. 4 del codice di commercio del 1882) ha certamente natura imperativa e inderogabile, sia perché, in generale, la disciplina della struttura e del funzionamento delle società regolari sono dettate (anche) nell’interesse pubblico al regolare svolgimento dell’attività commerciale e industriale del Paese, sia perché, in particolare, la loro violazione, in particolare la percezione di compensi non previamente deliberati dall’assemblea, era prevista dall’art. 2630 c.c., comma 2, n. 1 (abrogato dal D.Lgs. 11 aprile 2002, n. 61, art. 1) come delitto che non poteva certo essere scriminato dalla approvazione del bilancio successiva alla consumazione. È pertanto evidente che la violazione dell’art. 2389 c.c., sul piano civilistico, da luogo a nullità degli atti di autodeterminazione dei compensi da parte degli amministratori per violazione di norma imperativa, nullità che, per il principio stabilito dall’art. 1423 c.c., non è suscettibile di convalida, in mancanza di una norma espressa che disponga diversamente” (cfr. Corte cass. Sez. U, Sentenza n. 21933 del 29/08/2008, in motivazione).
La oggettiva distinzione della delibera assembleare di determinazione dei compensi rispetto a quella di approvazione di bilancio trova, peraltro, diretto riscontro nell’art. 2364 co 1 c.c. che contempla separatamente, rispettivamente al n. 1) ed al n. 3), le due distinte materie riservate alla competenza esclusiva della assemblea ordinaria dei soci.
Le conclusioni cui sono pervenute le SS.UU., dalle quali il Collegio non intende discostarsi in mancanza di elementi che inducano ad una nuova riflessione, configurano, pertanto, nel caso di specie una sostanziale violazione delle competenze attribuite alla assemblea generale dei soci (organo societario attraverso il quale si realizza la garanzia della tutela della minoranza), e dunque una difformità assoluta dallo schema legale del procedimento di formazione della volontà dell’ente collettivo (come ripetutamente affermato dalla giurisprudenza di legittimità, secondo cui “la delibera assembleare costituisce modo formale e inderogabile di espressione della volontà della società di cui non sono ammessi equipollenti” e pertanto l’atto negoziale adottato in difformità è affetto da “nullità assoluta ed insanabile”: Corte cass. Sez, 1, Sentenza n. 10869 del 01/10/1999; id. Sez. 1, Sentenza n. 9901 del 24/04/2007; id. Sez. L, Sentenza n. 14963 del 07/07/2011, con riferimento all’atto transattivo avente ad oggetto la responsabilità del precedente amministratore, stipulato in mancanza della delibera dell’assemblea cui è attribuita competenza esclusiva dall’art. 2393 co 2c.c. nel testo precedente e successivo alla riforma del diritto societario), atteso che la entità del compenso viene -di fatto- ad essere (auto)determinata dagli stessi amministratori (dovendo esclusivamente ad essi imputarsi la redazione del bilancio), non potendo l’ammontare del compenso fatturato in alcun modo ricondursi alla volontà della assemblea, fatta salva la sola eccezione in cui venga fornita “la prova che, approvando il bilancio, l’assemblea sia a conoscenza del vizio e abbia manifestato la volontà di far proprio l’atto posto in essere dall’organo privo di potere, non essendo invece sufficiente, in quanto circostanza non univoca, la generica delibera di approvazione” del bilancio: il procedimento di formazione della volontà assembleare, in materia di determinazione dei compensi degli amministratori, potrebbe quindi essere riconosciuto valido -nel caso in cui il compenso fosse stato liquidato in sede di delibera di approvazione del bilancio di chiusura dell’esercizio annuale- soltanto se un’assemblea totalitaria fosse stata chiamata a discutere, in tale occasione, anche su tale specifico argomento posto all’ordine del giorno (cfr. Corte cass. Sez. U, Sentenza n. 21933 del 29/08/2008).
Orbene è incontestato che, nel caso di specie, non è stata fornita prova alcuna che in sede di convocazione dell’assemblea dei soci V. s.r.l., indetta per l’approvazione del bilancio esercizio 2003, fosse stata specificamente inserita tra gli oggetti posti all’ordine del giorno anche la determinazione del compenso da liquidare agli amministratori o che tale questione fosse stata, comunque, espressamente discussa in un’assemblea che prevedeva la partecipazione totalitaria dei soci: la delibera deve ritenersi, pertanto, affetta da nullità in “parte qua”.
Tanto premesso, la relazione che intercorre tra il vizio di invalidità della delibera assembleare ed i requisiti di deducibilità del costo dal reddito d’impresa nell’esercizio di competenza previsti dall’art. 75 TUIR (nel testo anteriore alla rinumerazione introdotta dal Dlgs n. 344/2003, attuale art. 109 TUIR: non sono deducibili dal reddito le spese e gli altri componenti negativi dei quali “nell’esercizio di competenza non sia ancora certa la esistenza o determinabile in modo obiettivo l’ammontare”), questione cui è strettamente connessa anche quella della indetraibilità dell’IVA liquidata nelle fatture emesse dalle società indirettamente controllanti, non deve essere rinvenuta -diversamente da quanto sostiene la Agenzia fiscale- nella funzione “antielusiva” svolta dall’art. 2389 c.c., tale per cui la violazione della norma integrerebbe ex se una “condotta abusiva” del contribuente, ovvero nell’elemento ritenuto sintomatico dell’affidamento degli incarichi di amministrazione a persone estranee alla compagine sociale, in difformità dalla prescrizione dell’art. 2487 co 1 c.c. (secondo cui nelle società a responsabilità limitata “salvo diversa disposizione dell’atto costitutivo l’amministrazione della società deve essere affidata ad uno o più socì). Quanto al primo aspetto è sufficiente osservare come la funzione antielusiva della imposta sia del tutto estranea alla “ratio legis” che presiede alla sanzione di nullità di diritto civile di cui all’art. 2389 c.c. e che si rivolge, piuttosto, a tutelare la inderogabilità delle norme che regolano il procedimento formativo della volontà dell’ente collettivo, su determinate specifiche materie riservate alla assemblea dei soci (cfr. Corte cass. SU n. 21933/2008 cit. secondo cui “la natura imperativa e inderogabile della previsione normativa, discendente dall’essere la disciplina del funzionamento delle società dettata, anche, nell’interesse pubblico al regolare svolgimento dell’attività economica”).
Relativamente al secondo argomento sostenuto dalla Agenzia fiscale, lo stesso si palesa del tutto privo di riscontri, non essendo stato neppure allegato dalla ricorrente che l’atto costitutivo di V. s.r.l. non conteneva disposizioni derogatorie alla norma dell’art. 2487 c.c.
Ne segue che, in difetto di contestazione da parte della Amministrazione finanziara di puntuali elementi circostanziali connotativi di una condotta integrante “abuso di diritto”, in quanto rivolta, in via esclusiva o assolutamente principale, ad ottenere surrettiziamente, attraverso l’impiego di strumenti negoziali formalmente leciti, il conseguimento di indebiti vantaggi fiscali (art. 37-bis, Dpr n. 600/73, con riferimento alle imposte sui redditi), né l’art. 2389 c.c., né l’art. 2487 c.c., consentono di escludere, alla stregua della legislazione vigente al tempo, che una società appartenente ad un gruppo di imprese possa “mettere a disposizione” di altra società del medesimo gruppo -della quale detenga direttamente od indirettamente il controllo- propri collaboratori o lavoratori dipendenti o persone ad essa in altro modo legate, per svolgere l’incarico di amministratore nella società controllata, ricorrendo allo schema del “distacco” di personale (laddove il contratto di lavoro del dipendente della società controllante preveda tale mansione), ovvero anche obbligandosi contrattualmente a fornire -mediante impiego del proprio personale- una “prestazione di servizi dietro pagamento di un corrispettivo” avente ad oggetto lo svolgimento del predetto incarico per un periodo determinato. Con la conseguenza che, a seconda dello schema negoziale prescelto, la società che utilizza il personale distaccato o che riceve la prestazione di servizi, sarà tenuta nei confronti della società appartenente al medesimo gruppo al rimborso della retribuzione da quest’ultima erogato al proprio dipendente ovvero al pagamento del corrispettivo, da liquidarsi rispettivamente:
a) in misura corrispondente a quella della retribuzione lavorativa o compenso di lavoro che la società controllante ha versato -durante il periodo della applicazione presso la società controllata- al proprio dipendente/collaboratore (tale ipotesi ricorre nel “distacco di personale in tal caso il beneficiario della prestazione si limita “a rimborsare” al concedente il solo costo retributivo del personale utilizzato, realizzandosi una operazione sostanzialmente neutra, che non integra prestazione di servizi dietro pagamento di un corrispettivo e dunque non è soggetta ad emissione di fattura: Corte cass. Sez. U, Sentenza n. 23021 del 07/11/2011; id. Sez. 5, Sentenza n. 13118 del 25/07/2012);
b) in misura parametrata al prezzo di mercato (non inferiore al “valore normale” ex art. 9 TUIR) dei servizi prestati dalla società controllante in favore della società controllata, venendo a configurarsi in tal caso l’impiego di personale dipendente o di collaboratori della società controllante come mera modalità di esecuzione della prestazione dedotta in obbligazione (in tal caso le somme corrisposte dalla società controllata che riceve la prestazione di servizi non sono qualificabili quali compensi pagati ad amministratori e sindaci, ma costituiscono esecuzione della controprestazione avente ad oggetto il pagamento del corrispettivo alla società controllante, integrante pertanto un’operazione assoggettata a fattura, non rilevando a tal fine il criterio di determinazione del “quantum”, che bene potrebbe essere commisurato anche al solo “sacrificio corrispondente alla mancata utilizzazione diretta del proprio personale” da parte della controllante: Corte cass. Sez 5, Sentenza n. 4291 del 23/02/2010; Corte cass. Sez. U, Sentenza n. 23021 del 07/11/2011 -che coerentemente assoggetta ad IVA la “fornitura di personale” soltanto nel caso in cui il “corrispettivo” ecceda il mero rimborso del costo/retribuzione del personale).
Escluso, pertanto, che la mera violazione dell’art. 2389 c.c. possa dare luogo “ex se” ad un fenomeno di “abuso del diritto” in materia tributaria, osserva il Collegio che l’indeducibilità – nell’esercizio anno 2003 – dei costi dal reddito imponibile ai fini IRPEG non può che rinvenirsi nella mancanza dei requisiti di certezza e determinabilità della spesa richiesti dall’art. 75 TUIR (testo applicabile ratione temporis).
Il requisito di “certezza” od esistenza della spesa ex art. 75 TUIR, deve infatti ricondursi al momento della formazione del titolo giuridico in cui trova fonte l’obbligazione patrimoniale della società (cfr. Corte cass. Sez. 5, Sentenza n. 17568 del 09/08/2007; id. Sez 6 – 5, Ordinanza n. 18237 del 24/10/2012), e nella specie il titolo in questione, indipendentemente dalla questione se il rapporto sia intercorso con le persone fisiche che hanno assunto gli incarichi sociali, ovvero -secondo la tesi accolta dai Giudici di appello- con le società del gruppo designanti che hanno esercitato i poteri di direzione e coordinamento del gruppo di imprese, è risultato affetto da vizio di invalidità insanabile, come reiteratamente affermato da questa Corte: il contratto stipulato dall’amministratore della società in materia riservata per legge o dallo statuto alla competenza dell’organo assembleare, in difetto di preventiva e valida delibera dell’assemblea dei soci, è affetto “non da mera inefficacia, secondo la disciplina dell’atto posto in essere dal rappresentante senza poteri, ovvero da mera annullabilità, in base alle regole sul difetto di capacità a contrattare, ma da nullità assoluta e insanabile, deducibile da chiunque vi abbia interesse e rilevabile d’ufficio” (cfr. Corte cass. Sez. 1, Sentenza n. 10869 del 01/10/1999; id. Sez, 1, Sentenza n. 9901 del 24/04/2007; id. Sez, L, Sentenza n. 14963 del 07/07/2011. Tale impostazione è seguita: Corte cass. Sez. U, Sentenza n. 21933 del 29/08/2008; id. Sez. 5, Sentenza n. 17673 del 19/07/2013; id. Sez. 5, Sentenza n. 20265 del 04/09/2013; id. Sez. 5, Sentenza n. 5349 del 07/03/2014).
E’ noto al Collegio che la tesi della comunicabilità del vizio di nullità della delibera dell’organo sociale al contratto stipulato dalla società con i terzi non riceve unanime consenso in dottrina, sostenendo parte di questa che i vizi concernenti i limiti del potere di gestione degli amministratori, riverberano esclusivamente nell’ambito dei rapporti sociali interni, senza incidere sull’esercizio del potere rappresentativo e cioè della manifestazione di volontà della società esplicante effetti nei rapporti esterni con i terzi.
Ma anche a volere ritenere che le persone fisiche designate dalle società controllanti abbiano effettivamente svolto i compiti di amministratore in V. s.r.l. traendo origine tale incarico (ed il conferimento dei relativi poteri) nella delibera di nomina della assemblea dei soci di V. s.r.l. (vantando quindi un diritto soggettivo perfetto al compenso nei confronti della società: Corte cass. Sez. L, Sentenza n. 8897 del 16/04/2014;id. Sez. L, Sentenza n. 23004 del 29/10/2014, secondo cui “laddove manchi una disposizione dell’atto costitutivo e l’assemblea si rifiuti o ometta di stabilirlo o lo determini in misura inadeguata, l’amministratore è abilitato a richiederne al giudice la determinazione”), ovvero nella nomina disposta direttamente dalle stesse società controllanti (qualora tale diritto fosse previsto dall’atto costitutivo o dallo statuto di V. s.r.l. o ancora da accordi vincolanti stipulati tra le società del gruppo), difetterebbe comunque -nel caso di specie- il requisito di “determinabilità in modo obiettivo dell’ammontare” della spesa.
Ed infatti se anche la invalidità della delibera assembleare, assunta in violazione dell’art. 2389 c.c., non esplicasse alcun riflesso sul requisito di “certezza” del titolo di spesa ex art. 75 TUIR, inciderebbe tuttavia direttamente sull’altro requisito della deducibilità del costo nell’esercizio di competenza.
La norma tributaria definisce il “momento” in cui vengono ad assumere rilevanza, ai fini della deducibilità, le spese relative all’acquisto di beni o servizi inerenti all’esercizio dell’attività d’impresa, specificando, quanto alle prestazioni di servizi, che “ai fini della determinazione dell’esercizio di competenza le spese di acquisizione dei servizi si considerano sostenute alla data in cui le prestazioni sono ultimate” (art. 75 co 2, lett. b) TUIR). La norma evidentemente si riferisce alle spese -indicate nel primo comma- delle quali sia “certa la esistenza” e “determinabile in modo obiettivo l’ammontare”, con la conseguenza che, ove alla chiusura dell’esercizio di competenza non sia ancora possibile quantificare l’importo dovuto a fronte della prestazione ricevuta, la deduzione dal reddito potrà essere differita al successivo esercizio in cui l’ammontare del costo venga ad essere esattamente definito, dovendo precisarsi al riguardo che la “indeterminabilità”, delle componenti negative del reddito d’impresa, non può dipendere da mere scelte rimesse alle parti e non può quindi ravvisarsi per il solo fatto che il creditore del contribuente non abbia quantificato la propria pretesa (ma questa sia comunque agevolmente determinabile secondo i criteri legali o contrattali) ovvero non abbia emesso la fattura per le prestazioni erogate, ma solo quando tale quantificazione risulti impedita da circostanze obiettive (Corte cass. Sez. 5, Sentenza n. 16819 del 30/07/2007).
Orbene la determinazione del compenso/corrispettivo per lo svolgimento di incarichi di amministrazione nella società di capitali, nel caso in cui non sia prestabilita nell’atto costitutivo ovvero in apposita delibera dell’assemblea, non può evidentemente essere compiuta unilateralmente dal creditore, ma richiede necessariamente -in base a norma imperativa- il consenso manifestato dalla società mediante una formale deliberazione dell’assemblea dei soci, essendo irrilevante al riguardo il “fatto compiuto” della appostazione in bilancio degli importi fatturati, atteso il vizio di nullità insanabile del consenso sul quantum del compenso prestato con la delibera assembleare di approvazione del bilancio, non conforme alla prescrizione dell’art. 2389 c.c.
In sostanza a chiusura dell’esercizio dell’anno 2003, V. s.r.l. esponeva un “debito certo”, nei confronti delle persone fisiche/società del gruppo, in relazione alle prestazioni ricevute, ma di ammontare non liquidabile in modo obiettivo, in difetto di qualsiasi parametro di determinabilità “ex ante” dell’importo dei compensi (al momento di cessazione dell’incarico di amministratori ovvero al momento di ultimazione delle prestazioni di servizio ed ancora alla chiusura dell’esercizio di competenza anno 2003), non risultando stabilito convenzionalmente dalle parti -nella delibera di nomina degli amministratori od in altro contratto di lavoro autonomo o di servizio stipulato inter partes – alcun criterio di calcolo, e non essendo stato determinato l’importo, anteriormente alla chiusura dell’esercizio di competenza, mediante integrazione giudiziale ai sensi dell’art. 2233 c.c. (non potendo, peraltro, neppure soccorrere il rinvio all’applicazione diretta delle tariffe professionali: Corte cass. Sez. 1, Sentenza n. 22046 del 17/10/2014 che sottrae il rapporto di immedesimazione organica tra l’amministratore e la società alla disciplina del contratto d’opera intellettuale o non intellettuale, escludendo quindi la “automatica” applicazione nella determinazione del compenso delle tariffe dei collegi professionali; conf. id. Sez. 2, Sentenza n. 22761 del 27/10/2014), con la conseguenza che il costo relativo ai compensi dovuti agli amministratori, per le prestazioni rese nell’anno 2003, rimane “indeterminabile” nel quantum, dovendo ritenersi, pertanto, legittima la contestazione dell’Ufficio in ordine alla indeducibilità dal reddito d’impresa delle somme liquidate nelle fatture emesse dalle società controllanti per difetto dei requisiti di cui all’art. 75 TUIR (su tale linea interpretativa sembrano collocarsi anche le sentenze di questa Sezione che hanno inteso escludere la deducibilità dal reddito dei compensi degli amministratori liquidati esclusivamente nel bilancio approvato dalla assemblea dei soci non totalitaria, richiamandosi al principio enunciato da SS.UU. n. 21933/2008: cfr. Corte cass. Sez. 5, Sentenza n. 17673 del 19/07/2013; id. Sez. 5, Sentenza n. 20265 del 04/09/2013; id. Sez. 5, Sentenza n. 5349 del 07/03/2014). Non assume alcuna rilevanza in contrario che il “quantum” indicato nelle fatture debba qualificarsi come “corrispettivo” di un contratto avente ad oggetto prestazioni di servizio, atteso che, in disparte l’assoluta genericità della descrizione del rapporto giuridico contenuta nelle fatture (“dare quale compenso per l’anno 2003 per la carica di … rivestita presso la Vs. spettabile società dal ns. Dott. ….”) palesemente inidonea a dimostrare quale fosse il rapporto giuridico tra le società emittenti e V. s.r.l. (la circostanza -adotta dalla CTR a sostegno della decisione- che la designazione avvenisse in base ai rapporti di direzione e coordinamento che caratterizzano il gruppo di imprese, non spiega in alcun modo se e quale rapporto giuridico obbligatorio intercorresse tra V. s.r.l. e le altre società: il diritto attribuito alle controllanti di nominare uno o più consiglieri di amministrazione, quando anche previsto nell’atto costitutivo di V. s.r.l., non comporta quale modalità necessitata di esercizio la stipula di un contratto a prestazioni corrispettive, tra la società controllata e le società controllanti, avente ad oggetto lo svolgimento dell’incarico di consigliere del CdA), non emergendo dai predetti documenti commerciali, né risultando aliunde, se la “designazione”, nel caso di specie, implicava soltanto la indicazione di una persona di fiducia da nominare nel CdA (la quale poi assumeva in nome proprio la obbligazione nei confronti di V. s.r.l. maturando il diritto al compenso), o sottintendeva, invece, la preesistenza di un rapporto di dipendenza o collaborazione, tra le persone fisiche e le società designanti, inquadrabile nello schema del rapporto di lavoro subordinato od autonomo (che avrebbe dato luogo al “distacco di personale” ovvero alla fornitura di servizi da parte delle società del gruppo). Qualora il rapporto giuridico tra V. s.r.l. e società del gruppo fosse anche da ricondurre ad un contratto di fornitura di servizi, tale qualificazione potrebbe incidere sui criteri di determinazione del “quantum”, ma non potrebbe, comunque, immutare, la natura di “compenso spettante ai membri del consiglio di amministrazione” dell’importo dovuto, con la conseguenza che anche la determinazione del “corrispettivo” deve ritenersi soggetta alle prescrizioni delle norme imperative di cui agli artt. 2364 co 1, n. 3) e 2389 co 1 c.c., non essendo consentito attraverso la stipula da parte della società controllata di un contratto di prestazioni di servizio eludere l’applicazione di norme di legge poste a tutela anche di interessi pubblici (art. 1344 c.c.).
Deve essere, pertanto, data risposta affermativa al quesito di diritto formulato in calce al primo motivo dalla Agenzia fiscale, essendo incorsa in errore di diritto la CTR ritenendo deducibile nell’esercizio di competenza (anno 2003) la spesa sostenuta da V. s.r.l. per compensi agli amministratori, sebbene difettassero i requisiti di certezza e di oggettiva determinabilità dell’ammontare del costo, richiesti dall’art. 75 TUIR, sia in considerazione della invalidità del titolo di spesa, sia in difetto di indicazione nell’atto costitutivo dei criteri di liquidazione, non essendo stato preventivamente stabilito l’importo dei compensi dalla delibera dell’assemblea dei soci, richiesta ai sensi degli artt. 2364 co 1 n. 3) e 2389 c.c. -espressamente richiamati per le società a responsabilità limitata dagli artt. 2486 co 2 e 2487co2 c.c., nel testo anteriore alla riforma del Dlgs n. 6/2003, applicabili “ratione temporis”-, e neppure essendo stata deliberata la misura dei compensi, in sede di approvazione del bilancio, a seguito di specifica discussione e con la partecipazione totalitaria dei soci. La sentenza impugnata va pertanto cassata in parte qua, rimanendo assorbito l’esame del secondo e terzo motivo, concernenti la contestazione del vizio logico della sentenza della CTR che ha riconosciuto la deducibilità dei costi ai fini IRPEG e la detraibilità dell’IVA liquidata sulle fatture contestate.
La sentenza impugnata deve in conseguenza essere cassata, in accoglimento del primo motivo di ricorso, dichiarato assorbito il secondo ed il terzo motivo e, non occorrendo svolgere accertamenti in fatto, la causa può essere decisa nel merito, ai sensi dell’art. 384 co 2 c.p.c., con il rigetto del ricorso introduttivo proposto dalla contribuente.
In difetto di rituale proposizione del ricorso incidentale va dichiarata inammissibile la istanza formulata dalla società, per la prima volta nel controricorso (pag. 19-21), in via condizionata all’accoglimento del primo motivo di ricorso, volta all’annullamento della sanzione pecuniaria irrogata, in applicazione della causa di non punibilità prevista dagli artt. 8 Dlgs n. 546/1992, 6 co 2 Dlgs n. 472/1997 e 10 co 3 della legge n. 212/2000, sul presupposto dell’asserita esistenza di obiettive condizioni di incertezza sulla portata e sull’ambito di applicazione della norma di cui all’art. 2389 c.c. (trascurando, peraltro, la parte resistente che l’esonero dalla punibilità concerne esclusivamente l’errore incolpevole su “norme tributarie”). Segue la condanna della società soccombente delle spese relative al giudizio di legittimità, liquidate in dispositivo, dichiarate compensate le spese relative ai gradi di merito.
P.Q.M.
Accoglie il ricorso, quanto al primo motivo, assorbiti il secondo e terzo motivo; cassa la sentenza impugnata e, decidendo la causa nel merito, rigetta il ricorso introduttivo proposto dalla società che condanna alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità, liquidate in € 7.000,00 per compensi, oltre le spese prenotate a debito, dichiarate interamente compensate le spese relative ai gradi di merito.
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